Avevo l’aspetto di un signore di mezza età, un po’ calvo, con gli occhiali, di media statura e con una pinguedine incipiente. “Piacere, sono V il Valutatore”. Così mi presentavo quando mi recavo nelle Università per le ispezioni affidatemi. Aggiungendo, con un sorriso, “Vi, non Vu”. Faccio parte di una serie di androidi costruiti e programmati per questa funzione. Ne avrei di storie da raccontare; come quella volta che infilarono nel prodotto della ricerca un algoritmo inebriante. Per fortuna me ne accorsi e feci finta di essere brillo. Poi quando me ne tornai a casa feci un rapporto che ancora se lo ricordano. Li trasferirono tutti sul pianeta Brialca, che non è particolarmente ospitale, per usare un eufemismo, a insegnare ai detenuti di un carcere di massima sicurezza, diretto da un sadico (non so più verso i carcerati o i professori) di nome Tolrot. Prima che cancellino la mia memoria vi racconterò come fu smascherata la truffa dei cosiddetti bibliometrici. Ma sarà per un prossimo racconto. Ma non è di questo che voglio parlare qui.
“Piacere, sono V il Valutatore”. Così mi presentavo quando mi recavo nelle Università per le ispezioni affidatemi. Aggiungendo, con un sorriso, “Vi, non Vu”.
Faccio parte di una serie di androidi costruiti e programmati per questa funzione. Prima di me c’erano tutte le altre lettere dell’alfabeto. Dopo, quelle seguenti fino alla Z; e poi hanno ripreso dall’inizio.
Adesso, per quanto ne sappia, sono arrivati a EZ. Sarà sicuramente un modello più avanzato, ma volete mettere l’effetto di “Sono V il Valutatore”? Con la lettera che rafforza la qualifica e l’inverso.
Avevo l’aspetto di un signore di mezza età, un po’ calvo, con gli occhiali, di media statura e con una pinguedine incipiente. Sul pianeta Rumi dove sono stato creato volevano che suscitassi simpatia. Infatti le ispezioni mi venivano affidate quando c’era qualcosa che dai dati raccolti non era possibile comprendere.
Mi spedivano qua e là, mi addormentavo sull’astronave ed il risveglio era programmato all’arrivo.
Ne avrei di storie da raccontare; come quella volta che infilarono nel prodotto della ricerca un algoritmo inebriante. Per fortuna me ne accorsi e feci finta di essere brillo. Poi quando me ne tornai a casa feci un rapporto che ancora se lo ricordano. Li trasferirono tutti sul pianeta Brialca, che non è particolarmente ospitale, per usare un eufemismo, a insegnare ai detenuti di un carcere di massima sicurezza, diretto da un sadico (non so più verso i carcerati o i professori) di nome Tolrot.
Prima che cancellino la mia memoria vi racconterò come fu smascherata la truffa dei cosiddetti bibliometrici. Ma sarà per un prossimo racconto.
Non è di questo che voglio parlare qui.
* * *
Allora – sarà stato suppergiù il 2054 – mi spedirono sul pianeta Retha per cercare di capire un fenomeno che ai cervelloni del Vuran – l’agenzia per cui lavoravo – pareva inspiegabile: c’era un gruppo di accademici che si occupavano di regole – giuristi, si facevano chiamare – che producevano ricerche a non finire. Da soli, più di tutti gli scienziati del pianeta. Ma, e qui stava il problema, non facevano neanche un passetto avanti.
Uno si immagina che se tutti fanno ricerche sulle scie siderali o sulle alghe di Cassiopea, qualcosa ne venga fuori, che so?, una maggiore conoscenza, un migliore utilizzo. Qui invece i “giuristi” ricercavano, ricercavano ma alla fine non trovavano un bel nulla.
In questi casi particolari il processo segnala l’anomalia e tocca mandare un valutatore a controllare di persona. Questi viaggi io li facevo volentieri, un po’ perché spezzava la routine del lavoro su Rumi, un po’ perché mi piaceva incontrare umani nuovi, e poi il tempo sull’astronave non contava ai fini della obsolescenza programmata e quindi ora posso raccontarvi questa storia, mentre la maggior parte degli androidi della mia serie sono stati svuotati della memoria e rottamati.
