Celebrato da un mese il 63° posto della Normale di Pisa nei World University Rankings del Times Higher Education, è già ora di una nuova classifica. Sì, perché – ROARS lo ha sempre ricordato – il business dei ranking di Università è ancora in espansione, segno che la gente si diverte a leggere nuove puntate di questa specie di campionato del mondo a tappe che nessuno ha mai organizzato o definito.
New entry. Potevano mancare gli Americani? No di certo. Stiamo parlando di ranking di Università, e dell’uscita di un una nuova, fiammante, classifica mondiale, a cura del settimanale U.S. News and World Reports. I lettori assidui di ROARS ricorderanno forse che nella breve storia di questo tipo di intraprese computistico-informative il citato magazine statunitense ha avuto un ruolo pioneristico; infatti da oltre 30 anni compila graduatorie di College e Università americane contribuendo così a soddisfare l’esigenza di fornire dati e notizie su un “sistema” che comprende oltre 3.000 istituzioni di formazione terziaria.
Tuttavia, all’irrompere dei primi ranking mondiali, fra il 2003 e il 2004, la scena fu presto occupata da altri attori, produttori di classifiche: cinesi, britannici, olandesi – anche questo è abbastanza noto. Ora, con un preavviso pubblico di poche settimane, il settimanale statunitense è entrato nell’agone con un proprio prodotto, il “Best Global Universities”, che mette in fila 500 Università, e – come è abitudine, ormai – offre anche speciali classifiche per macrosettori scientifici (oltre che per aree geografiche e Paesi).
Metodi sempre diversi. Tralasciamo di spendere tempo nel commentare la classifica generale, capeggiata dai soliti grandi brand accademici, pur in ordine diverso, e passiamo a dare un occhio alla metodologia, non senza aver subito notato l’assenza della Normale di Pisa dai quartieri nobili: la classifica avulsa italiana ce la segnala anzi oltre il 500° posto generale, su un totale di 750 Università prese in considerazione. Un brutto colpo, per l’istituzione di Piazza dei Cavalieri, che aveva toccato il cielo con un dito dopo l’ultima classifica del “Times Higher”: insomma, dalle stelle alle stalle in un breve volgere di ranking.
Questa nuova classifica fa sempre uso delle basi di dati mantenute di Thomson Reuters, ed anche delle sue survey reputazionali (di cui avevamo brevemente parlato nell’articolo sopra linkato): la differenza con i World University Rankings del THE va quindi ricercata nella diversa definizione degli indicatori e del loro mix. Ecco la tabella di riepilogo:
La prima caratteristica che salta all’occhio, dalla sola lettura degli indicatori, è la dipendenza dalla dimensione istituzionale di svariati indicatori. Questo fatto, da solo, ci spiega l’assenza della Scuola Normale non solo dai primi posti, ma proprio da tutta la classifica (si riveda anche un nostro commento sulla prestazione della Normale nella classifica del THE), e al contrario ci illumina del primo posto, fra le italiane, della Sapienza (pur 139a nella graduatoria generale).
Ora, se la normalizzazione per dimensione istituzionale è una caratteristica quasi sempre desiderabile, posto che la “qualità accademica”, come concetto intuitivo da cogliere, è largamente indipendente dalla “massa”, è anche vero che il fattore di normalizzazione può a sua volta generare distorsioni, a causa della sua difficile comparabilità sull’universo mondo delle diverse Università. Basti ricordare che il tipico fattore di normalizzazione usato dai ranker, e cioè la numerosità del personale accademico, risente della diversa struttura delle carriere nei diversi sistemi universitari.
Accade così che taluni ranker rivendichino come bontà intrinseca la scelta di mantenersi “estensivi” – si pensi all’indicatore sul numero di Premi Nobel “ricollegabili” all’istituzione, computato da parte della Classifica di Shanghai.
Grado di intensività. A partire dalle considerazioni precedenti, formuliamo allora un primo tentativo di dare veste formale a questa nostra “meta-classificazione” dei ranking. Definiamo un indice di intensività per ciascuno dei maggiori ranking globali di Università a partire da un giudizio sulla normalizzazione rispetto alla dimensione istituzionale per ciascuno degli indicatori da essi impiegato e dal suo peso in quel ranking. Ne viene fuori il seguente specchietto.
Un indice pari a 0 significa totale mancanza di normalizzazione, mentre 1 denota l’utilizzo di indicatori sempre “normalizzati” rispetto alla dimensione istituzionale. E’ opportuno che il pubblico cominci ad apprezzare questa ed altre meta-proprietà dei ranking, se si desidera dibattersi fra il crescente nugolo di classifiche, cosa di per sé positiva perché abitua al concetto di relativismo, contro la tendenza a considerare tali esercizi come meramente assimilabili alla misura di quantità “oggettive”.
Perfino qualche commentatore dei nostri imbolsiti quotidiani ha cominciato ad accorgersene, e sarà bene continuare così anche per il futuro.
Un articolo sul “Foglio” di oggi commenta la prestazione della King Abdulaziz University di Gedda nella sotto-classifica di matematica
http://www.ilfoglio.it/articoli/v/122520/rubriche/universita-con-questo-trucco-i-matematici-sauditi-battono-pure-il-mit-di-boston.htm