Giustizia è fatta. Contro gli studenti
universitari fuori corso, anomalia tutta italiana secondo i sedicenti esperti dei grandi media italiani, ai quali il governo ha aumentato le tasse pur mitigando la frettolosa e draconiana versione iniziale della cosiddetta spending review. Con norme ancora più frettolose e intricate da far la gioia dei tanti azzeccagarbugli nostrani, senza alcun beneficio diretto per le disastrate casse statali e intervenendo a gamba tesa in un tema che da vent’anni era lasciato all’autonomia degli atenei entro un limite budgetario giustamente fissato dalla legge (ma purtroppo non rispettato né dallo Stato né da molte università).
Rinviando un’analisi della nuova normativa, vorrei trattare un solo punto, quello della presunta anomalia italiana dei fuori corso. E’ un’altra delle affermazioni che sono da tempo entrate a far parte della grancassa mediatica montata contro le università statali italiane senza che si riuscisse a far prevalere un’analisi più documentata e precisa della realtà.
Prendiamo come esempio il recentissimo articolo di Marc Perry uscito il 18 luglio scorso nell’ambito di una collaborazione editoriale tra il New York Times e il Chronicle of Higher Education, cioè tra un grande quotidiano statunitense e un’autorevole “sorgente giornaliera di informazioni e opinioni per professori, amministratori e altre persone interessate ai temi accademici”. En passant, in Italia non c’è niente di simile, purtroppo.
Scrive Perry: “In media, solo il 31% degli studenti delle università pubbliche (statunitensi) consegue la laurea (il bachelor) nei quattro anni previsti e solo il 56% la consegue in sei anni. Queste statistiche hanno attirato sempre maggiore attenzione poiché genitori e politici chiedono alle università di rispondere responsabilmente dei loro risultati. Lo stato del Tennessee, ad esempio, alloca i suoi finanziamenti alle università misurando quanto efficace sia l’azione di un ateneo nel laureare i suoi studenti”.
Secondo lo stile anglosassone in poche parole apprendiamo molte cose. Ad esempio che il 69% degli studenti americani va fuori corso, quindi una percentuale maggiore che in Italia. Che il 44% impiega addirittura sette o più anni invece dei quattro previsti. Che i politici, invece che pensare di aumentare loro le tasse, nel Paese che nella vulgata sembrerebbe il più adatto a queste soluzioni mercatistiche, studiano le statistiche e ne chiedono conto alle università e ai professori, non agli studenti. Che il Tennessee è arrivato alla soluzione che è stata utilizzata in Italia per quasi quindici anni, prima che il nuovo vento della cosiddetta meritocrazia la travolgesse, per fortuna ancora solo in parte.
In Italia non mancano gli esperti del mondo universitario ma difficilmente la politica li ascolta. Ancor più difficilmente quando il ministro è a sua volta un professore universitario. Almalaurea fornisce da alcuni lustri i dati statistici fondamentali sulle carriere studentesche, in particolare sui tempi di laurea, anche in dipendenza dal fenomeno ormai pervasivo di chi lavora mentre studia all’università. Ma l’equazione fuori corso = bamboccioni domina quasi incontrastata sulla stampa e nei commenti dei benpensanti. Già molti anni fa alcuni atenei avevano tentato di accelerare i tempi di laurea aumentando le tasse ma fu un solenne fiasco. Altri tentarono invece la strada di premi in denaro, equivalenti quindi a riduzioni delle tasse, a chi si laureava in corso e si registrò qualche buon risultato. Nel decreto Zecchino n. 509 del 1999, che introdusse i tre livelli di laurea, e poi nel decreto Moratti n. 270 del 2004 le università erano obbligate a disciplinare le modalità formative per gli studenti part-time. Ma le università, nella quasi totalità, non se ne sono date per inteso: nel nostro Paese la figura dello studente-lavoratore non è stata mai presa in seria considerazione nonostante che sia apparsa nella legge oltre vent’anni fa, nella legge Ruberti n. 390 del 1991.
Pochi hanno osservato – tra di loro Federica Laudisa – che già la normativa attuale (tasse usualmente indifferenziate tra studenti in corso e fuori corso) genera un disincentivo economico ad allungare troppo i tempi di studio: infatti lo stesso diploma di laurea costa di più a chi consegue il titolo fuori corso, in proporzione al ritardo maturato e pur senza che le università debbano sopportare forti costi aggiuntivi. Come usava commentare, un po’ cinicamente, un autorevole rettore del secolo scorso: “Non toglieteci i fuoricorso, come faremmo a far quadrare i bilanci senza di loro?”. Certo, si può aumentare l’effetto disincentivante aumentando ancora le tasse. Ma l’effetto più probabile è che molti studenti saranno indotti a rinunciare alla laurea. L’ultimo posto occupato dall’Italia nei paesi OCSE dell’Unione Europea per percentuale di laureati sulla popolazione attiva – persino nella fascia di età tra 25 e 34 anni – sarà ancora garantito per i decenni a venire. Con buona pace di tanti vacui discorsi sulla crescita in un’economia/società della conoscenza.