Aggiungo che il lavoro era piuttosto creativo: gli ispezionati di solito mettevano in atto delle forme di depistaggio digitale. Il modo per aggirarle era assumere procedure informali non prevedibili. Così mi mettevo a parlare con loro, preferibilmente fuori del luogo del lavoro, facendomi raccontare i fatti più svariati. Avevo capito che gli accademici sono dei gran narcisisti e sono capaci di raccontarti quanti peli hanno sotto le ascelle, ovviamente attribuendo a ciascuno di essi una importanza straordinaria. Come il loro pelo non ce n’è nessuno che valga tanto…
Così, con la scusa di non aver capito bene come funzionava il sistema e la paura di commettere errori, li portavo a parlare delle loro ricerche. Ovviamente, prima di tutto si chiaccherava del tempo, dello sport, dei salari, delle tasse e poi facevo cadere una frase del genere “A proposito mi è piaciuto molto quel passaggio nella sua ricerca dove parlava di…”.
La reazione era sempre di sorpresa: facevano la figura del corvo in quella favola dove si racconta che di fronte alle adulazioni della volpe apre il becco e lascia cadere il pezzo di formaggio che stringe.
Ovviamente io ci mettevo pochi secondi a leggere tutto, e l’unica fatica era quella di assumere l’aspetto di una persona davvero interessata. Chiedevo quanto tempo ci avessero messo a scrivere; come e dove avessero trovato i ricchissimi riferimenti che citavano; quali suggerimenti potevano darmi per contrastare fenomeni di plagiarismo.
Ormai ne avevo intervistati una dozzina, i quali tutti mi raccontavano la stessa storia: grande impegno, molto lavoro, rispetto per l’etica della ricerca. Era difficile che si fossero messi d’accordo per fornire una identica versione.
L’illuminazione mi venne una sera mentre, di fronte ad un boccale di birra (suo, ovviamente, non mio), il prof. Scorpi mi ripeteva la solita solfa. Aveva lasciato il visore accesso e quindi ogni tanto si accendeva la lucetta per segnalare l’arrivo di un messaggio. Ad un certo punto disse: “Che noia questo Vuzzéta. Scrive, scrive, ma chi se lo legge?”.
Girai attorno all’argomento e dopo un po’ gli chiesi come circolassero le ricerche nella comunità accademica.
“E’ semplice” riprese con altrettanta naturalezza “Scriviamo, sottoponiamo il lavoro al processore di qualità che attesta che non abbiamo copiato e che vi sia un quid (molto modesto) di originalità. Poi lo spediamo ai nostri colleghi, che sono diverse migliaia”.
“E cosa succede poi?” chiesi. “Non lo so – mi rispose – io so solo che oggi ho ricevuto 3 libri e 12 articoli compreso quello di Vuzzéta. Dall’inizio dell’anno sono molte centinaia”.
“E quando li riceve cosa fa?”
“Ho un sistema di risposta automatica con il quale ringrazio l’autore esprimendo il mio apprezzamento per i risultati raggiunti. Ad una ristretta cerchia di persone con cui sono in rapporti di amicizia aggiungo alcune frasi di circostanza, se no, giustamente, se ne hanno a male”.
“E poi?”
“E’ ovvio, cestino quanto mi è stato inviato. Se tenessi tutto, nel giro di una settimana avrei tutta la memoria intasata”.
Avevo scoperto la pista.
Il giorno dopo, dalla prof.ssa Intireva, dopo averla blandita un po’, mi feci spiegare come riusciva a fare quelle note di riferimento così ricche e puntuali. Era elementare: il suo Maestro – un nome che incuteva rispetto anche su Rumi – aveva elaborato un algoritmo che consentiva di individuare fra le migliaia di libri e articoli cosa e come citare, in maniera altamente selettiva, esclusivamente i lavori degli amici.
