Di fronte a un prodotto di artigianato o a una realizzazione di lusso, non possiamo esimerci dal considerare la qualità, magari esclamando; “… è roba di qualità!” oppure “costa, ma c’è tanta qualità”. Al ristorante: “… sono piatti di qualità”, dal tappezziere: “ … guardi che pellami di qualità” o parlando con l’elettricista che sta sistemando l’impianto elettrico, per ottenere uno sconto: “… dottore guardi che ho messo tutta componentistica di qualità”. Soppesando una classica Montblanc Meistrestück, mentre nell’altra mano impugniamo una modesta Bic, oppure mentre osserviamo una sportiva Pagani dal finestrino della nostra Panda 4×4, indossando un Casio W59, con la mente rivolta al Rolex Submariner, sono altre situazioni in cui il concetto di qualità si annida prepotentemente nei nostri pensieri. E così, tornando a casa dopo otto ore, tra lezioni, esercitazioni e attività pratiche, diversamente configurate dalla creatività della commissione paritetica e della commissione qualità del dipartimento, non possiamo non domandarci se stiamo tenendo un corso di qualità, se abbiamo svolto lezioni di qualità e se il tempo speso da docente e discenti è servito a qualcosa, se servirà a qualcuno, se in definitiva quelle otto ore di spiegazioni, dimostrazioni ed esemplificazioni possono essere considerate dei prodotti di qualità, alla stregua dei pellami o degli orologi di cui sopra.

A questo punto, per scongiurare letture in grado di curare le insonnie più perniciose, Vi consigliamo di seguirci in questo breve excursus, che in effetti abbiamo in mente da anni, da quando provammo a confrontare la qualità di Anvur con la qualità delle norme ISO (Quality for dummies https://www.roars.it/quality-for-dummies/).

La storia della qualità non è affatto recente ed è spesso confusa con la certificazione della qualità e con l’adozione delle norme Iso: con questo breve articolo abbiamo l’ardire di rimettere un po’ in ordine i concetti. Anche Josef Juran, nei suoi scritti, metteva in guardia da facili conclusioni e avvertiva che attribuire ai maggiori autori del XX secolo l’”invenzione della qualità” è fuorviante. Per esempio nel volume «La qualità nella storia. Dalle civiltà antiche al total quality management», Sperling & Kupfer, 1997; Juran, pur riconoscendo a Shewhart (Walter Andrew Shewart, fisico americano, 1891-1967), Deming (William Edwards Deming, ingegnere americano, 1900-1993) e Ishikawa (Kaoru Ishikawa, ingegnere giapponese, 1915-1989) un importante ruolo nello sviluppo degli approcci di management, spiega che non è corretto attribuire a questi autori, ciascuno per il proprio ambito di azione, il merito della codifica dei paramenti della qualità. Infatti, come vedremo di seguito, l’approccio alla qualità globale si dipana negli anni in maniera ineluttabile e grazie al contributo di molti.

Josef Moses Juran, un ingegnere americano nato in Romania nel 1904, è considerato dagli avidi lettori di testi di management come il padre del moderno approccio alla qualità. Profondo assertore della gestione della qualità nelle aziende, sviluppò le sue teorie soprattutto dopo aver conosciuto, studiato e applicato le teorie di un altro grande interprete del XIX e XX secolo, l’italiano Vilfredo Pareto (Vilfredo Federico Damaso Pareto, economista e ingegnere italiano, 1848-1923). Il cosiddetto principio di Pareto, nelle questioni legate alla qualità, afferma che l’80% dei problemi è provocato dal 20% delle cause. La famosa frase che Juran attribuì a Pareto «the vital few and the thrivial many», fu successivamente riformulata in «the vital few and the useful many», per sottolineare che in ogni caso l’80% delle cause minori non va comunque ignorato. In effetti la qualità, così come la intendiamo oggi, trae le sue origini nel XIX secolo allorché iniziarono a essere introdotti i principi dell’organizzazione scientifica nel sistema produttivo industriale. Tuttavia, i principi e la cultura della qualità, come ci ricorda Salvatore La Rosa (Salvatore Emanuele La Rosa, Università di Palermo), erano già ampiamente presenti nell’era che ha preceduto la rivoluzione industriale, in “quel labile confine tra arte e artigianato che ha caratterizzato la lunga era della civiltà pre-industriale”.

