Lo scorso 8 ottobre l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università per Stranieri di Siena ha visto l’insediamento come rettore di Tomaso Montanari. Il suo discorso di insediamento, inusuale in una Università (come l’intera cerimonia, visibile al link https://www.youtube.com/watch?v=j9lOR69hTxs), ha toccato alcuni dei temi più caldi nella nostra società: la centralità dell’essere umani, l’autoritarismo, il necessario antifascismo dell’Università, il senso della cultura e di una comunità educante, il pensiero critico, le migrazioni, l’accoglienza… È stato a pieno titolo, nell’attuale situazione del Paese, un controcanto che, dunque, proponiamo, nella sua interezza, come tale.
Autorità, colleghe e colleghi docenti e non docenti, studentesse e studenti, amiche e amici che oggi siete con noi, e caro Magnifico Rettore, caro professor Cataldi – caro Pietro.
La prima cosa che voglio dire prima di varcare la soglia che oggi mi porta a continuare il tuo lavoro; la prima cosa che voglio dire, parlando a nome della nostra collettività, è: grazie, Pietro! Grazie per la misura, la grazia, l’equilibrio, la dedizione, la determinazione, e vorrei dire l’amore con cui ti sei preso cura di questa comunità, nella buona e nella cattiva sorte. Grazie per la prosperità, la crescita, l’autorevolezza che hai saputo garantire alla Stranieri. Grazie per la guida sicura nel buio della pandemia. Grazie soprattutto per una cosa, che mi colpì fin dal primo momento che ci conoscemmo: grazie perché non ti sei mai vergognato della tua umanità. Ricordo che pensai che se un rettore di una università italiana era ancora visibilmente un essere umano, allora forse c’era qualche speranza. Da allora ho imparato a conoscerti, e negli ultimi mesi sei stato per me non solo un mentore incredibilmente paziente e uno straordinario didatta, ma anche un amico vero. E, lo sai, da domani ti troverai ad avere ancora più pazienza. E questo grazie, pubblico e solenne, è anche per tutto quello che ancora ti chiederò. Hai chiuso il tuo discorso ricordandoci che «il nostro lavoro è tenere insieme lo spazio definito di questa città tanto identitaria e le quinte sconfinate del mondo, il nostro lavoro – hai detto – è la fatica e la felicità dell’attraversamento».
Il nostro lavoro. Fermiamoci su queste due cose: noi, la nostra comunità accademica; e il lavoro che facciamo. Il mio impegno per i prossimi sei anni è che continuiamo ad essere, e diventiamo ancor più, un noi. «Salvarsi da soli è avarizia, salvarsi insieme è politica», diceva don Lorenzo Milani (e lo ripeterà tra poco il ministro Roberto Speranza, che ringrazio per aver voluto essere, virtualmente, con noi): e la nostra politica è quella di pensare non come una somma di egoismi, ma come una comunità.
Ho provato a spiegare, nel programma di mandato, cosa questo vuol dire, in concreto e a partire dal ruolo del rettore. Primo. Un governo plurale e paritario, di prorettrici e prorettori, delegate e delegati. Perché l’unico modo di far sì che il potere diventi servizio, non solo nella retorica, è suddividerlo, assumerlo insieme, renderlo largo, trasparente, responsabile. Secondo. Una comunità di eguali fondata sulle diversità. Il che vuol dire: comportarsi ogni volta che sia possibile, e tendenzialmente sempre, come se esistesse un ruolo unico della docenza (e lottare perché esista presto), e abolire ogni odioso segno di gerarchia tra docenti, non docenti e studenti. Siamo persone: rimaniamo persone! E vuol dire anche abbandonare, progressivamente e sostenibilmente, ogni forma di precarietà, cioè di sfruttamento. Tra i docenti, tra i non docenti, tra le persone che assicurano ogni giorno la pulizia e l’accessibilità degli edifici in cui si svolge la nostra vita. E riconoscere, valorizzare, celebrare (in parole e opere) le diversità: quelle dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, quelle delle lingue e delle culture, quelle delle età e dei talenti. Perché «siamo differenti, inteso “differenza” nel senso di diversità delle identità personali» e perché «siamo disuguali, inteso “disuguaglianza” nel senso di diversità nelle condizioni di vita materiali». E l’eguaglianza – questo il punto centrale – si deve realizzare «a tutela delle differenze e in opposizione alle disuguaglianze». Siamo una comunità dalla parte dei più deboli. Delle donne, di chi è o si sente diverso, di chi è povero culturalmente e materialmente, di chi è marginale e periferico. Siamo una comunità antifascista.
