Caro Carlo,
la mia impressione è che condividiamo un’analisi ed un obbiettivo di fondo.
L’analisi che da decenni l’università italiana è soggetta ad un processo di trasformazione, che la sta smantellando, volto a piegarla alle esigenze del sistema produttivo introducendo ideologicamente nella sua struttura principi di funzionamento aziendali, differenziando e mettendo in competizione tra loro gli Atenei.
L’obbiettivo di contrastare questo processo, difendendo un’università pubblica, di massa, libera e democratica, in grado di ricoprire una funzione sociale più complessiva, volta a garantire i diritti di tutti e anche ridurre le disuguaglianze presenti nel paese.
Questa condivisione non è poco, soprattutto in un periodo storico come questo, e mi sembra importante sottolinearlo.
Io penso anche che il 2010, l’approvazione della Legge Gelmini, abbia rappresentato uno spartiacque. Quella legge è stata contrastata da un grande, e articolato, movimento universitario. Un movimento di studenti, docenti, personale tecnico amministrativo. Nelle piazze, sui tetti e persino con degli scioperi. La FLC è stata parte di quel movimento, e lo rivendica pienamente. Quella lotta però l’abbiamo persa, lo sappiamo, e questa sconfitta ha avuto delle conseguenze.
In primo luogo, l’università ha definitivamente superato il modello parzialmente democratico della 382 del 1980. Certo, un modello imperfetto e problematico, che separava in “ruoli” la docenza universitaria, ma che aveva portato in Università elementi partecipativi e di trasparenza, imposti dal lungo ciclo delle lotte degli anni settanta. Con quel modello si era provato a superare l’Università elitaria e piramidalizzata precedente, fatta di cattedre, precariato strutturale quasi servile (gli assistenti), Istituti e Facoltà senza gestioni collettive. La legge Gelmini, da questo punto di vista, non ha semplicemente “spostato il peso decisionale dalla docenza all’amministrazione”. Ha strutturato invece nuove gerarchie negli atenei, nel quadro competitivo impostato dalle precedenti “riforme”. In tal modo ha prodotto nuove gerarchie interne che ha imposto a tutte le sue componenti. Certo, abbiamo visto il Direttore Generale, con le sue nuove prerogative, anche Statutarie. Ma anche i nuovi poteri e compiti dei Rettori, che vengono pure tendenzialmente autonomizzati dalla propria base di riferimento (con un unico mandato di sei anni). E organi accademici (Senati e Consigli) spesso non più o non solo semplicemente elettivi. L’Università non è un mondo in cui si confrontano paritariamente le sue componenti costitutive (docenti, studenti, personale tecnico amministrativo) e al loro interno sono state rafforzate precise gerarchie di potere, consolidando un modello piramidale di comando e controllo.
Io credo che dobbiamo riconoscere che il mondo universitario, e la docenza in particolare, non è stato semplicemente un soggetto passivo di un’aggressione esterna (la Politica, le Leggi, l’Impresa, l’Economia, e magari che so, anche i Sindacati). Se una parte di questo mondo si è opposta, nelle piazze e sui tetti, alla legge Gelmini, un’altra parte invece l’ha sostenuta, ed ha persino contribuito a scrivere questa Legge. E una parte, forse maggioritaria, ha ignorato quanto stava accadendo. L’ANVUR (diretto da docenti universitari) si è nel tempo mostrato sempre più pervasivo e decisivo nel dettare, nei fatti, gli orientamenti di ricerca da seguire, quindi limitando la libertà di ricerca e l’autonomia gestionale e didattica delle strutture. Qui sì, e per davvero, si è violentata la libertà di ricerca e si è piegata alla decisione di pochi l’offerta formativa degli atenei.