A questo punto, prima di procedere, dobbiamo ricorrere al vocabolario, alla ricerca della definizione di “qualità”: “Elemento o insieme di elementi concreti che costituiscono la natura di qualcuno o qualcosa e ne permettono la valutazione in base a una determinata scala di valori” (Il nuovo Zingarelli, XI edizione, 1987); oppure “Proprietà che caratterizza una persona, un animale o qualsiasi altro essere, una cosa, un oggetto o una situazione, o un loro insieme organico, come specifico modo di essere, soprattutto in relazione a particolari aspetti e condizioni, attività, funzioni e utilizzazioni” (Treccani, vocabolario on line, accesso 28 maggio 2023).

Una considerazione importante sulla definizione di qualità non può non tenere conto dell’utilizzatore e della rispondenza alla citata scala di valori dello Zingarelli. Nel linguaggio quotidiano con “prodotto di qualità” si sottintende un oggetto di lusso, generalmente costoso e magari circondato da un allure di esclusività, al punto che a nessuno verrebbe in mente di associare il termine agli esempi appena fatti (penna biro, automobile utilitaria e orologio al quarzo di plastica). Quando invece ci si insinua nei meandri dei cosiddetti sistemi di gestione della qualità, ossia in quelle procedure aziendali che, sviluppatesi dagli anni ’40 in poi, mirano a ottenere prodotti e servizi che soddisfino del tutto il cliente, al minimo costo per l’azienda, il concetto cambia completamente di significato. E’ così che la parola qualità assume il ruolo di discriminare quanto un prodotto o un servizio soddisfino essenzialmente gli utilizzatori specifici di quel prodotto o servizio. In quest’ottica, è molto probabile che una biro economica soddisfi pienamente il suo utilizzatore il quale da una penna non si aspetta altro che scriva, mentre le esigenze dell’acquirente di una costosa stilografica potrebbero essere tali da spingerlo a segnalare come caratteristiche non conformi alla qualità attesa, anche dei minimi e impercettibili difetti di assemblaggio. Ormai il passaggio è chiaro anche al più distratto dei nostri lettori: la qualità di cui si parla oggi, anche in ambito accademico, è quella delle norme ISO sui sistemi di gestione, è la misura della soddisfazione del cliente verso il prodotto da lui selezionato. Al riguardo ci vengono in mente due esempi. Il primo è relativo a una pubblicità della Volkswagen Golf degli anni ’80 (https://youtu.be/aJWs9ErIWIs), allorché il guidatore si ferma per far controllare un modesto rumorino di sfregamento che turba l’atmosfera ovattata del viaggio. Il meccanico, dopo qualche scuotimento, scopre che la fonte del rumorino non è una componente del veicolo, ma l’orecchino della ragazza che siede al fianco del guidatore: grazie a una goccia di lubrificante sul monile, la Golf torna ad essere quel veicolo silenzioso che la pubblicità reclamizzava. Mai spot televisivo fu più controproducente: nei mesi seguenti la Volkswagen ricevette una serie di lamentele sull’assemblaggio delle componenti e sui rumori, reali e presunti di cruscotto, portiere e selleria, tali da dover sospendere la messa in onda dello spot. Quella pubblicità aveva fatto intendere agli acquirenti di una Golf di avere a che fare con un veicolo dal costo e dalle caratteristiche superiori, rendendoli così più esigenti nella valutazione e nella percezione della qualità.