Ha un prezzo questo? Sì, lo ha.
Nelle scorse settimane, per aver espresso un punto di vista culturale, per aver ammonito sulle conseguenze della manipolazione politica della storia, per aver denunciato la strumentalizzazione politica delle vittime delle Foibe, ho dovuto subire un accanito linciaggio mediatico. E voi con me: e ve ne domando scusa. Penso, tuttavia, che ne valga la pena. Nel programma di mandato mi sono impegnato a dedicare dodici aule ai soli dodici professori universitari che non giurarono fedeltà al fascismo, nel 1931: ho capito a mie spese quanto quell’idea fosse attuale. Se guardiamo a quella generazione, la resistenza che ci è richiesta, è ben poca cosa: non farla – per convenienza, viltà, malinteso amore di pace – sarebbe una vergogna imperdonabile.
Del resto, da storico dell’arte credo profondamente nella forza dei luoghi, nelle storie e nei destini che nei nomi dei luoghi sono iscritti.
Ebbene, la vita della nostra piccola università si muove tra due poli principali: “Rosselli” (questo plesso) e “Amendola” (il rettorato). Il nostro “noi” è piantato nel cuore della toponomastica antifascista: quelle vite, quegli ideali, quelle voci ci accolgono e vegliano su di noi.
Carlo Rosselli, a cui è intitolato il piazzale che tutti abbiamo appena attraversato arrivando qua, è una figura altissima di professore, di intellettuale, di antifascista – di martire dell’antifascismo, ucciso insieme a suo fratello Nello in Francia nel 1937, per ordine di Mussolini. Tra le tante pagine che, negli articoli di Carlo Rosselli, sembrano scritte per noi ce n’è una (del 1934) che spiega a fondo cosa significhi essere antifascisti oggi (nel 2021), e cosa significhi esserlo da umanisti, e in una università per Stranieri: «Siamo antifascisti non tanto e non solo perché siamo contro quel complesso di fenomeni che chiamiamo fascismo; ma perché siamo per qualche cosa che il fascismo nega ed offende, e violentemente impedisce di conseguire. Siamo antifascisti perché in questa epoca di feroce oppressione di classe e di oscuramento dei valori umani, ci ostiniamo a volere una società libera e giusta, una società umana che distrugga le divisioni di classe e di razza e metta la ricchezza, accentrata nelle mani di pochi, al servizio di tutti. Siamo antifascisti perché nell’uomo riconosciamo il valore supremo, la ragione e la misura di tutte le cose, e non tolleriamo che lo si umilii a strumento di Stati, di Chiese, di Sette, fosse pure allo scopo di farlo un giorno più ricco e felice. Siamo antifascisti perché la nostra patria non si misura a frontiere e cannoni, ma coincide col nostro mondo morale e con la patria di tutti gli uomini liberi». La nostra patria è il mondo, e la nostra piccola comunità si autodetermina declinando questi valori altissimi nella gioia e nella fatica del lavoro di ogni giorno.
Nel Senato accademico (che si riunirà, nella sua nuova composizione, già il prossimo 19), nel Consiglio di Amministrazione, nel Consiglio di Dipartimento decideremo insieme come attuare tutte queste cose, esposte in dettaglio nel Programma di mandato e nel discorso con cui, l’8 giugno scorso, ho chiesto la vostra fiducia.
Ma, in questo giorno fausto, abbiamo qua molti ospiti e amici, e dunque nei prossimi minuti non vorrei parlare ancora di noi, bensì del nostro lavoro, continuando a riflettere sulle ultime parole del discorso di Pietro. Qual è, dunque, questo nostro lavoro?