In questi anni quindi la differenziazione competitiva tra gli Atenei e dentro gli Atenei non è stata solo promossa da MIUR e ANVUR, ma è stata anche accolta e sostenuta da una parte significativa del corpo accademico. In questo contesto vediamo oggi prodotti mille e mille regolamenti di Ateneo, tutti comunque proposti e approvati dai propri organi accademici (anche quelli elettivi) che hanno differenziato diritti e condizioni di lavoro nelle Università. Ed ogni volta che al CUN, o negli incontri che abbiamo organizzato o a cui abbiamo partecipato, si sono chiesti principi e linee guida comuni, per garantire un minimo di uniformità, Rettori e CRUI (non il MIUR o la Politica), hanno rivendicato piena autonomia ed autogestione, a garanzia “della qualità”, del “merito”, della “governance”.
Mi pare allora che lo stato giuridico non sia più in grado di fare da barriera e di difendere la libertà di ricerca e docenza. Perché ogni Ateneo ha avuto mano libera nello stabilire compiti e mansioni. Ore di didattica obbligatoria, giorni di presenza in Ateneo, obbiettivi minimi per aver diritto a fondi di ricerca, mansioni istituzionali e di servizio da ricoprire. Compiti e orari che oggi quindi non sono più “flessibili”, in ragione delle necessità dei settori di ricerca, ma sono semplicemente diversi sulla base delle differenti esigenze, e amministrative e di bilancio dei 97 Atenei italiani. Nessuna flessibilità: solo 97 diversi rapporti di lavoro.
Per questo mi è parso necessario aprire questa discussione, rompere la tranquillità dello stagno di uno Statuto giuridico astratto, che si concretizza in 97 rapporti di lavoro differenti.
E voglio anche sgombrare il campo dall’idea poco fondata che l’unica possibilità di recepire il dettato costituzionale dell’autonomia e della libertà di insegnamento e ricerca sia quella di disegnare un regime di diritto pubblico per il rapporto di lavoro della docenza universitaria. Su queste questioni penso sia quindi fondamentale continuare a confrontarsi, senza preclusioni o tabù. Ciò che a mio parere è mutato velocemente negli anni della crisi è il modo in cui la funzione regolativa dello Stato interpreta il ruolo sociale dell’Università. Lo stato giuridico oggi mostra i propri limiti proprio perché è entrato in crisi il legame tra l’autonomia del sistema universitario e la sua tradizionale rappresentanza politico-legislativa. Dentro questa crisi i processi di ri-centralizzazione della così detta nuova governance universitaria hanno generata la forte riduzione dell’autonomia statutaria i cui effetti sono a tutti noi evidenti, e l’allargamento del potere direttivo e di governo delle amministrazioni.
In questo quadro, è sempre bene ricordarlo, una parte dei docenti (circa il 10%) è già contrattualizzata. E temo che questa quota crescerà nel tempo. Ai ricercatori a tempo determinato (tipo A e tipo B) sono infatti applicati contratti subordinati di lavoro, individuali e regolamentati da ogni Ateneo. Con enormi differenze tra Ateneo e Ateneo.
In questo quadro si pone la necessità, secondo noi, di ricostruire regole minime comuni. Credo si debba considerare l’eventualità che custodire senza possibilità di messa a critica, l’idea di stato giuridico come assoluto elemento distintivo della specificità del ruolo della docenza universitaria possa toglierci strumenti di avanzamento utili. In primis quello di poter organizzare uno spazio dialettico generale e inclusivo quale è il contratto collettivo, in grado di limitare l’arbitrio della regolazione per legge. Vorrei dirlo con chiarezza, è il precariato universitario l’elemento principale da cui dovremmo partire per questo ragionamento e provare a sperimentare soluzioni nuove.
Da questo punto di vista, vorrei evitare ogni possibile dietrologia. Credo che non le opinioni, ma la storia di questi anni abbia abbondantemente dimostrato che i “governi amici”, come le “complicità” determinate da precedenti appartenenze, non esistono proprio più (se anche fossero esistite in passato). Nella propria discussione, nella definizione della propria linea, la FLC è pienamente autonoma. Dico di più, anche sul merito della questione. Non credo proprio che in questo governo, come nelle forze che stanno conducendo i processi competitivi in università, ci sia nessuna reale voglia di contrattualizzare. Non ne hanno nessun bisogno.
