Tra la somma dei tributi pagati in Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna e la spesa pubblica erogata in quelle medesime Regioni – si sostiene – v’è una differenza positiva: i tributi pagati eccedono largamente la spesa; tale differenza è il residuo fiscale, ed è quanto le Regioni del Sud hanno sottratto e sottraggono a quelle del Nord, e che perciò debbono a esse “restituire”. In realtà, se nella base di calcolo del residuo fiscale si comprendono anche gli interessi sul debito pubblico (Residuo Fiscale Finanziario), esso si assottiglia fino a scomparire. A fondamento della proposta di massiccio trasferimento delle funzioni sono addotti i dati della Ragioneria Generale dello Stato, i quali comproverebbero il più basso livello della spesa pro capite nelle Regioni che chiedono l’autonomia differenziata a confronto con le Regioni del Sud. Ma tali dati si riferiscono soltanto alla spesa pubblica regionalizzata, che è poco più del 43% della spesa totale dello Stato. Se, invece, si considerano i dati del Sistema dei Conti Pubblici Territoriali (CPT), riferiti alla spesa erogata dalla pubblica amministrazione nel suo complesso, le Regioni che chiedono la differenziazione balzano in cima alla classifica e la spesa per abitante e per settori risulta assai minore al Sud (con le conseguenze note sul livello di garanzia dei diritti sociali).

Pubblichiamo un recente documento dell’Osservatorio sul Regionalismo differenziato, istituito presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Napoli Federico II, che seleziona le prime risultanze “ormai ferme nel dibattito scientifico” in materia di Regionalismo differenziato.

  • Documento Osservatorio regionalismo differenziato: pdf

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Osservatorio sul Regionalismo differenziato

istituito presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Napoli Federico II con decreto direttoriale n. 83 del 2 agosto 2019

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Il tema del regionalismo differenziato è di nuovo nel fuoco del dibattito politico-istituzionale, poiché è fatto oggetto di “contrattazione” tra le delegazioni dei partiti in vista dell’eventuale formazione di un nuovo governo.
Sembra opportuno che l’Osservatorio – avente lo scopo, per proprio atto costitutivo, di rendere disponibile “un contributo critico, scientificamente fondato, delle Università” – metta in campo alcune prime risultanze, selezionando quelle ormai ferme nel dibattito scientifico.

I. Il quadro concettuale e analitico

Alla base delle proposte di trasferimento pressoché generalizzato delle competenze identificate dall’art. 117, c. 3, Cost. verso le tre Regioni che hanno dato avvio al processo devolutivo – Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna – v’è il concetto di residuo fiscale. Tra la somma dei tributi pagati in ciascuna di tali Regioni del Nord e la spesa pubblica erogata in quelle medesime Regioni – si sostiene – v’è una differenza positiva: i tributi pagati eccedono largamente la spesa; tale differenza è il residuo fiscale, ed è quanto le Regioni del Sud hanno sottratto e sottraggono a quelle del Nord, e che perciò debbono a esse “restituire”.

Ma una tale accezione di residuo fiscale è priva di fondamento teorico: il concetto di residuo fiscale è dovuto a James M. Buchanan, che lo elaborò per identificare un parametro idoneo a valutare l’adeguatezza dell’attività redistributiva del decisore pubblico, sul presupposto che residui fiscali derivanti semplicemente dalla presenza in un determinato territorio di cittadini dotati di maggior reddito sono eticamente giustificati; e al decisore politico spetta garantire che, a parità di reddito, i cittadini ricevano eguale trattamento in qualsiasi parte del territorio dello Stato intendano risiedere. Adeguatezza dell’attività redistributiva, misurata alla luce di un parametro obiettivo: a tanto è inteso il calcolo del residuo fiscale. Quasi esattamente l’opposto di quanto si assume.

Sotto il profilo analitico, occorre poi segnalare quanto rilevato da SVIMEZ: se nella base di calcolo del residuo fiscale si comprendono anche gli interessi sul debito pubblico (Residuo Fiscale Finanziario), esso si assottiglia fino a scomparire.
Dunque, il residuo fiscale non sussiste, o è largamente inferiore a quanto enunciato. Ma, nella parte in cui esista, dovrebbe fondare politiche di perequazione tra Regioni.