È lo stesso della scuola: perché l’università, non mi stancherò di ripeterlo, è parte della scuola – è scuola. E quel lavoro è formare cittadini, e prima ancora persone: persone umane. Tutta l’università esiste per formare umani, anche Legge o Ingegneria non sfornano solo avvocati o ingegneri, ma formano o non formano esseri umani. Noi, poi, come umanisti siamo capaci solo di fare quello: se non lo facciamo più, siamo come il sale quando perde il suo sapore. Ma non possiamo farlo, questo lavoro, se non siamo umani noi stessi.
Un singolare paradosso – confessiamocelo. Se passiamo la vita a studiare humanities, e non riusciamo a diventare un poco umani, a cosa davvero abbiamo dedicato la vita? Per questo non si può separare ricerca e didattica, studio e insegnamento, biblioteca e aula: perché se ci separiamo dalla sorgente, siamo fontane aride. E per questo il governo dell’università, la sua organizzazione, non può mai diventare impersonale, spersonalizzata, astratta, burocratica. Non è un’azienda, non si ciba di numeri. Siamo una comunità di persone, in cui le persone vengono prima di ogni altra cosa. Siamo come l’orco della favola a cui Marc Bloch paragona lo storico: «Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda». Solo che non vogliamo mangiarla, la nostra preda: la vogliamo far vivere più intensamente. Più umanamente.
La prima cosa che dunque abita le nostre aule è il dubbio, il pensiero critico, la contestazione di ogni dogma, di ogni autorità – a partire dalla nostra. A partire da quella del rettore. La nostra deve essere un’università ribollente di letture tendenziose. È il titolo delle «parole dette [da Franco Antonicelli] per l’inaugurazione della Biblioteca dei portuali di Livorno», il 15 ottobre del 1967. Già, perché gli scaricatori di porto avevano voluto una loro biblioteca: strumento di riscatto e di liberazione. E Antonicelli, questo intellettuale singolarissimo e libero, quel giorno memorabile consigliò loro ciò che oggi vorrei consigliare alle studentesse e agli studenti della Stranieri: «Cercate sempre i libri che vi tormentano, cioè che vi conducono avanti, i libri che vi gettano lo scrupolo di coscienza: questi sono i libri, i libri non di fede accertata, ma di fede incerta. Questi sono i libri che un cittadino, un portuale che diventa, che è, che vuol essere più cittadino deve leggere».
Dobbiamo costantemente ricordare che la nostra ispirazione è questa fede incerta, piena di dubbi. Consapevole che abbiamo scelto questa vita e questa via, non perché pensiamo di sapere molto. Al contrario, l’abbiamo scelta perché sappiamo di non sapere. Ha detto la poetessa polacca Wislawa Szymborska, nel discorso di accettazione del Premio Nobel, nel 1996:
Ispirazione non è un privilegio esclusivo dei poeti o degli artisti in genere. C’è, c’è stato e sempre ci sarà un gruppo di individui visitati dall’ispirazione. Sono tutti quelli che coscientemente si scelgono un lavoro e lo svolgono con passione e fantasia. Ci sono medici siffatti, ci sono pedagoghi siffatti, ci sono giardinieri siffatti e ancora un centinaio di altre professioni. Il loro lavoro può costituire un’incessante avventura, se solo sanno scorgere in esso sfide sempre nuove. Malgrado le difficoltà e le sconfitte, la loro curiosità non viene meno. Da ogni nuovo problema risolto scaturisce per loro un profluvio di nuovi interrogativi. L’ispirazione, qualunque cosa sia, nasce da un incessante “non so” … A questo punto possono sorgere dei dubbi in chi mi ascolta. Allora anche carnefici, dittatori, fanatici, demagoghi in lotta per il potere con l’aiuto di qualche slogan, purché gridato forte, amano il proprio lavoro e lo svolgono altresì con zelante inventiva. D’accordo, loro “sanno”. Sanno, e ciò che sanno gli basta una volta per tutte. Non provano curiosità per nient’altro, perché ciò potrebbe indebolire la forza dei loro argomenti. E ogni sapere da cui non scaturiscono nuove domande, diventa in breve morto, perde la temperatura che favorisce la vita. Nei casi più estremi, come ben ci insegna la storia antica e contemporanea, può addirittura essere un pericolo mortale per la società. Per questo apprezzo tanto due piccole paroline: “non so”. Piccole, ma alate. Parole che estendono la nostra vita in territori che si trovano in noi stessi e in territori in cui è sospesa la nostra minuta Terra. Se Isaak Newton non si fosse detto “non so”, le mele nel giardino sarebbero potute cadere davanti ai suoi occhi come grandine e lui, nel migliore dei casi, si sarebbe chinato a raccoglierle, mangiandole con gusto. Se la mia connazionale Maria Sklodowska Curie non si fosse detta “non so”, sarebbe sicuramente diventata insegnante di chimica per un convitto di signorine di buona famiglia, e avrebbe trascorso la vita svolgendo questa attività, peraltro onesta. Ma si ripeteva “non so” e proprio queste parole la condussero, e per due volte, a Stoccolma, dove vengono insignite del premio Nobel le persone di animo inquieto ed eternamente alla ricerca.