Dentro l’attuale quadro dello stato giuridico, svuotato di senso da una Legge ed una prassi che permettono ad ogni Ateneo di regolare liberamente e competitivamente anche il rapporto di lavoro di professori e ricercatori, nessuno ha bisogno di un contratto per differenziare il lavoro docente. Basta invece lasciar andar le cose come stanno andando. Tanto persino sullo stipendio si sta producendo una progressiva differenziazione “per merito”: gli scatti di anzianità sono oggi attribuiti per valutazione, sulla base di criteri liberamente stabiliti Ateneo per Ateneo. Se guardiamo i regolamenti approvati, qui gli organi accademici di ogni Ateneo mostrano di aver pienamente utilizzato questa libertà. Se prendiamo in considerazione anche solo l’inattività della ricerca (uno dei 3 parametri previsti dalla legge), nei prossimi anni è probabile che gli incrementi stipendiali non saranno attribuiti a circa il 10% dei docenti. I soldi “risparmiati”, attraverso incentivi, saranno quindi distribuiti ad altri docenti di quegli Atenei particolarmente “e diversamente” meritevoli. Nel giro di pochi anni, si rischia che un quinto dei docenti in ruolo abbiano quote stipendiali differenziate per merito, senza nessuna regola nazionale uniforme. Ed in questo quadro, basterà ad un organo accademico cambiare una soglia, unilateralmente e con una semplice delibera, per alzare anche significativamente questa percentuale. Non serve, allora, un contratto per differenziare il lavoro docente. Piuttosto in questi anni abbiamo visto proporre lo stato giuridico per i docenti della scuola o per i ricercatori degli enti, proprio per rompere quella mediazione organizzata che il contratto collettivo rende possibile.
E’ altro quello di cui oggi hanno bisogno i soggetti e le forze che vogliono affermare questo processo competitivo nelle università. Hanno cioè la necessità di render ancor più competitivo il contesto, rompendo alcune barriere che in questi trent’anni hanno faticosamente retto, grazie anche alle lotte ed alla mobilitazione di studenti, docenti, precari e personale tecnico amministrativo: il valore giuridico del titolo di studio (cioè un ordinamento didattico nazionale uniforme), il profilo pubblico degli Atenei, la prevalenza delle risorse centrali nel loro funzionamento, un diritto allo studio basato su risorse pubbliche. Su questi elementi, come sulla necessità che anche tu sottolinei di rifinanziare il sistema universitario nazionale, di garantire un vero diritto allo studio e di dare avvio ad un piano straordinario di reclutamento, si gioca la resistenza ed il rilancio dell’università pubblica e di massa nel nostro paese.
Per questo, proprio nelle scioperi e nelle proteste di queste settimane, abbiamo sostenuta la necessità di una piattaforma ed una lotta complessiva, su scatti, risorse, difesa dell’università in tutte le sue componenti, a partire proprio dal precariato.
Intendiamoci. Né stato giuridico, né contrattualizzazione, in sé sono una risposta. Ciò che a noi interessa, valutando l’una e l’altra opzione, è sviluppare collettivamente degli strumenti più adeguati per rispondere alla crisi in corso nell’università. Ne abbiamo discusso pubblicamente in un seminario di confronto, qualche settimana fa. La dialettica tra le diverse posizioni sulla contrattualizzazione è ben emersa durante i lavori del seminario. Come potrai ascoltare, le prese di posizione sono state tutte problematiche, aperte, e hanno mostrato quanto ampi siano i problemi legati tanto alla tenuta dello stato giuridico, quanto all’introduzione di un regime nazionale di contrattualizzazione. Ma ci hanno permesso di porre in discussione il “lavoro docente” e la docenza come lavoro. Questo è oggi il nostro intento.