A fondamento della proposta di massiccio trasferimento delle funzioni sono addotti i dati della Ragioneria Generale dello Stato, i quali comproverebbero il più basso livello della spesa pro capite nelle Regioni che chiedono l’autonomia differenziata a confronto con le Regioni del Sud.
Ma tali dati – ci dice ancora SVIMEZ – si riferiscono soltanto alla spesa pubblica regionalizzata, che è poco più del 43% della spesa totale dello Stato. Se, invece, si considerano i dati del Sistema dei Conti Pubblici Territoriali (CPT), riferiti alla spesa erogata dalla pubblica amministrazione nel suo complesso, le Regioni che chiedono la differenziazione balzano in cima alla classifica e la spesa per abitante e per settori risulta assai minore al Sud (con le conseguenze note sul livello di garanzia dei diritti sociali).

 

II. Il metodo: l’analisi delle funzioni

Quando si propone un trasferimento di funzioni dallo Stato alle Regioni (o, più correttamente, al sistema delle autonomie) occorre che il legislatore risponda alla domanda: perché trasferire? Occorre cioè stabilire quale sia la dimensione “obiettiva” della funzione, quale la dimensione dell’interesse implicato dal suo esercizio, quale di conseguenza il livello territoriale migliore al quale allocare la funzione. A tale domanda maggiore, e alle domande implicate, risponde la tecnica dell’analisi delle funzioni, collaudata con successo in Italia all’epoca del maggiore e più organico trasferimento di competenze amministrative dallo Stato alle Regioni, compiuto nella seconda metà degli anni Settanta del Novecento. Da allora tale approccio metodologico non risulta superato, e, quando è stato pretermesso, le scelte di dislocazione hanno condotto a risultati disfunzionali.

Esso, peraltro, può essere affinato, ampliando il quadro oltre i confini dell’analisi integrata competenze-procedimenti, in chiave interdisciplinare. Così, gli economisti possono preliminarmente fornire elementi utili a stabilire se, nell’esercizio di una determinata funzione in un determinato contesto regionale, le ragioni dell’“economia di scopo” prevalgono su quelle dell’“economia di scala”, in tal caso potendosi pensare di trasferire verso la Regione. Viceversa, il trasferimento sarebbe controindicato. Gli storici, gli scienziati sociali e della politica possono aiutare a identificare le competenze che tocchino un bene pubblico di natura tale da coinvolgere l’identità nazionale o che tocchino beni vitali: queste competenze vanno saldamente conservate allo Stato (si pensi a “materie” quali l’ambiente, i beni culturali, le infrastrutture, l’istruzione, in ordine alle quali tale valutazione preliminare dirimente appare imprescindibile).

Le prime risultanze dell’analisi delle proposte delle tre Regioni richiamate alla luce del metodo adottato fanno rilevare un errore di impostazione: si prevede il trasferimento delle somme che attualmente lo Stato spende per ciascuno dei servizi di cui si prefigura la dislocazione. Ma quest’approccio non è corretto, ed è necessario un rovesciamento di prospettiva: in sede di analisi delle funzioni, in vista dell’eventuale decisione riallocativa, bisognerebbe misurare piuttosto quanto lo Stato risparmierebbe nel fornire esso quel servizio invece di attribuirlo alla singola Regione.

Peraltro, quanto agli assunti circa la dislocazione “ottimale”, occorrerebbe sottoporre a verifica, sulla base di parametri obiettivi e dell’analisi di contesto a opera di soggetti indipendenti, certi assiomi, espressi in forma del tutto apodittica e con la selezione arbitraria dei dati, circa la “maggiore efficienza” dei servizi in alcune Regioni.

Per lo svolgimento dell’analisi delle funzioni può risultare assai utile il riferimento al lavoro analitico compiuto da soggetti e strutture quali i Conti pubblici territoriali e la Sose, e, in sede di certificazione della correttezza delle metodologie, di organismi quali l’Ufficio parlamentare di Bilancio.

III. Il procedimento: piena applicazione dell’art. 72 della Costituzione

È apparso evidente, quando sono stati resi noti i contenuti delle “pre-intese” tra lo Stato e le tre Regioni sopra richiamate, che l’applicazione al caso del procedimento stabilito dall’art. 8, c. 3 Cost., concernente i rapporti tra Stato e confessioni religiose diverse dalla cattolica, è scelta di assai incerto fondamento normativo, essendo le “intese” cui si riferisce tale disposto costituzionale inassimilabili alle “intese” di cui tratta l’art. 116, c. 3, Cost.

