L’interrogazione presentata da un cospicuo numero di parlamentari della Lega alla ministra dell’Università e della ricerca per chiedere «che si accertino le responsabilità» di chi scrive (nella scelta di non abbassare le bandiere di una università in ossequio al lutto nazionale imposto dal governo Meloni per la morte di Silvio Berlusconi) intende «assicurare che l’università resti un luogo di apprendimento e convivialità apartitico e apolitico». Sorvoliamo sull’evocazione tragicomica della convivialità (forse pensano al declino delle mense universitarie?), e concentriamoci sul rapporto università-politica.
Da un punto di vista formale, la questione sta esattamente al contrario di come è stata raccontata da un sistema mediatico nutrito di ignoranza e fondato sulla servitù volontaria. Nessuna legge prescrive il collocamento delle bandiere a lutto sugli edifici pubblici in occasione del lutto nazionale: lo fa una circolare della Presidenza del Consiglio del 18 dicembre 1992, richiamata da quella della Presidenza Meloni del 13 giugno 2023. Ma la legge 168 del maggio 1989, attuando l’autonomia universitaria sancita dalla Costituzione, stabilisce che per le università «è esclusa l’applicabilità di disposizioni emanate con circolare». Sta dunque ai rettori e agli organi di governo delle università stabilire, di volta in volta, se partecipare o meno al lutto nazionale attraverso il simbolo delle bandiere a mezz’asta: mi chiedo quali siano le ragioni che hanno convinto tutti gli altri rettori e rettrici ad abbassare le bandiere, aderendo al lutto più smaccatamente politico della storia della Repubblica, dedicato proprio a colui cui si deve (come ha ricordato Francesco Pallante qui sul Fatto) il massacro del sistema universitario italiano.
Ma si sbaglierebbe a pensare che coloro che guidano le università italiane abbiano inteso proporre a chi studia il modello di uomo pubblico incarnato da Berlusconi (anche se proprio questo, purtroppo, dicevano quelle bandiere calate): il problema è assai più profondo, e più grave. Ed è la totale sudditanza dell’università al potere politico, nazionale e locale.
Le passerelle universitarie dei potenti del momento (ricoperti di lauree ad honorem e invitati a tenere improbabili lectiones magistrales) ne sono solo la manifestazione più grottesca, ma la sostanza è che, dopo aver ridotto alla fame il sistema universitario con un continuo definanziamento, il potere politico ha iniziato a eroderne l’autonomia con crescente successo. A partire dalla ricerca: l’università ha accettato che essa sia valutata da una agenzia (l’Anvur) i cui vertici sono nominati dal potere esecutivo, e che opera secondo criteri la cui logica ultima non è scientifica ma appunto politica. Basti citare l’obbligo di classificare i cosiddetti ‘prodotti della ricerca’ in fasce che non avrebbero dovuto ospitare più del 25% dei testi e non meno del 5%: come ha scritto Maria Chiara Pievatolo, «se adottassimo una simile regola per gli esami di profitto, ci troveremmo a dire: “Lei meriterebbe 30, ma dovremo darle un voto più basso perché abbiamo già attribuito un voto di fascia superiore al 25% dei candidati all’appello”». La stessa studiosa commenta la situazione della valutazione prendendo atto che «Caesar est supra grammaticos», cioè che il potere politico è riuscito a fare quel che voleva fare un imperatore tardo-medioevale: comandare anche sulle regole grammaticali. In questo caso, sulla grammatica elementare della scienza: che infatti si vede costretta, a causa di queste politiche, a favorire le ricerche più conformiste e meno innovative.
Anche peggio vanno le cose per l’altra missione fondamentale dell’università, la didattica: e qua si deve citare il silenzio delle istituzioni universitarie sul progetto di autonomia differenziata che mira a dare alla Regione Lombardia nientemeno che il «coordinamento delle università lombarde», e in generale al potere politico delle tre regioni-locomotiva (Lombardia, Veneto ed Emilia) un ruolo determinante nella creazione di corsi professionalizzanti al servizio del territorio regionale.
Come anche con il Pnrr, e con altri infiniti provvedimenti, si stabilisce che di fatto i «portatori di interesse» del sistema universitario non sono i cittadini, ma i vari interessi economici legati alla politica. E che, di conseguenza, l’università non deve essere lasciata libera di elaborare idee e progetti per costruire una società diversa, ma deve essere messa al servizio della società come è oggi: così, di fatto, annullandone la funzione ultima.
Chi, dentro e fuori dell’università, dice che le bandiere del mio ateneo andavano abbassate perché nell’università non si fa politica, dovrebbe riflettere su tutto questo e su moltissimo altro: prendendo atto che le cose stanno esattamente all’inverso. E cioè che le bandiere di tutte le altre università sono automaticamente scese proprio perché da troppo tempo ci siamo abituati a non esercitare il pensiero critico, in una triste sudditanza al potere politico.
(Pubblicato su il Fatto Quotidiano)
The real University, he said, has no specific location. It owns no property, pays no salaries and receives no material dues. The real University is a state of mind. It is that great heritage of rational thought that has been brought down to us through the centuries and which does not exist at any specific location. It’s a state of mind which is regenerated throughout the centuries by a body of people who traditionally carry the title of professor, but even that title is not part of the real University. The real University is nothing less than the continuing body of reason itself.
In addition to this state of mind, reason, there’s a legal entity which is unfortunately called by the same name but which is quite another thing. This is a nonprofit corporation, a branch of the state with a specific address. It owns property, is capable of paying salaries, of receiving money and of responding to legislative pressures in the process. But this second university, the legal corporation, can not teach, does not generate new knowledge or evaluate ideas. It is not the real University at all. It is just a church building, the setting, the location at which conditions have been made favorable for the real church to exist.
(Zen and the Art of Motorcycle Maintenance, Robert M. Pirsig, New York: Bantam, 1981)