Sperando che possa interessare ai lettori di Roars, segnalo un mio articolo (con Francesco Giavazzi, Pietro Garibaldi ed Enrico Rettore) pubblicato sulla Review of Economics and Statistics riguardo al problema dei fuori corso e degli effetti di un aumento delle tasse universitarie per questi studenti:
College Cost and Time to Complete a Degree: Evidence from Tuition Discontinuities
http://www.mitpressjournals.org/toc/rest/94/3
Una versione precedente (working paper) puo’ essere anche scaricata qui
http://www2.dse.unibo.it/ichino/new/scientific_publications/boc_rdd_63.pdf
La sezione 2 dell’articolo conferma con altra evidenza quanto segnalato da Luciano Modica e da altri riguardo al fatto che i fuori corso non sono un’anomalia solo italiana, anche se il fenomeno e’ particolarmente accentuato in Italia.
Rimangono pero’ un’anomalia costosa, da noi come in altri Paesi. L’articolo utilizza una tecnica econometrica di valutazione quasi-sperimentale per stimare quale potrebbe essere l’effetto di un aumento delle tasse universitarie per i fuoricorso. E discute anche i motivi per cui questo provvedimento puo’ essere, insieme ad altri, una buona idea.
In ogni caso il provvedimento non dovrebbe riguardare gli studenti lavoratori per i quali dovrebbe essere prevista l’iscrizione part time come in altri paesi
Buona estate a tutti
Andrea Ichino
[…] 8.8.12: sull’aumento delle tasse ai fuori corso segnaliamo gli interessanti interventi di Luciano Modica (“Per gli studenti fuori corso giustizia è fatta”) e Gianni Orlandi (“I fuori […]
Caro Ichino,
l’articolo è interessante ma (1) dice una cosa ovvia e (2) nella parte dedicata alle “rejected hypotheses” non mi sembra abbiate dati empirici che confermino la variazione attesa dei voti finali in presenza della “discontinuità Falcucci” (chiamiamola come si deve, dandole il nome del Ministro che provò ad introdurla in tempi non sospetti, o forse si :) ): il vostro “modello” prevede qualcosa, ovvero che ciò non accadrebbe, ma rimane viziato rispetto alla struttura corrente dell’Università pubblica italiana e pure di quella anglosassone. I motivi sono diversi, ma tant’è.
Detto questo, sono ben altre le problematiche da affrontare. L’introduzione della suddetta discontinuità, a parità di organizzazione complessiva, potrebbe portare solo o ad un aumento (di questi tempi regressivo e comunque elitario) delle tasse universitarie, con una diminuzione del numero di laureati e/o della loro preparazione (appunto, il quid su cui non avete dati empirici: leggi la presenza della “discontinuità Falcucci” rispetto al campione usato, se non erro). In ogni caso, la struttura dell’Università odierna è centrata sul 3+2 e, rispetto all’organizzazione standard anglosassone, sulla “time-fuzziness” (abusiamo della lingua del Bardo!). Nel sistema USA, uno studente “fuori corso” paga comunque per i servizi che ottiene, almeno a livello di “corso universitario”, in quello italiano no, dato che non è dato sapere (neanche in Bocconi, per quanto ne so) chi sta facendo cosa quando. In USA, magari gli studenti si prendono un semestre “di lavoro” o “riposo” e quando riprendono pagano “as they go”; in Italia questo concetto è sconosciuto e non è neanche “riconoscibile” per i mitici “studenti-lavoratori” a tempo parziale. Da questo discorso esulano le biblioteche e servizi simili dato che queste possono – o dovrebbero – essere dimensionate sulla massa degli studenti “iscritti”. Ne consegue che invece di agire sulla mazza delle tasse universitarie sarebbe invece utile usare il randello sui burocrati che infestano il Ministero ed i vari Atenei. In altre parole, il “benaltrismo” dovrebbe essere il principio guida rispetto all’impostazione economicista e/o vogoniana che ha ispirato tutte le riforme che ci sono piombate addosso negli ultimi 11 anni.
Marco Antoniotti
[…] di senso. C’era anche chi sosteneva che gli studenti fuori corso esistessero solo in Italia. Fortunatamente c’è chi si preoccupa di fare chiarezza anche su queste cose. In ogni caso è importante che l’Ateneo si renda disponibile e attui politiche concrete per […]
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