Una recensione al saggio “Il brevetto” di Andrea Capocci, in questi giorni in libreria per Ediesse.

Cominciamo col dire che ne parlano tutti. Da quando Samsung è stata condannata a pagare ad Apple l’indennizzo più alto nella storia per violazione di proprietà intellettuale, la patent war, la cosiddetta guerra del brevetto, è tornata al centro della cronaca e del dibattito politico. Il 7 ottobre il New York Times vi ha dedicato uno speciale, The patent used as a sword; l’ITU, Unione Internazionale per le Telecomunicazioni, qualche giorno fa ha convocato a rapporto nella propria sede di Ginevra Apple, Samsung, Nokia, Google, Microsoft. Il Chairman di Google Eric Schmidt in diretta da Seoul si è detto frustrato per le molteplici cause legali di Apple; Tim Cook, C.E.O. di Apple, le ha definite cose da pazzi, e per finire un documento della Federal Reserve Bank di St. Louis è arrivato a proporre l’abolizione dei brevetti.

Qual è il problema? Portato all’estremo il nodo della questione è la relazione tra proprietà intellettuale e innovazione: il brevetto è un incentivo all’innovazione, o sta diventando una norma parassitaria? È questa, in fondo, la domanda che siede al centro del testo di Andrea Capocci, “Il brevetto” (Ediesse, 2012). A partire dall’obiezione che sarebbe “ingenuo pensare che la proprietà intellettuale, di per sé, sia un incentivo o un ostacolo all’innovazione”, però, Capocci rifiuta le risposte semplici. “I brevetti sono inseriti in un contesto economico ed industriale, ed è piuttosto l’interazione di tutti i fattori a determinare il risultato finale, negativo o positivo che sia in termini di invenzioni prodotte” (p. 11). Il testo ripercorre dunque la storia, le vicende giuridiche, il ruolo economico del brevetto, cercando di rimanere in equilibrio tra le fila di un tema complesso.

Eccoci dunque nella Repubblica di Venezia, dove dal 1474 al 1797 vengono depositati circa 2 mila brevetti, un numero per abitante pari a quello degli Stati Uniti negli anni cinquanta del Novecento. Se vogliamo il brevetto nasce allora, inteso come contropartita sottoforma di royalty all’innovazione, volta ad attrarre e stimolare le migliori competenze artigianali nel settore tessile e in quello della lavorazione del vetro. Nasce un po’ lì il brevetto, ma nasce un po’ lì anche una delle narrative più ridondanti della società attuale: la proprietà intellettuale protegge l’inventore e stimola la creatività. Sarà vero? La legge della Camera di Commercio, dell’Industria, dell’Artigianato e dell’Agricoltura del 19 marzo 1474 scriveva di si: “vi sono in questa città e nei suoi dintorni, […] uomini […] dall’ingegno acutissimo, capaci di scoprire e trovare artifizi ingegnosi. Se fosse previsto che nessun altro possa appropriarsi dei loro lavori […] questi ultimi eserciterebbero il loro ingegno, e scoprirebbero e fabbricherebbero cose che sarebbero di non poca utilità e beneficio per il nostro Stato” (p. 55).

Non è tempo di ripercorrere tutta la storia del brevetto, diciamo solo che anche in Francia, l’Assemblea nazionale del 1791, favorita dal clima culturale della Rivoluzione francese, ribadisce la continuità tra proprietà individuale e diritto naturale, promulgando una legge che doveva garantirne l’esercizio mentre consentiva allo stato di mantenere un controllo sulle invenzioni brevettate e sulla propria politica industriale.

Veniamo a oggi. Negli ultimi anni la critica alla proprietà intellettuale ha messo in risalto una contraddizione intima nel brevetto, il fatto che laddove esso intenda proteggere la proprietà delle idee, sembra talvolta sottrarla, o inibirla. Era questo il tema de Il mondo sotto brevetto, di Vandana Shiva. Quando nel 1994 le industrie statunitensi del software e del settore agroalimentare e farmaceutico fanno pressione sull’amministrazione Clinton per inserire la proprietà intellettuale negli accordi legati al commercio sottoscritti dal Wto, il Trips, Agreement on Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights dell’Organizzazione Mondiale del Commercio firmato a Marrakesh, unifica sostanzialmente i criteri e gli ambiti minimi di brevettabilità, così come la durata dei brevetti, estendendo anche ai paesi in via di sviluppo i regimi brevettuali già validi in Occidente, e i brevetti a tutti i campi, incluso il vivente.

