(Pubblicato nel numero speciale di Science and Society di Aspenia online)
Che posto occupano nell’attuale visione delle politiche europee l’agenda di Lisbona e il suo ambizioso obiettivo di destinare il 3% del PIL agli investimenti in ricerca e innovazione? In che misura la gravità e la persistenza della crisi in corso consentono di fornire nuovo slancio a questa agenda, facendo sì che emerga il suo stretto legame con le dinamiche dello sviluppo economico, e si profili una via di uscita dalle strettoie dell’euro?
La persistenza della crisi non solo ha messo in rilievo le insufficienze dell’architettura della moneta unica rispetto dell’aggiustamento degli squilibri macroeconomici tra i paesi dell’area ma, complici le politiche di austerità finanziaria praticate nell’illusorio intento di correggere tali squilibri, ha anche determinato una depressione dell’attività produttiva, difficilmente superabile solo per un effetto di traino derivante da un miglioramento del quadro internazionale. Non è un caso, dunque, che sulle politiche di austerità aleggi ormai un diffuso scetticismo – di tanto in tanto avallato anche dai maggiori organismi internazionali come il Fondo monetario – pur non essendo messi del tutto in discussione i princìpi che le animano, ispirati alla capacità di autoregolazione del mercato e, in ragione di ciò, all’idea che il raggio d’azione dell’intervento pubblico debba essere ridotto al minimo indispensabile. D’altra parte, è stato ormai ampiamente mostrato come l’esplosione dei cosiddetti “debiti sovrani” – tra i maggiori imputati della crisi – non sia riconducibile ad un eccesso di spesa pubblica, ma al salvataggio del sistema bancario, travolto dallo shock finanziario su cui la crisi stessa si è innescata. Nel complesso, ci sarebbero quindi tutte le migliori ragioni per credere che un cambio di marcia debba segnare le politiche europee, e che cominci almeno ad emergere l’indicazione di un sostegno pubblico a tutti quegli investimenti capaci di incidere positivamente sui processi di crescita.
Già, ma quali sono gli investimenti più decisivi per i paesi europei, ed in particolare quelli in grado di correggere i maggiori squilibri macroeconomici, per lo più preesistenti alla crisi? È lecito in altri termini attendersi un risanamento della situazione solo in ragione dell’abbandono delle politiche di austerità?
La dinamica della crisi ha messo in luce un vero circolo vizioso: l’austerità non ha fatto altro che accentuare divergenze strutturali tra le economie dell’eurozona, che a loro volta precedono perfino l’introduzione della moneta unica. I differenziali di crescita tra paesi europei sono infatti chiara espressione di un’area fortemente disomogenea sotto il profilo delle strutture produttive e della loro capacità di generare reddito e occupazione. Tali differenziali sono in misura significativa riconducibili alla dinamica della produttività, che dipende sempre più dalla capacità di sviluppo delle conoscenze scientifiche e tecnologiche e di innovazione del sistema produttivo da parte di ciascun paese. In tal senso si rileva uno scarto positivo e netto tra le economie del centro e nord Europa – sia di grande che di piccola dimensione – e quelle dell’area mediterranea (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo), associato alla diversa consistenza degli investimenti in ricerca e sviluppo in rapporto al PIL, e più in generale alla diversa capacità dei “sistemi nazionali di innovazione” di attivare un circuito virtuoso tra crescita del bacino delle conoscenze scientifiche e tecnologiche e crescita del potenziale di innovazione del sistema produttivo. Nello specifico, la bassa intensità degli investimenti in ricerca e sviluppo sul PIL nei paesi del sud Europa risulta particolarmente critica se rapportata alla sola componente industriale (BERD, Business Enterprise Research and Development), né il distacco rispetto ai paesi del nord si è ridotto significativamente nel corso del tempo (Figura 1). Ciò traduce una situazione di sostanziale stallo dell’area sud europea: la bassa intensità di spese in ricerca attribuibili all’industria, è infatti la dimostrazione più evidente della presenza del tutto marginale nel tessuto produttivo di settori avanzati, nei quali è più elevata la propensione all’investimento in ricerca. Questa marginalità dei settori avanzati implica a sua volta una crescente marginalità dei paesi del sud Europa nei mercati internazionali – essendo aumentata globalmente la domanda di prodotti “ad alta intensità di conoscenza” – con una perdita complessiva di competitività che ne condiziona il potenziale di sviluppo economico.