Al prof. Rioma, di cui avevo ammirato l’ultima opera, chiesi dove avesse trovato il tempo per leggersi tutte le sue dottissime citazioni. In vino veritas (avevo offerto una bottiglia di eccellente rosso) mi rispose “Caro V se dovessimo leggere tutto quello che c’è e riceviamo ogni giorno, non riusciremmo neanche a scrivere ‘Buon giorno’”. La prof.ssa Terim, odiosa e cinica, di cui era fresca di stampa una monumentale opera dal titolo per me incomprensibile, del tipo “Studi critici”, mi disse: “Ma a chi vuole che importi leggere? I libri e gli articoli sono come i saggi di danza per passare da un anno all’altro dell’accademia. Sono e devono essere una prova di bravura e di devozione. A nessuno verrebbe in mente di utilizzarli. Si scrive solo per gettare sulla bilancia della valutazione la spada del “Quanto ha scritto!’ ”.
A quel punto non restava che modificare il modello di valutazione: non interessava l’indice di produzione, ma quello di lettura. Come sapete, il sistema registra se effettivamente un lavoro è stato aperto, letto e utilizzato. E grazie alla mia intuizione abbiamo perfezionato di molto l’analisi.
Risultava che su Rathe l’indice di lettura per prodotto era al massimo 10, ma il più delle volte 1 o 2. In realtà, indagando meglio, si capiva che il lettore era l’autore stesso che leggendosi e rileggendosi si procurava una sorta di auto-erotismo intellettuale. Se volete una indagine seria sul fenomeno è sufficiente che leggiate “Lo specchio di Narciso. Onanismo e accademia” del mio amico neurocomparatista Sacks.
Prima di imbarcarmi per il ritorno redassi il mio rapporto che si concludeva così: “Tutti scrivono. Nessuno legge. Si suggerisce moratoria produttiva”. Era quello che il mio capo, una umana severissima, la prof.ssa Lollotespie voleva sentirsi dire.
Applicando un decreto che limitava le emissioni digitali e l’inquinamento da bit, la produzione dei giuristi su Rathe fu bloccata per cinque anni solari.
Privati della loro principale occupazione e dello specchio nel quale si riflettevano e dava senso alla loro vita, i giuristi rapidamente scomparvero. Quando tra qualche secolo qualcuno vorrà indagare su quel che potrebbe apparire altrettanto misterioso della estinzione dei dinosauri, spero che si trovino fra le mani questa mia, autentica, testimonianza.
Purtroppo è proprio così, nella realtà, o quasi, alle volte anche peggio. È parecchi anni fa che avevo notato le citazioni di compiacenza o circolari. Come quella: secondo il prof. X( e giù titolo e pagine ecc.) il it.”buongiorno” si dice [bwondZorno]. Il fatto è che si tratta di lavori passati al vaglio, secondo quanto si assicura. Qualche altro collega mi assicurava, invece, sempre anni fa, che oramai nessuno leggeva niente. Per forza, chi ha a disposizione tanto tempo e tanta energia e voglia di leggere criticamente (il che prende molto tempo), centinaia di pagine all’anno su vari argomenti che non si possono dominare del tutto? E allora ci deve fidare dell’etica professionale altrui, incrociando le dita. E ci si fida anche della fama dell’autore, della casa editrice, delle voci di corridoio. Quanto questo fenomeno incida sul totale delle pubblicaIoni credo sia un’incognita. Ma dal momento che è indefinibile ma reale, tutto andrebbe reimpostato con chiarezza, senza puntare sulla quantità, e i metodi di valutazione imposti con tanta determinazione e sicumera buttati al macero, gli enti preposti rottamati, per usare un termine in voga proveniente dalla politica dell’efficientismo giovanile.
Il Problema è che i commissari di una qualunque commissione italiana, per qualunque concorso, leggono gli articoli del candidato MOLTO MENO dei revisori delle riviste su cui hanno pubblicato. Su questo non ho il minimo dubbio, leggendo i cosiddetti ‘referti’ (chiamiamoli così) in una ASN recente. In quest’ultimo caso non c’è nemmeno bisogno di una indagine, basta la semplice lettura per capire che i commissari non hanno letto gli articoli presentati ma hanno considerato solo la rivista e il suo ‘prestigio’ (la classe) dentro il raggruppamento specifico.