Il tema da porsi, nel nuovo panorama definito dalla Legge Gelmini, è come resistere ed invertire queste processi. Allora la proposta che ho lanciato intendeva propria aprire il confronto e la discussione tra noi, rendendo esplicite differenze e problemi che sono rimasti per anni silenziati. Una discussione fra noi, in FLC e nel mondo universitario, che non è chiusa. Nei prossimi mesi la porteremo avanti in assemblee e incontri, nei territori e nei diversi Atenei. A fine novembre terremo, nell’Università di Cosenza, un’assemblea nazionale in cui come FLC CGIL ci confronteremo con soggetti istituzionali e territoriali su cosa e come cambiare nelle università. Poi faremo un bilancio, di tutto questo percorso, delle diverse voci e delle diverse opinioni che avremo raccolto, dentro e fuori di noi. Ed il prossimo anno avremo anche un congresso, in cui abbiamo anche occasione di definire, discutere e far votare a tutti i nostri iscritti la nostra linea e la nostra proposta sull’università. Apertamente e democraticamente, come sempre abbiamo fatto nella nostra storia. Un percorso che credo possa esser utile non solo alla FLC, ma anche alla ripresa di una resistenza diffusa in tutti gli Atenei, per un’università pubblica, democratica e di massa.
E cosa c’è di male se gli atenei dovessero competere l’uno con l’altro? In tutti i paesi in cui il sistema prevede questa competizione, la qualità della ricerca universitaria è più alta che da noi.
Siamo nostalgici sovietici, ancora non si è capito?
Alta quanto?
Questi sono i numeri della produttività. Non siamo messi male, nonostante quel che pensa Aguzzi.
Wow, l’Italia avrebbe la produttività scientifica più alta al mondo eccetto la Cina!!! Ma lo voglio anch’io quello che il compilatore di questa statistica stava fumando! :)
È lo stesso compilatore che fornisce i dati bibliometrici ad Anvur, ovvero Scopus. In ogni caso, si tratta di statistiche note da tempo:
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Loet Leydesdorff & Caroline Wagner, Research Funding and Research Output: A Bibliometric Contribution to the US Federal Research Roadmap,Science and Development Bulletin, Issue No.50 – April 2009, http://www.sciencedev.net/Docs/uss.PDF
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In particolare, già nel 2009 Leydesdorff & Wagner mostravano (questa volta con dati Web of Science) che il costo per pubblicazione italiano era inferiore a quello di Giappone, Canada, USA, Francia, Svezia, Germania, Australia. I dati, comunque li si giri, sono questi, sia con Scopus che con WoS (ora Clarivate).
Ho sempre trovato divertenti quelli che ridacchiano quando i dati smentiscono i loro pregiudizi. Soprattutto quando capisco che lo fanno perché ne sanno poco o nulla.
Tra l’altro bisognerebbe almeno saper leggere i grafici. Il grafico non dice che “l’Italia avrebbe la produttività scientifica più alta al mondo eccetto la Cina”, per il semplice motivo che mostra solo una selezione di nazioni. Ce ne sono altre, non mostrate, che sono più produttive (vedi Leydesdorff & Wagner). Ma il confronto con USA, UK, Germania, Francia, Canada. Giappone e Cina è ovviamente significativo, anche se non rappresentano tutto il mondo.
Non siamo messi male, e infatti i ricercatori stranieri (e gli italiani espatriati, come il sottoscritto) fanno la fila per poter lavorare in Italia. :)
Scherzi a parte, sono d’accordo: ci sono isole di assoluta eccellenza nell’Università italiana. E i migliori postdoc stranieri in quei posti ci vogliono andare davvero. Nel mio campo citerei p.es. Cesare Montecucco, che secondo me si sarebbe meritato il Nobel con Randy Scheckman. Peccato che questi centri di eccellenza affogano in un mare di mediocrità. E respingere la competizione tra atenei non migliora le cose. In Germania, per esempio, la Exzellenzinitiative ha prodotto un salto di qualità attraverso la competizione tra atenei. Il lampo di genio è l’istituzione degli overheads, che permette ai migliori di ricevere più soldi (anche per gli stipendi).