La via maestra sarebbe la definizione preliminare di un procedimento, in attuazione dell’art. 116, c. 3, Cost.
Se le condizioni politiche che si sono venute creando non lo permettessero, occorrerebbe comunque individuare una sequenza parlamentare non preclusiva della piena applicazione dell’art. 72 Cost., in modo da consentire al Parlamento di entrare nel merito dei contenuti delle intese, senza rinviare a sedi extra ordinem le scelte sull’assegnazione delle risorse e sul trasferimento di competenze legislative e di funzioni amministrative.

Difficilmente, in caso diverso, la legge “atipica” che si è venuta profilando nel riferimento all’art. 8, c. 3, Cost. potrebbe sfuggire a censure di illegittimità costituzionale. Tanto più se la si concepisse come una sorta di via tortuosa alla creazione di nuove Regioni ad autonomia speciale. Una ipotesi da affinare e mettere a fuoco è quella di richiamare in campo l’attuazione del d.lgs. 6 maggio 2011, n. 68, approvato in forza della legge delega 5 maggio 2009, n. 42, sul cosiddetto “federalismo fiscale”, e recante “Disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario”.

Preliminare deve essere altresì la definizione dei “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (LEP), attribuita in via esclusiva alla competenza legislativa dello Stato dall’art. 117, c. 2, lett. m), Cost., senza la quale non sarebbe possibile un processo di trasferimento di funzioni conforme all’art. 119 Cost. E sarebbero impediti interventi perequativi in favore dei territori meno dotati di servizi, continuando a consentire a enti inefficienti di perpetuare gestioni poco virtuose.

In questo contesto, la differenziazione dovrebbe accompagnarsi alla correzione di scostamenti perduranti dal sistema delle autonomie dal quadro costituzionale: la mancata messa in opera del fondo perequativo infrastrutturale previsto dall’art. 119, c. 6; la fissazione al cinquanta per cento della perequazione, che invece, in conformità al disposto costituzionale, dovrebbe essere integrale; la fissazione dei fabbisogni standard, non alle necessità della popolazione, ma alla spesa storica comunale o regionale.

Nel complesso, le politiche in materia di autonomie territoriali vanno ricondotte nell’alveo costituzionale, correggendo discrasie e rimediando a omissioni in sede legislativa, poiché non può sottacersi che tali discrasie e omissioni hanno prodotto una distribuzione iniqua delle risorse, a vantaggio delle aree del Paese economicamente più forti, con la conseguenza di un grave aumento del divario Nord-Sud.

Napoli, 26 agosto 2019

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2 Commenti

  1. Sono incuriosito dal “residuo fiscale finanziario”, soprattutto su come venga calcolato. Una veloce ricerca porta ad una lista (lunga) di geremiadi che rimandano allo SVIMEZ, però non trovo il pdf con la metodologia.

    Se la redazione potesse aiutarmi…

  2. “La Commissione [SVIMEZ sul federalismo fiscale] ha dedicato una parte del lavoro alla critica dei cosiddetti “residui fiscali”. Tra gli analisti, si registra un consenso abbastanza diffuso sul considerarli un aggregato di carattere sostanzialmente statistico, peraltro di difficile stima, comunque poco rappresentativo di cosa sia in realtà la funzione redistributiva dello Stato, soprattutto è un concetto che riguarda la distribuzione tra i cittadini e non tra i territori. Lo studio citato di Giannola e Stornaiulo, del resto, evidenzia proprio che la redistribuzione avviene prevalentemente all’interno dei territori. Quella sui “residui fiscali” rappresenta in ogni caso una contabilità parziale, perché manca la considerazione di una delle principali voci di spesa, la spesa per interessi, che modifica profondamente il livello dei residui, e mancano altri flussi redistributivi da Sud a Nord. Su questo, si rimanda alla pubblicazione finale del lavoro della Commissione.”

    https://www.roars.it/wp-content/uploads/2019/08/2019_04_09_nota_regionalismo-7.pdf

    scaricato da: http://lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/05/2019_04_09_nota_regionalismo-7.pdf
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    La nota sopra citata è comunque interessante per i numeri che riporta che sembrano smentire decisamente il luogo comune che la spesa per abitante sia più alta al Sud che al Nord.

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