Figura 1 – Percentuale della spesa in ricerca e sviluppo delle imprese (BERD) sul PIL
Fonte: Ocse
per l’Austria, in assenza di informazione, i dati del 1995 e del 2001 sono stati sostituiti con quelli più prossimi del 1993 e del 1998, rispettivamente.
Figura 2 – Ricercatori su mille addetti nell’industria
Fonte: Ocse
Per l’Austria, in assenza di informazione, i dati del 1995 e del 2001 sono stati sostituiti con quelli più prossimi del 1993 e del 1998, rispettivamente.
Sono però le conseguenze paradossali di questo quadro ad apparire ancora più preoccupanti: la contrazione delle risorse umane nei settori dell’università e della ricerca– accentuatasi ulteriormente per effetto dei tagli alla spesa pubblica dovuti alle politiche di austerità- finisce persino con l’essere coerente con la scarsa richiesta che ne fa il sistema economico, dato il maggior peso che in questi paesi detengono i settori tradizionali (Figura 2). In altri termini, l’arretramento dei “sistemi nazionali di innovazione” nei paesi del sud Europa, una volta innescatosi, non fa che autoalimentarsi, aggravando sempre di più le prospettive di sviluppo di queste economie. Un circolo vizioso a tutto tondo – dagli effetti strutturalmente depressivi sul reddito – in cui si intrecciano la maggiore dipendenza dalle importazioni di beni ad alta intensità tecnologica da un lato e le minori esportazioni di beni nazionali dall’altro, nonché una minore capacità di trazione sul reddito da parte della domanda interna, caratterizzata da un profilo di più bassi salari come effetto del minore valore aggiunto che caratterizza in media le produzioni nazionali.
Non è dunque difficile comprendere come la negligenza relativa agli investimenti in ricerca e innovazione sia esiziale non solo per i paesi che ne sono investiti – e che si ritrovano con più ridotte possibilità di rilancio del reddito e dell’occupazione – ma comprometta fortemente anche l’intero quadro europeo, la cui capacità di tenuta appare sempre più difficilmente demandabile alle sole politiche di natura monetaria in difesa dell’euro. La possibilità di attuare politiche pubbliche per il rilancio della ricerca e dell’innovazione nelle aree più depresse d’Europa è allora fondamentale, essendo necessaria una vera e propria ricostituzione della base scientifica e tecnologica di questi paesi, che solo dall’intervento pubblico può discendere, considerati l’ingente dimensione dell’impegno finanziario e l’incerta redditività economica che caratterizzano l’investimento in tali contesti. È perciò fondamentale portare in questi paesi nuova linfa affinché si realizzi un consistente incremento delle risorse umane nelle aree dell’università e della ricerca, e contemporaneamente arrivare a correggere – con politiche industriali mirate – la composizione di tessuti produttivi nazionali ormai troppo sbilanciati sul versante delle attività a “bassa intensità tecnologica”. Ma è necessario farlo presto, perché il punto a cui si è arrivati, con una tendenza cumulativa dei processi in atto, potrebbe già essere prossimo a quello di non ritorno.
A cosa si riferiscono le colonne di diversi colori dei due istogrammi?
Come chiarito dalla legenda a destra del grafico, si riferiscono agli anni.
iPad gioie e dolori…con il tablet tenuto verticale la legenda non era visibile.
:-)
Cara Redazione, forse vale la pena di pubblicare integralmente il seguente intervento di pochi anni fa dell’antropologo Michael Herzfeld: “La sfida dei nostri tempi: ripensare il senso comune”
http://www.bergamonews.it/cultura-e-spettacolo/herzfeld-la-sfida-dei-nostri-tempi-ripensare-il-senso-comune-170947
«Qui, inoltre, subentra il ruolo delle università. Perchè, se accetano non solo i calcoli numerologici della cosiddetta “valutazione” strumentalizzata dai managers e sempre più allargati dal controllo dei docenti, ma anche la rettorica dell’“eccellenza” riducibile in cifre sradicate dalle costruzioni ideologiche che le hanno generate, le università non saranno più in grado di esercitare quell’analisi critica della vita pubblica che dovrebbe essere una loro funzione di base. E perderanno veloce la loro importanza sociale e culturale. Non si sono ancora rese conto del pericolo?»
Mi continuo a chiedere con quali soldi si possono fare questi tanto agognati investimenti in ricerca e sviluppo secondo gli autori di ROARS.
C’e giusto l’imbarazzo della scelta: a me ad esempio piacerebbe far pagare l’ICI agli immobili del Vaticano
La mia domanda è tanto seria quanto polemica, e non credo di essere l’unico a farmela.