“ci sono isole di assoluta eccellenza nell’Università italiana.[…] Peccato che questi centri di eccellenza affogano in un mare di mediocrità”
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Di nuovo, bisogna saper leggere i grafici: quei grafici parlano di una produttività media e di un impatto medio per Euro speso che non sono compatibili con il “mare di mediocrità” che Aguzzi dà per scontato.
Che poi non è detto che tutto ciò che non è eccellenza sia mediocrità, forse neanche nella Svizzera tedesca.
Insomma, non volevo certo insultare l’intero corpo accademico italiano, che tra l’altro mi ha conferito due lauree honoris causa delle quali sono orgoglioso e grato. Ripeto, il motivo del mio dissenso è l’osservazione (faticosamente distillata dal verbosissimo intervento di Sinopoli) che la competizione tra gli Atenei sia una cattiva cosa. Ripeto, nella mia esperienza invece è stata un’ottima cosa dovunque questa sia stata adottata (o imposta).
Il problema è che puntare sulla competizione per coltivare l’eccellenza può indurre nella tentazione di imboccare scorciatoie. Basta pensare ai casi di manipolazione dei cosiddetti Western blots:
http://retractionwatch.com/2012/04/03/can-we-trust-western-blots/
We agree to disagree – profondamente. Di Westerns nella mia carriera 30ennale ne avrò fatti >5’000, e l’aspetto agonistico è altrettanto importante e motivante come quello collaborativo. La ricerca di punta è simile all’atletica di punta: siamo tutti un team, facciamo fair play, ma ciascuno di noi vuole essere il primo. Se togliamo questo aspetto, smantelliamo metà della motivazione (e del piacere) di fare il ricercatore. Ad ogni modo tutto questo è fuori tema, io mi riferivo alla competizione tra gli atenei (per i migliori studenti, per i fondi, per i migliori PIs), e quella è fondamentalmente differente dalla competizione (altrettanto legittima) tra singoli ricercatori.
ma se un ricercatore pubblica su riviste prestigiose, magari truccando i Western Blots, poi diventa appetibile dagli atenei in gara per scalare le classifiche.
Infatti la competizione tra ricercatori c’e’ già. Ma la competizione tra atenei:
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1. non ha senso se significa doversi strappare l’un l’altro ossetti già spolpati. Che ci siano finanziamenti confrontabili con quelli di altri paesi europei e poi ne discutiamo. Non prima.
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2. deve tener conto delle dimensioni del nostro Paese (il numero di università italiane non e’ fuori scala rispetto a paesi confrontabili per popolazione come Francia e Germania)
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3. per la questione del competere per avere i migliori studenti sarei estremamente cauto. Ci sono sistemi (quello USA e anche quello francese delle Grands Ecoles) che puntano a pre-selezionare gli studenti e assegnare loro un “bollino di qualità” legato piu all’ università frequentata che alle capacità individuali. Ci sono sistemi come quello italiano ma anche quello tedesco in cui l’effetto è decisamente minore. La mia esperienza, nel campo della Fisica è che la formazione in “siti d’eccellenza” è unicamente garanzia di un buon livello medio. Nulla di più. Le eccellenze (quelle vere) le ho viste nascere in modo indipendente dal pedigree di studi. Con buona pace dei mantra correnti.
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Infine, mi piacerebbe che si smettesse di voler importare “a pezzi” sistemi stranieri. O importiamo tutto, nel bene e nel male, o per favore, smettiamo di pensare che l’ introduzione di elementi “a la carte” possa funzionare in contesti profondamente diversi.
Per essere più chiari: se proprio dobbiamo importare modelli “Harvard here”, facciamolo anche per i soldi.
Personalmente sulla questione contrattualizzazione ho una posizione laica. E’ sicuramente un’opzione da discutere e valutare. Le garanzie costituzionali su libertà di insegnamento e ricerca possono, e dovrebbero, essere indipendenti dalla forma di rapporto di lavoro.