È per proclamare questo «non so», è per questa fede incerta, vedete, che ho preferito non indossare la toga: e chiedo scusa se questo gesto può aver offeso qualcuno. Perché tra quei libri di fede incerta ne ho letti due (i Pensieri di Blaise Pascal e le Tre Ghinee di Virginia Woolf) che mettono in guardia dal rischio di trovare troppo certezze nelle vesti liturgiche dei poteri maschili. Il primo ha scritto che se «i magistrati possedessero la vera giustizia non saprebbero che farsene di quelle loro toghe rosse, dei loro ermellini, di cui s’ammantano come gatti villosi […] se i medici sapessero la vera arte per guarire, non avrebbero palandrane e pantofole, e berrette a quattro pizzi». E Virginia suggeriva che le coloratissime toghe delle università inglesi servissero a suscitare «competitività e invidia». Un recente, luminoso discorso delle allieve e degli allievi della Scuola Normale Superiore di Pisa, mia amata alma mater, ci ha di recente ricordato quanto questi sentimenti siano attivi, e distruttivi, nell’università prigioniera del mito dell’eccellenza. Dunque, non rifugiamoci nelle insegne che proclamano al mondo che siamo quelli che sanno. Preferiamo l’umiltà – cioè l’amorevole, francescana vicinanza alla terra – di chi sceglie come sua insegna il «non so».
Agli abiti, ai gesti, ai riti, ai pensieri che disegnano l’università come un clero separato dal mondo, preferiamo tutto ciò che ci restituisce al mondo, e al nostro lavoro per cambiarlo. Per questo accogliamo con gioia e gratitudine le bandiere delle diciassette contrade, il gonfalone della Regione Toscana e quello della Provincia: perché l’università si sente parte di una comunità civile, della sua storia, del suo desiderio di futuro. Siamo profondamente legati all’amatissima città di Siena, e alle sue istituzioni: qua oggi tra noi rappresentate dalla Balzana, il gonfalone civico che salutiamo con deferenza e con affetto. E desidero inviare il saluto più rispettoso e amichevole al Sindaco di Siena, che ha scelto di non essere presente tra noi.
Abitare il mondo significa – ce lo insegnano le nostre studentesse e i nostri studenti – aver voglia di cambiarlo dalle fondamenta. E la lezione inaugurale, che tra poco ascolteremo, serve a non lasciare dubbi sulla direzione in cui vogliamo cambiarlo, il mondo.
Pietro ed io abbiamo chiesto a Cecilia Strada di aprire questo anno accademico, perché ci pare che Resq, «la nave degli italiani» che solca il Mediterraneo per salvare «esseri umani, leggi e diritti», della quale Cecilia è portavoce, sia tra le luci accese nell’eterna notte della Repubblica. Italiani che accolgono stranieri: e che per accoglierli li strappano al mare, perché non siano riconsegnati alle carceri libiche – a torture pagate con i soldi delle nostre tasse. Resq salva la nostra stessa identità: «Profugo … povero, ignoto, io vago fra i luoghi deserti di Libia / dall’Europa … respinto»: sono parole del primo canto dell’Eneide, a parlare è Enea. «Profugo … povero, ignoto, io vago fra i luoghi deserti di Libia / dall’Europa … respinto»: se questo è il mito fondativo di Roma, come potremmo essere più fedeli alla traditio, al passaggio di mano della cultura, se non con la presenza, la testimonianza, la parola di Cecilia Strada? Siamo stranieri in Italia: da sempre meticci, fusi, diversi, sangue misto, bastardi. Questa la nostra storia: questo il nostro progetto per il futuro. Questo, in una università in cui si impara a diventare stranieri, è davvero il nostro lavoro di ogni giorno.