Monsanto, Bayer, le proteste dei coltivatori della cotton belt indiana, il brevetto del neem, arbusto ironicamente noto in India come “l’albero gratuito”, il tentativo di brevettare centinaia di specie vegetali tipiche delle Indie, dal haldi al karela sino a jamunkali mirch, il riso basmati o addirittura gli stessi asana yoga, sono esempi di quella che non a caso Vandana Shiva definisce come biopirateria, un uso del brevetto volto non tanto a proteggere la proprietà intellettuale, bensì a sottrarre conoscenza, impedendo alla collettività di rifarsi ai propri stessi saperi. La Shiva parla non a caso del brevetto come una nuova forma di espropriazione coloniale, la possibilità di riprodurre in laboratorio le caratteristiche biologiche di sementi, prodotti agricoli e farmaci al fine di sfruttarle privatamente su scala industriale, l’ultima frontiera della competizione in un mondo in cui non sono più le merci a produrre ricchezza, ma il sapere.

È qui che la contraddizione intima al brevetto diviene esplicita, il fatto che laddove esso venga dichiaratamente usato per proteggere la proprietà dell’inventiva, sembra in verità sottrarla, promuovendo la pirateria laddove dichiara di volerla scongiurare. In India, ad esempio, quando colossi di tecnoscienza quali le industrie statunitensi del software e del settore chimico e farmaceutico iniziano ad utilizzare il brevetto per controllarne il mercato, il Consiglio della Ricerca Scientifica e Industriale Indiano e il Dipartimento di Ayurveda, Yoga, Naturopatia, Unani, Soìddha e Omepatia del Ministero della Sanità si trovano costretti a creare una banca dati digitale dei saperi tradizionali, il TraditionalKnowledge Digital Library, Tkdl, per impedire l’espropriazione di tradizioni millenarie.

Capocci mantiene sempre un equilibrio molto articolato, e dunque non punta il dito sul brevetto in sé ma sul suo utilizzo come strumento centrale all’odierna concorrenza. La domanda che pone Capocci, però, è sottile: “vi è forse qualcuno che farebbe a meno del progresso, in nome della concorrenza assoluta?” (p.13) Siamo davvero disposti a uccidere l’innovazione per proteggere la concorrenza? Perché è di questo che stiamo parlando, ed è qui che il testo entra nei nodi più complessi.

In maniera sorprendente, scrive Capocci, “i problemi degli agricoltori del sud del mondo sono sorprendentemente simili a quelli degli scienziati del nord” (p. 21). Entrambi sostengono i costi sociali dell’esclusione rispetto all’utilizzo di tecnologie e strumenti brevettati. Se nel caso di Big Pharma si chiede se abbia senso mantenere il monopolio su un farmaco fino a renderlo inaccessibile ai malati, nel caso della ricerca scientifica il problema è il significato stesso di innovazione. Quando gli strumenti della ricerca scientifica vengono brevettati, i costi per generare nuova conoscenza salgono a dismisura. In precedenza, scrive Capocci, l’articolo 27 della Convenzione di Monaco sul brevetto europeo del 1973, oppure la sentenza della Corte suprema risalente al 1813 relativa alla controversia Whittemore v. Cutter, consentivano l’uso non autorizzato di una tecnologia brevettata a scopi scientifici, senza costituire violazione. In altre parole, “la ricerca priva di un’immediata applicazione commerciale non era tenuta a rispettare i brevetti e poteva disporre delle conoscenze con la massima libertà”.

Oggi, “il progressivo ritrarsi dell’investimento pubblico nella ricerca e la crescente integrazione tra le università e le imprese hanno reso sempre più labili i confini tra ricerca i confini tra ricerca pubblica e innovazione tecnologica” (p. 108), al punto che leggi come il Bayh-Dole Act negli Stati Uniti impongono alle università pubbliche di rispettare i brevetti sulle tecnologie che impiegano. “Se la sentenza Madey v. Duke University diventasse l’interpretazione prevalente, negli Stati Uniti solo i test sui farmaci in vista dell’approvazione da parte delle autorità sanitarie non saranno obbligati a rispettare i brevetti. Per gli altri ricercatori, pubblici o privati che siano, compiere ricerche senza violare i brevetti sarà sempre più difficile” (p. 131).