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Pongo però a Sinopoli e alla FLC-CGIL una questione tattico-pratica. Siamo sicuri che con i rapporti di forze attualmente in campo, e con la frammentazione e poca coscienza sindacale del corpo docente, sia questo il momento?
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Come Università statale siamo sotto attacco. Onestamente non vedo motivo, in una situazione di emergenza, di mettere la questione del rapporto di lavoro in priorità alta, mentre ci sono liberta’ che dovrebbero essere garantite dalla Costituzione, sotto qualsiasi forma, che vengono messe in discussione.
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Purtroppo, quello che vedo in altri settori, non mi porta ad essere ottimista sul ruolo salvifico della contrattualizzazione. Soprattutto quando la controparte di un MIUR/ARAN/rettori(?) fossero una ventina di sigle sindacali con una maggioranza di docenti “orgogliosamente” non sindacalizzato.
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Mi piacerebbe vedere *prima* il nascere di una forza veramente in grado di sedersi attorno al tavolo col Governo per ridiscutere la politica sull’ Università, piuttosto che sperare che nuove alchimie facciano miracoli.
Onestamente il sindacato la battaglia di dare una rappresentazione unitaria al mondo universitario la ha persa da trenta anni. Oggi il sindacato non può pretendere di rappresentare nessuno che non accetti di essere rappresentato.
Se facessimo un referendum tra tutti i docenti universitari il consenso per la proposta di Sinopoli sarebbe ridotto all’ osso.
Credo che la necessità di rappresentazione della docenza universitaria, anche per le sue peculiarità di natura costituzionale, non possa essere risolta con una contrattualizzazione all’ interno del pubblico impiego ma piuttosto con forme associative più vicine a quelle dei magistrati.
Nel merito, l’intervento di Sinopoli appare confondere l’autonomia universitaria con la visione mercatistica della legge Gelmini. L’autonomia invece è per se un valore positivo e gli atenei non possono essere trattati come scuole medie che fanno tutti gli stessi programmi, dentro una organizzazione totalmente standardizzata. Liberta di ricerca e di insegnamento richiedono anche organizzazioni dotate di alcuni gradi di libertà. Mi pare che invece oggi da troppe parti: Cantone, Sindacati, Ministero Anvur, si voglia imporre schemi rigidi che rischiano di spegnere ogni elemento di creatività ed originalità. Gli atenei non sono imprese in concorrenza tra loro poichè devono svolgere un servizio pubblico, ma hanno il diritto di darsi una loro personalità culturale e scientifica senza burocrazie tedesco-orientali ante caduta del muro.
In quello che scrive Sinopoli c’è un eleemnto evidentemente vero: inutile mitizzare l’ autonomia se questa viene violata sistematicamente su questioni strategiche (organizzazione, valutazione, obiettivi della ricerca) e poi viene utilizzata solo per creare 97 rapporti di lavoro diversi a parità di stato giuridico. Non vedere questo è miope come pensare che venga tutto risolto dalla contrattualizzazione.
[…] Risposta di Francesco Sinopoli sulla contrattualizzazione della docenza universitaria […]
Ci sono spunti interessanti ed analisi che trovo condivisibili, specie su quello che sottolinea sopra Giorgio Pastore.
Il punto debole, sempre a mio personale avviso, e’ che questa discussione prenda per riferimento quelli che sono invece limiti culturali del nostro sistema accademico, che possono e debbono essere superati.
Lamento in particolare il livello della discussione relativa ai giovani. Non si parla reclutamento. Non si parla di PhD. Non si parla di postdoc. Si parla di precari. Si parla di “assegnisti” (orrore!!!)
Bisogna mirare ad un sistema sano, come quello in cui uno studente che aspira ad entrare nella accademia o nel mondo della ricerca debba fare PhD, postdocs, e poi un tenure track per avere un lavoro, invece che a un sistema confuso in cui non si sa cosa e’ un “dottore di ricerca”, in cui un postdoc viene chiamato “cheque of research”, ed in cui ci sono forme ingessate come RTDA e RTDB.