La nave Resq dice di sé, lo abbiamo sentito, che salva non solo i corpi, ma anche le leggi. Già, le leggi. Oggi vorrei ricordare che costruendo le basi culturali per aprirci agli stranieri, la nostra università è dalla parte della legge, dell’ordine. È bene ricordarlo, in un’Italia in cui legge e ordine sembrano essere diventate bandiere di chi i migranti li sequestra sulle navi, o li vorrebbe affondare sui barconi.
Nadia Fusini – che oggi ci onora della sua presenza – mi ha regalato l’ancora inedita traduzione di un brano del Thomas More, questo dramma scritto nell’Inghilterra del primo Seicento da un collettivo di autori, uno dei quali fu nientemeno che William Shakespeare. E proprio in uno dei brani così evidentemente suoi, leggiamo parole che sembrano scritte per oggi. Tomaso Moro, cancelliere del regno, è chiamato a sedare il tumulto del popolo che vorrebbe cacciare gli stranieri che rubano il lavoro agli inglesi. Così si rivolge loro:
Diciamo che sono espulsi, e diciamo che questa vostra protesta
Giunga a ledere la maestosa dignità dell’Inghilterra.
Immaginate di vedere gli stranieri disgraziati,
Coi bambini sulle spalle, i loro miseri bagagli,
Arrancare verso i porti e le coste per imbarcarsi,
E voi assisi in trono, padroni ora dei vostri desideri,
L’autorità soffocata dalle vostre risse,
Voi, agghindati delle vostre opinioni,
Che avrete ottenuto? Ve lo dico io: avrete insegnato
A far prevalere l’insolenza e il pugno forte,
E come si annienta l’ordine. Ma secondo questo schema
Nessuno di voi arriverà alla vecchiaia:
Ché altri furfanti, in balìa delle loro fantasie,
Con quello stesso pugno, con le stesse ragioni, e lo stesso diritto,
Come squali vi attaccheranno, e gli uomini, pesci famelici,
Si ciberanno gli uni degli altri. […]
Volete calpestare gli stranieri,
Ucciderli, sgozzarli, impadronirvi delle loro case,
Mettere il guinzaglio alla maestà della legge
Per aizzarla poi come un cagnaccio. Ahimè! Diciamo che il Re,
Clemente col traditore pentito, rispondesse
In modo non commisurato alla vostra grande colpa,
Mettendovi al bando: dove ve ne andrete?
Quale paese, vista la natura del vostro errore,
Vi darà asilo? Che andiate in Francia o
Nelle Fiandre, in qualsiasi provincia germanica,
In Spagna o in Portogallo,
In qualunque luogo che non sia amico dell’Inghilterra:
Ebbene, lì sareste per forza stranieri. Vi piacerebbe forse
Trovare una nazione di temperamento così barbaro
Che scatenandosi con violenza inaudita,
Vi negasse rifugio sulla terra, anzi
Affilasse detestabili coltelli per le vostre gole,
Scacciandovi come cani, come se non fosse Dio
Che v’ha fatto e creato, come se gli elementi naturali
Non servissero anche ai vostri bisogni
Ma dovessero essere riservati a loro? Cosa pensereste
Di un simile trattamento? Questo è il caso degli stranieri,
Questa la vostra montagnosa disumanità.
Chi caccia lo straniero, chi lo perseguita, chi lo insulta distrugge la legge e l’unico ordine possibile, quello umano. Le parole di Shakespeare sono ancora più vere nell’Italia di oggi, retta da una legge fondamentale, la Costituzione del 1948, che fa del nostro comune essere persone umane il fondamento stesso di ogni legge. E, come vedete, dallo studio della storia e delle lingue, dalla filologia, dalla traduzione estraiamo continuamente, come da un tesoro, cose nuove e cose antiche.