Il secondo esempio è tratto da una narrazione di Walter Isaacson nel volume “Steve Jobs”, in cui l’autore racconta un aneddoto: Steve Jobs, famoso imprenditore dotato di senso estetico, e Jonathan Ive, supervisore del gruppo di design industriale di Apple, in Europa per una convention, si trovarono, in un momento di pausa, a gironzolare tra gli scaffali di un negozio di oggetti di design. Lì furono colpiti dal design minimalista ed elegante, in sostanza di qualità, di un costoso coltello da cucina di una marca premium, salvo poi notare entrambi il non perfetto assemblaggio della lama con il manico, che li indusse a non comprarlo. Un costoso prodotto “di qualità” che non rispondeva affatto alle esigenze dei suoi potenziali utilizzatori, fu bocciato perentoriamente da due imprenditori con elevato senso estetico.

 

Quindi torniamo alla Bic e alla Montblanc, alla Panda 4×4 e alla Pagani o al Rolex e al Casio e alla scala di valori che cita Il nuovo Zingarelli. Forse la qualità è qualcosa di più sottile e non un parametro assoluto: la Bic è da preferire per prendere appunti, la Panda 4×4 per andare in campagna e il Casio vince per precisione. Pensando al cibo, ecco che alla qualità organolettica fa da contraltare la qualità igienico-sanitaria; tornando sui passi del docente di ritorno dalle 8 ore di lezione, la qualità delle sue “slides” o delle sue “dias” (ormai usate al plurale con le regole inglesi, calpestando la nostra grammatica che vorrebbe slide e dia anche al plurale), la sua puntualità e il suo rispetto del calendario e dei  luoghi di lezione, come si pongono in rapporto ai contenuti e alla qualità dei concetti? Chi, in questo caso stabilisce la scala di valori? Per la penna, l’automobile e l’orologio la risposta è facile, ovvia: l’utilizzatore. Stessa cosa per il cibo: la qualità organolettica la valuta il consumatore, quella igienico-sanitaria a volte il consumatore, più spesso le autorità competenti deputate al controllo ufficiale degli alimenti. Per la qualità della didattica la situazione si ingarbuglia. Nel 2006, dalle colonne del Corriere della sera (20 marzo 2006), Francesco Alberoni (sociologo, giornalista e scrittore italiano, rettore dell’Università di Trento dal 1968 al 1970 e della IULM dal 1997 al 2001) scriveva: “I migliori strumenti, se usati male o per scopi impropri, producono disastri. Così sta succedendo con la customer satisfaction (la soddisfazione dei consumatori), il metodo con cui le imprese chiedono ai loro clienti quali sono i difetti dei prodotti in modo da poterli migliorare. Se i consumatori ti riferiscono che la tua automobile non frena bene o ha le porte che sbattono, cercherai di porvi rimedio. Ma tutto questo funziona perché è il consumatore che sa che cosa è meglio per lui, non c’è nessun altro giudice migliore. Cosa succede quando passiamo all’istruzione dei giovani? Chi è il consumatore? Tutti pensano agli studenti. Ma è vero? Anche i bravi insegnanti hanno idee di cui tener conto e così pure i genitori, tanto che alcuni mandano i propri figli all’estero per assicurare loro una educazione migliore. Infine ci sono gli imprenditori, perché quei giovani devono poi assumerli loro”.

Ecco quindi che, nel caso della formazione, sussistono da anni alcune perplessità su chi ne sia il reale consumatore, ossia colui che ne deve dare un giudizio e quale sia la scala di valori (Zingarelli, citato più sopra) e chi debba redigerla.

 

Ci fermiamo qui per un breve excursus storico della qualità, prima di provare, in chiusura, a formulare alcune ipotesi.

L’abilità artigianale  – Il controllo del prodotto

Sorvolando quella branca della filosofia che va sotto il nome di estetica e tralasciando Aristotele, Cartesio e Kant, possiamo identificare nelle corporazioni del medioevo le prime rudimentali regole con cui i “maestri” codificavano il proprio lavoro. Nel medio evo si era affermata la trasmissione scritta del cosiddetto know-how e così era garantita la ripetibilità della fornitura e la preservazione del mestiere.