Infine mi trovo in disaccordo su alcuni punti della analisi,
1) dove si stigmatizza il fatto che si stanno “mettendo in competizione tra loro gli Atenei.” Mille anni fa, a Bologna, agli albori della universita’, gli studenti sceglievano i loro professori; questo a casa mia si chiama competizione.
2) dove si auspica “un’università pubblica, di massa, libera e democratica.” Mi piace tanto la qualifica “democratica”, e anche quella “libera”, ma “di massa” che significa? No: l’universita’ deve essere un modo di venire fuori dalla massa. (Se poi si vuole semplicemente dire che tutti devono avere opportunita’, si dica “accessibile”)
3) dove si sostiene che “il precariato universitario l’elemento principale da cui dovremmo partire per questo ragionamento e provare a sperimentare soluzioni nuove.” Troppo vago e pericoloso parlare cosi’. Quando, in questo contesto, si qualifica qualcuno come “precario” siamo gia’ fuori strada. Ci devono essere regole chiare e percorsi impegnativi, difficili magari, ma trasparenti, in cui ognuno possa mostrare il proprio valore. Si studia in un posto; si fa il PhD in un altro; ed il postdoc in un terzo posto ancora; e infine si entra nella universita (o nel mondo della ricerca) con un bel blasone personale, non con il professore (o il sindacato) alle spalle.
Mi sento di sostenere che nelle università (e nel mondo della ricerca) bisogna far crescere le persone, non i gruppi organizzati.
Bravo Francesco Vissani, sono d’accordo su tutte le tue osservazioni. In fondo, quello che dici è che sarebbe un bene adeguare l’avanzamento professionale universitario italiano a quelli ben collaudati nei paesi dove la ricerca è eccellente. PhD, postdoc, tenure track: non c’è nessun bisogno di reinventare la ruota. Chiunque voglia informarsi può rendersi conto che queste cose funzionane bene. Alla necessità (si, necessitä) di competizione tra atenei aggiungerei la necessità di pagamenti overheads. Gli overheads incentivano le università ad assumere gli scienziati migliori, che attrarranno grants (ERC ed altri) che portano fondi aggiuntivi. L’importanza degli overheads per un mondo di ricerca sano e produttivo è fondamentale!
Di quali overhead stiamo parlando? Ci sono gia’ e chiaramente incentivano ad assumere i più promettenti sul fronte grant (se poi siano davvero i migliori sarebbe un discorso a parte che ci porterebbe probabilmente molto lontano). Ma, restando sul piano del “grant e’ bello”… c’e’ un ma. Finché si dovra’ contare solo sugli overhead per grant ERC non siamo in un una situazione sana. Il problema è che mentre negli altri paesi “sani”, in aggiunta a grant ERC ci sono grant nazionali adeguati per numero e per importo alle dimensioni nazionali, in Italia siamo sotto un rubinetto che manda giù poche gocce ogni N anni.
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Sfido chiunque a trovare un sistema “sano” in queste condizioni.
Per comprendere più a fondo le proposte di Sinopoli, sarebbe interessante sapere l’opinione dello stesso su alcune cose, per esempio (solo per esempio):
a) il personale dell scuola, contrattualizzato, come ha visto valorizzare il proprio lavoro negli ultimi anni? In altri termini: la contrattualizzazione è stata di aiuto?
b) Quannti ricorsi ha proposto il sindacato rispetto a punti dei regolamenti di ateneo apparentemente illegittimi (ad esempio, mi chiedo rispetto ai giorni di presenza in ateneo: porre un vincolo regolamentare non contrasta in maniera esplicita con le leggi ESISTENTI che regolano la funzione dei docenti?)?
c) Quanti sono esattamente gli iscritti al sinadacato di Sinopoli appartenenti alla funzione docente?