Ecco, dunque, il nostro lavoro: tenere in tensione queste cose. L’antico e il nuovo, il passato e il presente: quella tradizione umanistica che ancora può renderci umani. «La nostra patria – ci ha ricordato Carlo Rosselli – non si misura a frontiere e cannoni, ma coincide col nostro mondo morale e con la patria di tutti gli uomini liberi». È un forte, fortissimo invito alla presenza. Ad essere presenti, contro ogni forma di indifferentismo.
Oggi siamo felici anche perché finalmente possiamo essere qua in presenza – pur conservando, come è doveroso, distanziamenti, mascherine, porte aperte e prudenza. Il nostro impegno è che questa presenza fisica sia segno e annuncio di una presenza morale, culturale, umana dell’Università per Stranieri: nella città di Siena, in Italia e in un mondo che, anche per noi, coincide con la patria di tutte le donne e di tutti gli uomini liberi.
Buon lavoro a tutte, e a tutti!
(Fonte : https://volerelaluna.it/controcanto/2021/10/14/luniversita-una-comunita-aperta-critica-antifascista/)
Il mio commento su:
https://ilpensierostorico.com/la-comunita-universitaria-e-le-tane-neofasciste-una-lettera-al-neorettore-tomaso-montanari/
Caratteristica indefettibile di uno scienziato dovrebbe essere la curiosità. Andiamo, allora, a cercarli questi neofascisti nei loro “covi”, proprio come fa l’orco della fiaba di Bloch con le sue prede o don Milani con i suoi Gianni, anche a rischio di trovare porte sbarrate e di essere derisi.
Caro collega,
diverse sono le ragioni che mi hanno portato ad apprezzare il tuo discorso di insediamento a rettore dell’Università per Stranieri di Siena (https://www.roars.it/luniversita-una-comunita-aperta-critica-antifascista/). Cito, ma solo a titolo esemplificativo, l’accenno che hai fatto all’opportunità di suddividere, di delegare il potere, non per mortificarlo ma perché esso diventi esercizio di responsabilità.
Vorrei però richiamare l’attenzione, tua e di chi vorrà prendersi la briga di leggere questa mia, sull’insistenza nel tuo discorso della necessità di fare di quella universitaria «una comunità antifascista».
Ho un anno più di te. Ricordo, ero una matricola, come, in occasione delle elezioni per le rappresentanze studentesche nel 1989 alla Sapienza di Roma, alcuni docenti avessero diffuso un appello in cui esprimevano «viva preoccupazione e netto dissenso di fronte all’ipotesi di una lista che acco[gliesse] rappresentanti di gruppi cattolici ed esponenti del Fronte della Gioventù» (l’organizzazione giovanile, lo ricordo per i più giovani, del Movimento Sociale Italiano). Il riferimento era all’intesa tra questi ultimi e i «Cattolici popolari»; questa era la denominazione del braccio politico di Comunione e Liberazione. Grazie a questo patto elettorale, si puntualizzava nel documento, «ci sono, da oggi, nuove opportunità e nuove motivazioni perché questi ‘nostalgici’ condizionino in modo macabro la vita di questo ateneo». Quindici anni prima Pier Pasolini aveva scritto (rinvio ai suoi Scritti corsari) come circolasse ancora nel Paese «una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per procurarsi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più», per poi precisare che «buona parte dell’antifascismo di oggi, o almeno di quello che viene chiamato antifascismo […] dà battaglia o finge di dar battaglia ad un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può più far paura a nessuno. È, insomma, un antifascismo comodo e di tutto riposo». Tale antifascismo era tanto più esecrabile quanto più «tutti sapevamo, nella nostra vera coscienza, che quando uno di quei giovani decideva di essere fascista, ciò era puramente casuale, non era che un gesto, immotivato e irrazionale: sarebbe bastata forse una sola parola perché ciò non accadesse. Ma nessuno di noi ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male».
Nessuna concessione, contaminazione o resa all’altro da sé, quindi, da parte di Pasolini, ma la consapevolezza che fosse più comodo per l’antifascismo, per l’appunto, «di comodo», la trasfigurazione demoniaca dell’avversario.