Insomma, la danza tra l’utilizzo del brevetto come incentivo o ostacolo all’innovazione ci porta oggi da quella che il biologo Garrett Hardin in un saggio del 1968 ha denominatoThe Tragedy of the Commons (1968), a quella che Michael Heller e Rebecca Eisenberg (1998) hanno definito The Tragedy of the Anti-Commons, il fenomeno per cui un eccesso di proprietà intellettuale diviene parassitario rispetto all’innovazione. La questione, per dirla tutta, è al limite della tragicommedia: la proprietà intellettuale nata dichiaratamente per difendere l’ingegno, è giunta irrimediabilmente ad inibirne l’espressione, traguardo amaro e significativo in un Occidente devoto ai mantra di innovazione-sviluppo-crescita-innovazione-sviluppo-crescita-innovazione-sviluppo-crescita. Il nodo per cui la proprietà intellettuale sembra risucchiare l’innovazione intellettuale è tanto più complesso quanto meno nel caso del brevetto esiste o può facilmente esistere il corrispettivo del copyleft, filososfia distributiva che fa da controcanto al diritto d’autore con prodotti open source spesso migliori e più diffusi dei concorrenti.

Ecco che mentre le principali società del settore, Apple, Google, Microsoft, Nokia, Samsung, Motorola, Rim, sono in causa per un numero imprecisato di brevetti violati dall’una o dall’altra, e gli investimenti pubblici in ricerca e sviluppo sono sempre più contratti, siamo al paradosso per cui il costo delle licenze d’uso di tecnologie brevettate costringe molti scienziati a cambiare settore di ricerca nella speranza di trovare “pedaggi” brevettuali meno esosi. La spesa necessaria per ottenere un brevetto e per farlo rispettare è il motivo principale per rinunciare a brevettare un’invenzione. Stando alla ricerca di Boldrin e Levine, la possibilità di anticipare la concorrenza sul mercato è divenuta più importante del brevetto stesso. In questo contesto, lo spionaggio, la proliferazione del numero dei brevetti, gli incassi che le imprese sono costrette a girare alle rivali per evitare una spirale di cause legali, sono sintomi di come la concorrenza assoluta sia divenuta a tal punto un fine in sé da ingoiarsi l’innovazione stessa. Siamo nel cuore di quella che Michael Heller ha definito in un libro intitolato The Gridlock Economy, l’economia dell’ingorgo, una società che brevetta sempre di più, e conosce sempre di meno.

In questo contesto è forse poco credibile la frustrazione di Eric Schmidt nei confronti delle molteplici cause legali di Apple. Sta di fatto che la guerra dei brevetti impone oggi riflessioni che il testo di Capocci aiuta a chiarire e sistematizzare. Alla fine di questoexcursus emergono diversi nodi che meritano discussione. Per usare le parole di Jeff Bezos, fondatore di Amazon, “I brevetti dovrebbero incoraggiare l’innovazione, al contrario ci troviamo in un mondo in cui paiono sempre più inibirla. I Governi devono guardare al sistema di brevetti e chiedersi se sia il caso di modificarlo, io non credo che queste battaglie siano sane per la società”. Le conclusioni di Jeff Bezos sono condivibili. Ma le premesse? Crediamo ancora che i brevetti incoraggiano l’innovazione?

Forse uno spunto viene dal movimento degli abolizionisti. Capocci riprende questa citazione del 1850: “prima di rivendicare il diritto di proprietà sulle loro invenzioni”, scrivono gli abolizionisti, “gli inventori dovrebbero rinunciare alla conoscenza e all’aiuto ricevuto dal sapere e dalle invenzioni altrui. Ciò è impossibile: questa impossibilità dimostra che il loro intelletto e le loro invenzioni, in realtà, fanno parte di una grande patrimonio intellettuale della società e che essi non hanno dunque diritto alla proprietà sulle loro invenzioni” (p. 61). Insomma, se realmente cerchiamo una soluzione, non avrebbe più senso ripartire da qui?

 

 

Questo articolo è uscito su MicroMega il 18 Ottobre 2012: http://temi.repubblica.it/micromega-online/quando-la-concorrenza-corrode-linnovazione/

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