La mia risposta è anche seria. La politica si occupa della divisione della torta e, poiché la torta è finita, se ne metto un pezzo da una parte non ne metto un pezzo dall’altra. E’ tutto piuttosto lineare, anzi direi banale.
Nonostante il “TINA” (There Is No Alternative”) sia un leitmotiv, ci sono delle scelte che sono state fatte e che continuano ad essere fatte. Al punto che non è Roars, ma la Fonazione Giovanni Agnelli a denunciare il salasso compiuto a danno di istruzione e università:


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«In tempi di spending review è sempre utile ricordare quanto è avvenuto nel recente passato: da questo punto di vista la scuola ha già dato molto, soprattutto nel triennio 2008-2011
per effetto delle «disposizioni in materia di organizzazione scolastica» della Legge 133/2008»
http://www.fga.it/fileadmin/Documenti_Vari/FGA_-_Evoluzione_personale_scuola.pdf
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Ed anche le statistiche OCSE confermano che l’Italia, a differenza della grande maggioranza delle nazioni, ha reagito alla crisi tagliando proprio il settore dell’istruzione e scaricando i costi sugli studenti aumentando le tasse universitarie.
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In conclusione, ci sarebbero buoni argomenti per investire in università e ricerca, proprio per uscire dalla crisi. Ma sarebbe già un passo avanti smettere di essere tra quelli che tagliano proprio questo settore così vitale per il futuro.
Sarà anche banale, ma qual è la differenza tra far pagare l’ICI alla chiesa e un’altra misura di austerità? Se è vero che i soldi non hanno odore, è sempre un’aumento di carico fiscale. Nelle attuali condizioni, muoverà nella migliore delle ipotesi i soldi da un caveau in Vaticano ad uno a Francoforte e, nella peggiore, dalle tasche di uno che in quelle strutture gestite dalla chiesa ci lavora al suddetto caveau di Francoforte. O quei soldi dell’ICI magicamente andranno da un giorno all’altro a ridurre il nostro scarto di produttività senza intaccare ulteriormente la bilancia commerciale? Oppure se i soldi li si toglie a qualcuno che non dovrebbe averli allora il fiscal compact non vale? Anche dando per buona la sua proposta, in ogni caso, mi pare ci siano almeno alcuni zeri di mezzo prima di dare un contributo in qualche modo significativo per raggiungere quel 3% del PIL. Ho capito che avete due papi ma non mille.
In tutta sincerità, credo che lei parli del metodo PD: indorare la pillola destra con una spennellata di sinistra. Mi sembra una brutta presa in giro nelle attuali situazioni.
Non ci sono economisti su roars? Lei è certamente un’ottimo fisico, ma se volevo l’opinione di un fisico andavo nell’ufficio accanto.
La maniera in cui si divide la torta è una decisione politica: il resto lo ha aggiunto lei che lavora di fantasia.
@Andrea Cimatoribus: puoi intanto farti un’idea dal piano Cottarelli, che è appunto un economista, detto anche “mani di forbice”:
http://download.repubblica.it/pdf/2014/economia/cottarelli.pdf
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Da questo rapporto risulta sempre chiaro che le spese per l’istruzione superiore e per la ricerca sono tra le poche sotto le medie europee, mentre ci sono altre voci di spesa che sono decisamente sopra le medie europee, come i costi della politica.
Quindi, anche senza variarla, già adesso la spesa è distribuita male in certi casi. E con “male” si parla di miliardi di euro.
Mi sembra che stiamo parlando di ordini di grandezza di differenza. Per quanto gli sprechi della politica siano un facile bersaglio, perché sono oggettivamente una cosa che urta il senso del pudore soprattutto di questi tempi, sono briciole in confronto ai costi imposti dal fiscal compact e dal fondo salva stati. Siamo tutti d’accordo che lo stato potrebbe e dovrebbe, a volte, spendere meglio, ma se si crede di trovare i soldi vendendo le maserati (tanto per dirne una), allora mi permetto di dubitare.
E chi vuole trovare soldi vendendo la Maserati? Per quanto riguarda l’ICI agli immobili del Vaticano non destinanti a luogo di culto, la stima e’ intorno al miliardo di Euro. Sarebbe davvero un bel segnale del nuovo corso di Papa Francesco se quei fondi fossero dirottati alla scienza e alla cultura
Chiedo scusa, mancava un pezzo di frase: …allora mi permetto di dubitare della buona fede di chi propone queste misure.
Se lei pensa ai bei segnali, mi sa che parliamo di cose diverse.