Questi referti sono enormemente più scarni e poco informativi di una revisione di articolo prodotta dal peggiore dei referee.
E il bello è che non c’erano nemmeno molti candidati (15) ciascuno dei quali presentava 15 lavori. Mi chiedo, come si faceva una volta, quando i candidati presentavano TUTTI i lavori?
(è evidente che anche in passato i commissari non leggevano i lavori…). E meno male che si è affermata negli ultimi anni la pratica di presentare solo una parte dei lavori…
La questione mi appare fra l’altro sconcertante nella sua semplicità: se i commissari non leggono (con ottime motivazioni, perché non possono) tutti i lavori dei candidati, che cosa giudica la commissione? A che serve una commissione visto che poi alla fine conta la sede di pubblicazione e le citazioni?
Io ormai sono fuori dall’Università, ma, in più di 10 anni di ricerca nel campo giuridico, ho notato una cosa:
molte volte i giuristi sono afflitti dal complesso della completezza, dall’ansia di citazione.
Mi spiego meglio: c’è sempre stata una tendenza a sottolineare “devi citare tutto il mondo, compresi Topolino Paperino”, altrimenti dicono che “non hai fatto ricerca seria”. E allora giù, citare subito Topolino e Paperino, anche se non c’entrano nulla e quindi, salti mortali all’interno delle note del tipo: “si potrebbe, però osservare il problema da un’altra prospettiva, notando che….ecc…”.
Nel testo di un articolo, poi, molti Maestri hanno sempre preteso una trattazione troppo grande di un determinato argomento, a scapito della fluidità dell’articolo e degli spunti originali, quasi fosse un manuale.
Questo è stato un grande errore dei Maestri e dei loro seguaci di adesso: molte volte un articolo snello, ma con spunti originali e innovativi che costituiscono anche un punto di partenza per altre ricerche, viene visto male solo perché “non hai parlato abbastanza di quell’argomento classico”, e sembra che tu sia ignorante.
Questo è un errore dei Maestri, che, per ansia di completezza, esigono una trattazione troppo grande dell’argomento classico di partenza, e alla fine il tuo spunto originale scompare: GRANDE ERRORE DEI GIURISTI.
Sono d’accordo al 100 per cento. Bisognerebbe limitare le citazioni solo a lavori rilevanti per l’articolo, quelli propedeutici, tanto per intenderci. La rilevanza della citazione dovrebbe essere uno dei giudizi richiesti al revisore.
Fra l’altro, avere in ogni articolo la storia pregressa scritta nell’introduzione produce come unico effetto il fatto che il lettore inevitabilmente salterà l’introduzione…
Sulle orme di Philip Dick, V ZZ propone questo interessante esercizio di fantasia. Si dirà fra un attimo perché è interessante. Prima va ricordato, a quella porzione maggioritaria di lettori di ROARS a diguno di codici e pandette, che questo Dick’s style tale proviene da chi è stato componente del GEV di AREA 12 per la VQR 2011-14, dopo essere stato designato nello stesso ruolo nella più ristretta cerchia del GEV di AREA 12 responsabile della VQR 2004-2009. Il raccontino è interessante, quindi, e la dice lunga, proprio perché ci consegna una morale che viene da chi ha valutato, con indefesso spirito di sacrificio, 10 anni di produzione scientifica dei giuristi italiani sotto le insegne dell’ANVUR, preoccupandosi di conservare il suo posto per due mandati consecutivi. Il che assegna al divertissement che leggete qui sopra un valore euristico-esperienziale davvero rimarchevole. Insomma, se ve la racconta V – il Valutatore in persona, credetegli. E divertitevi con lui.
Links:
http://www.studiosiprocessopenale.it/elenco-gruppo-esperto-di-valutatori-gev-per-vqr-2011-2014-area-12-scienze-giuridiche.html
http://www.anvur.org/index.php?option=com_content&view=article&id=302&Itemid=419&lang=it
Molto, molto istruttivo.
Non capisco perché ha accettato per la seconda volta. Per masochismo o per capire meglio?