Passando al Rinascimento, proprio in questi giorni a Perugia, in occasione del V centenario della morte di Pietro Vannucci detto il Perugino (1450-1523), la Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia celebra, con una grande mostra, il più importante pittore attivo negli ultimi due decenni del Quattrocento, un periodo in cui gli storici pongono la fine del medioevo. Ebbene, paradossalmente, una delle critiche ricevute al tempo dal pittore fu proprio quella di aver messo a punto delle procedure di qualità affinché i suoi assistenti di bottega fossero in grado di realizzare in serie la base dei dipinti, per far fronte alle numerose richieste. Isabella d’Este nel 1503 commissionò al pittore una tela della Battaglia tra Amore e Castità, con una dettagliatissima lettera, che può essere interpretata come un vero e proprio capitolato nel quale indicava anche le immagini da raffigurare: “Ma parendo forse a voi che queste figure fussero troppe per uno quadro, a voi stia di diminuire quanto vi parerà, purché poi non li sia rimosso el fondamento principale, che è quelle quatro prime, Pallade, Diana, Venere, et Amore. Non accadendo incomodo mi chiamerò satisfatta sempre; a sminuirli sia in libertà vostra, ma non agiugnierli cosa alcuna altra”. Pietro Vannucci realizzò la tela in ritardo rispetto alla data di consegna concordata e con una tecnica diversa (tempera invece che olio), al punto che Isabella non fu pienamente soddisfatta del lavoro: “E l quadro è stato conduco illeso, il quale ne piace per esser ben designato et ben colorito: ma quando fusse stato finito con magior diligentia, avendo a stare appresso quelli del Mantinea[1], che son sommamente netti, seria stato magior honor vostro e più nostra satisfactione”. Il pittore umbro, in quel periodo sostenuto da un’ampia e ben organizzata bottega, aveva accettato la commissione, certo della qualità e riproducibilità delle sue procedure, ma la qualità percepita dalla marchesa Isabella d’Este non fu eccelsa, tanto è vero che il pagamento della tela non fu alto: solo 100 ducati.

[1] Si riferiva al Mantegna (Andrea Mantegna, 1431 – 1506) pittore della Repubblica di Venezia

Con un balzo di quasi 500 anni arriviamo alla prima rivoluzione industriale, fine del XVIII secolo, per assistere al passaggio dalla produzione artigianale a quella di massa e quindi dall’industria domestica basata ancora sulle richiesta del committente/consumatore e sull’utilizzo di manodopera con elevata professionalità, alla standardizzazione spinta che poggia su manodopera poco specializzata e meno costosa.

Con la seconda rivoluzione industriale, favorita da importanti innovazioni tecnologiche e che vede il passaggio dall’energia termica, ricavata dal carbone, all’energia elettrica, si assiste alla specializzazione spinta e all’introduzione delle catene di montaggio di tipo fordista (Henry Ford, industriale americano, 1863-1947).

1574078 Modern Times, 1936; (add.info.: Sir Charles Spencer “Charlie” Chaplin, KBE (1889-1977) in Modern Times (1936), a grim account of the automatization of the individual.); Universal History Archive/UIG; it is possible that some works by this artist may be protected by third party rights in some territories.

Guerre mondiali: il collaudo – Ispezione del 100% dei prodotti

Negli anni che precedono la prima guerra mondiale, la produzione comincia a basarsi sull’ispezione e sul collaudo e mentre la quantità è un obiettivo della «produzione», la qualità comincia a essere di competenza del settore «collaudo». Se da un lato, generalizzando, si può affermare che il mercato era ancora caratterizzato da i) bassi volumi, ii) manodopera qualificata, iii) mancanza di standardizzazione, dall’altro non possiamo non rilevare come il termine qualità cominci ad assumere una connotazione “moderna” che sembra allontanarlo dal significato originario.