Forse, dando una risposta a quesiti come quelli indicati, si potrebbe comprendere che il sindacato avrebbe enormi potenzialità per limitare la diversificazione in atto (o la parte “patologica” di tale diversificazione), se volesse, già con gli strumenti oggi disponibili.
Dare tale deriva per ineluttabile mi suona strano…
Si comprenderebbe, pure, forse, che, in altri casi, senza un mutamento normativo, non c’è via di scampo, contrattualizzazione o non contrattualizzazione. Per esempio: la legge Gelmini prescrive che siano i regolamenti di ateneo a definire i dettagli per lo scatto stipendiale. Fino a quando tale legge (o almeno il comma 14 dell’articolo 6) sarà in vigore, spetterà agli atenei stabilire le regole per lo scatto.
Allora, non vorrei che la discussione sulla contrattualizzazione nasconda altri obbiettivi: perché non iniziamo ad impegnarci affinché, ove possibile, quello che contrasta con le leggi attuali venga eliminato?
Affinché si ritorni più vicino al dettato costituzionale che identifica la LIBERTA’ come elemento più caratteristico dell’arte e della scienza e del loro insegnamento?
Sinopoli dice, pure (se capisco bene), che alla politica il tema della contrattualizzazione non interesserebbe. può darsi. Ma qualche tempo fa, se non mi sbaglio, sembrava di intravedere temi simili nei discorsi di politici importanti. E’ un caso?
“Il tema da porsi, nel nuovo panorama definito dalla Legge Gelmini, è come resistere ed invertire queste processi.”
Invece di andare a Cosenza per discutere democraticamente “su cosa e come cambiare nelle università.” Sinopoli farebbe bene ad andare a Cosenza per discutere democraticamente come ABOLIRE la legge gelmini in modo che si evitino:
– precariato strutturale;
– stipendi da fame e carichi di lavoro enormi per persone che avranno pochissime possibilità di restare nell’università PUR FACENDO BENE IL PROPRIO LAVORO;
– 97 diversi rapporti di lavoro giusto per rendere la massa di precari una atomizzazione di individui senza diritti( molto è stato già fatto a giudicare dal modo IDIOTA con cui molti precari pensano ai propri diritti negati di individuo SENZA accorgersi della universalità dei diritti mancati della categoria;
– le lestofanterie diffuse nel corpo docente al fine di aumentare i propri indici valutativi;
– la figura meschina del docente zerbino del direttore di dipartimento, tutto pronto a difendere i propri aguzzini per essere più realista del re in attesa che le monete roventi del marchese del grillo cadano dal balcone della direzione di turno.
Questi problemi (e altri non elencati per spazio) sono il frutto avvelenato del SOTTOFINANZIAMENTO cronico del sistema dovuto alla applicazione della gelmini (voluta da una parte del corpo docente per mantenere i propri privilegi di gestione di fondi, posti e potere, as usual) e DEL MODELLO universitario aziendalistico insito NELLA legge Gelmini e non un semplice effetto di una applicazione “interpretata diversamente” di un regolamento interno all’università.
La proposta di Sinopoli, sebbene parta da un’analisi attenta dei problemi e della situazione attuale universitaria, si limita a essere una presa di coscienza
della impossibilità di cambiare modello se non all’interno della cornice legislativa vigente, che ha già definito i rapporti di lavoro docente come subordinati né più né meno, al netto delle dovute proporzioni, come quelli già esistenti e contrattualizzati a condizioni da FAME tipo Almaviva, Deliveroo e quant’altri.
Un sindacato così NON serve (né all’università né in altri ambiti della società) per migliorare le condizioni umane dei lavoratori ma al massimo per fargli digerire le disuguaglianze sociali imposte per legge.
Cordialmente
Plaudo all’iniziativa di ROARS di ospitare interventi esterni alla redazione.
Inviterei però anche le altre associazioni rappresentative dei docenti universitari, incluse le associazioni di precari, a intervenire e presentare e loro opinioni.
Come sempre, siamo aperti ai contributi dei lettori.