 

Dagli anni ’20: il controllo della qualità – Controllo statistico

Volumi di produzione crescenti, nascita delle prime industrie con modelli organizzativi complessi e necessità di contenere i costi, vedono la nascita dei primi metodi statistici per il controllo della qualità con l’industria manifatturiera che si impossessa del termine, non più appannaggio di artigiani e consumatori. Scopo del controllo della qualità era quindi la garanzia della conformità del prodotto, la verifica dei punti critici della produzione e l’individuazione dei prodotti conformi e non conformi. In questo periodo sono gli studi di Shewhart e l’introduzione delle tecniche di controllo sull’intero processo produttivo e non più solo sul prodotto finito, a modificare l’approccio alla qualità.

 

Dagli anni ’40 – Il Sistema Qualità e la messa a punto delle normative

Gli anni ’40 sono quelli degli studi di Deming, Feigenbaum e di Ishikawa. Nel 1945 Feigenbaum (Armand Vallin Feigenbaum, imprenditore americano, 1920-2014) pubblica un famoso articolo in cui descrive per la prima volta l’approccio Total quality management (TQM), che associa il termine «qualità» al termine «totale», con l’intento di indicare che la qualità è una responsabilità di tutte le funzioni di un’organizzazione e quindi non più del solo settore «collaudo». Feigenbaum definì il TQM come “un sistema efficace per integrare e coordinare lo sviluppo della qualità così da permettere una produzione e un servizio che soddisfino del tutto il cliente, al minimo costo per l’azienda”.

La qualità idealizzata da Isabella D’Este è sempre più lontana e si comincia a delineare un concetto qualità oggettiva e misurabile.

 

Nel 1946 è la volta dell’American Society for Quality Control (oggi American Society for Quality, www.asq.org) e nel 1947 Deming inizia la collaborazione con il Giappone che era alla ricerca di strumenti manageriali per risollevarsi dalla profonda crisi economica dopo la fine della seconda guerra mondiale. In Giappone cominciò a farsi strada il concetto che il rispetto delle specifiche tecniche dei prodotti non era più sufficiente e che era necessario ideare e applicare specifiche manageriali e organizzative.

Dagli anni ’50: la garanzia delle qualità – Oggi assicurazione della qualità

Sono gli anni di massima attività di Deming e di Juran. Coi loro scritti e coi loro seminari forniscono alle aziende le riposte ai quesiti più importanti: per applicare il concetto di controllo di prodotto in tempo reale era necessario affiancare alle specifiche tecniche delle specifiche organizzative che illustrassero, per esempio, come qualificare i fornitori e quali funzioni aziendali ne fossero responsabili. Nel 1959 il Dipartimento della Difesa americano pubblica la prima norma dedicata alla qualità: il documento MIL-Q-9858 del 9 aprile 1959 (http://everyspec.com/MIL-SPECS/MIL-SPECS-MIL-Q/MIL-Q-9858A_2889/) dal titolo «Quality program requirements» è il primo esempio di normativa imperniato su un modello organizzativo di garanzia della qualità. La NATO ha in seguito adottato lo standard tramite la creazione della serie di pubblicazioni «Allied Quality Assurance Publications, AQAP» in cui è delineato il principio della «prevenzione dei difetti» in luogo della «identificazione dei difetti».

 

ISO, ossia Uguale – La qualità ai giorni nostri

Isos, dal greco (ἴσος) significa uguale e non è un acronimo (https://www.roars.it/la-siglomania/), ma una definizione di fantasia scelta per ovviare al problema della diversa denominazione dell’organizzazione nelle diverse lingue.

L’organizzazione internazionale per la normazione (International organization for standardization) è stata fondata il 23 febbraio 1947, con sede a Ginevra. Il primo standard è del 1951 ISO/R 1:1951 (Standard reference temperature for industrial length measurements), dove «R» stava per raccomandazione a sottolineare la non obbligatorietà dello standard. Tutte le norme ISO non sono obbligatorie, ma hanno sempre e solo valore di raccomandazione e diventano cogenti solo in forza di fonti del diritto che eventualmente le rendono tali. Un esempio: nel diritto alimentare vi sono fonti del diritto come il regolamento unionale 2073 del 2005 che fanno riferimento a norme ISO per la ricerca e l’identificazione di microrganismi patogeni negli alimenti, specificando che, laddove il laboratorio ufficiale conduca analisi microbiologiche, queste devono essere effettuate seguendo le indicazioni delle norme ISO in esso citate.

Quale qualità per la didattica?

Tornando alla nostra qualità e chiudendo il cerchio, eccoci alla norma ISO 9000:2015 – «Sistemi di gestione per la qualità – Fondamenti e vocabolario», l’ultima della serie 9000, nata nel 1988 come ISO 8402:1988 – «Qualità – Terminologia», riemessa nel 2000 come ISO 9000:2000 «Sistemi di gestione per la qualità – Fondamenti e vocabolario» e aggiornata nel 2005 e nel 2015.

Nella ISO 9000 la definizione di qualità è, semplificando e integrando: «Insieme delle caratteristiche e degli attributi di una entità materiale (prodotto) o immateriale (servizio) che le conferiscono la capacità di soddisfare le esigenze espresse o implicite di tutte le parti aventi titolo nei processi di produzione, fornitura e utilizzo e fruizione dell’entità medesima», ovvero le parti interessate, gli stakeholder per gli anglofoni.

Ed eccoci infine al quesito di Alberoni. Chi sono le parti interessate? Lo studente è un prodotto o uno stakeholder? Purtroppo il dado è tratto e al netto dei dati raccolti da Alma Laurea (https://www.almalaurea.it) sui risultati occupazionali dei laureati e alcune timide proposte in Ava3 (laddove il modello di accreditamento periodico delle sedi e dei corsi di studio universitari fa riferimento alle parti interessate e agli esiti occupazionali, https://www.anvur.it/attivita/ava/accreditamento-periodico/modello-ava3/strumenti-di-supporto/), la valutazione della didattica è ancora basata su quesiti posti agli studenti ai quali si chiede di valutare, in maniera numerica e quantificabile alcuni parametri oggettivi tipici della «certificazione della qualità».

La domanda sulle conoscenze preliminari, se sufficienti per la comprensione degli argomenti previsti nel programma d’esame; quella sul carico didattico in rapporto ai crediti erogati; l’adeguatezza del materiale didattico; la descrizione delle modalità di esame nel programma; il rispetto degli orari sono tipiche domande poste alla clientela nella fase di certificazione di processo, per ottenere le cosiddette informazioni di ritorno dal cliente, previste dalla norma UNI EN ISO 19011:2018 «Linee guida per audit di sistemi di gestione» nel capitolo sulla «Raccolta e verifica delle informazioni». Altre domande, come quelle relative all’esposizione degli argomenti da parte del docente, o alla coerenza dell’insegnamento col programma e infine all’interesse dello studente alla materia, potrebbero addirittura configurarsi come domande influenzanti (a cui fa riferimento, sempre nel capitolo sulla raccolta delle informazioni, la norma ISO 19011: «dovrebbero essere evitate le domande che possono influenzare le risposte, cioè le domande influenzanti»). Va da sé che questo set di quesiti può generare nello studente la convinzione che la qualità del docente passi solo attraverso una serie di parametri predeterminati e facilmente misurabili, mentre l’attività di audit è fondata su un certo numero di principi che ne fanno uno strumento efficiente e affidabile a supporto delle politiche e dei controlli di gestione, fornendo informazioni in base alle quali un’organizzazione può agire per migliorare le proprie prestazioni.

Non ce la sentiamo di essere severi come Alberoni: “Gli si domanda quali sono le materie più utili, quelle che gli piacciono, quelle troppo faticose, quali docenti sono graditi, quali invece sono troppo esigenti. Ma che cosa ne sa uno studente del primo o del secondo anno di cos’è importante per la sua formazione, che cosa gli servirà veramente domani per affrontare il lavoro e la concorrenza internazionale?”, ma un vero e proprio riesame delle politiche della qualità dell’Università italiana potrebbe forse passare attraverso una più precisa definizione degli stakeholder.

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