In verità, ci fu chi, anche all’interno della cultura antifascista, tentò di superare tabù e pigrizie. Antonello Trombadori, già gappista durante l’occupazione nazista della Capitale, partecipò nel mese di marzo, sempre del 1989, a un dibattito promosso da Fare Fronte alla Facoltà di Economia e commercio, ancora una volta della Sapienza, dal titolo Spegnere il fuoco della violenza. La reazione del Pci e della Federazione giovanile comunista fu durissima. Trombadori si sarebbe difeso sulle colonne del «Tempo» con le seguenti parole: «mi sono rivolto anche ai promotori del dibattito, e non so fino a che punto sono riuscito a far capire a questi ragazzi che si chiamano fascisti l’importanza della democrazia e della Costituzione repubblicana, ma credo di aver introdotto fra di loro qualche argomento di riflessione». Riflettendo qualche anno dopo sul senso di quell’iniziativa, Trombadori avrebbe aggiunto in un’intervista al «Corriere della Sera»: «quattro anni fa fui invitato dal Fronte della Gioventù ad un’assemblea all’università La Sapienza per discutere sul tema della violenza politica. Io parlai col sottofondo dei fischi e degli insulti dei ragazzi della Fgci e degli applausi dei missini. Per il solo fatto di aver partecipato ad un incontro con i fascisti, fui quasi ripudiato da una parte del mio partito». Anche qui, nessuna condivisione delle ragioni degli altri, quindi, ma riconoscimento che, lì dove si creavano le condizioni di una libera discussione, non avesse diritto di cittadinanza la figura del reietto, del paria.
Mi e ti domando, allora: oggi il neofascismo, certo anche quello che dà l’assalto alla sede nazionale della Cgil, deve destare più allarme che negli anni Settanta, quelli a cui si riferiscono i brani citati di Pasolini, gli anni, per intenderci, di Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale e poi del terrorismo nero? Pasolini era forse un ingenuo?
Può darsi. Eppure, mi e ti domando nuovamente, questi neofascisti nostrani perché si dichiarano tali? Perché hanno letto Evola, Gentile, Spirito, Drieu La Rochelle o Codreanu? Accanto a una, immagino, minoranza che ha coltivato e coltiva il suo neofascismo in biblioteca, la maggior parte di coloro che si definiscono neofascisti non lo fa forse anche per un sentimento di frustrazione, rancore, rabbia, livore, nei confronti di uno Stato democratico, tacciato, a torto o ragione, di essere il responsabile delle condizioni di precarietà, marginalità ed incertezza economica in cui versano? Questo neofascismo non abita forse più nelle periferie che nei centri storici?
Se così è, mi e ti domando, lo prometto, per l’ultima volta, se la comunità universitaria non debba aprire le proprie porte ed accoglierli, questi fascisti, sia il fascista tale proprio per, cito dal tuo discorso, le «letture tendenziose» che ha fatto, sia quello che lo è «perché povero culturalmente e materialmente» (con la consapevolezza, peraltro, che l’antifascista può essere culturalmente non meno modesto). Non possiamo difatti escludere che un giovane possa arrivare a qualificarsi neofascista proprio perché ha fatto ciò che Franco Antonicelli, come tu ricordi, consigliava ai portuali di Livorno: «cercate sempre i libri che vi tormentano, cioè che vi conducono avanti, i libri che vi gettano lo scrupolo di coscienza: questi sono i libri, i libri non di fede accertata, ma di fede incerta».
Hai sottolineato «la fatica e la felicità dell’attraversamento» di chi ti ha preceduto e lo scienziato sociale di Bloch, l’«orco della fiaba», sempre a caccia dell’uomo, la sua preda naturale. Le nostre prede, però, non abitano solo, e neanche principalmente, le aule universitarie, luoghi sempre più elitari, ma sono rintanate in quelle che certo linguaggio antifascista militante chiamerebbe i covi, le fogne. Andiamo a cercarli lì allora, proprio come, secondo il don Lorenzo Milani che menzioni, dovrebbe fare ogni professore o ogni professoressa con il suo Gianni: «cerchereste nel suo sguardo distratto l’intelligenza che Dio ci ha messa certo eguale agli altri […]. Andreste a cercarlo a casa se non torna. Non vi dareste pace».
Insegno a Scienze della Formazione, a Roma Tre. Il polo didattico è in piena zona Esquilino. Spesso per andare a lezione passo accanto alla sede di CasaPound, a via Napoleone III, e dico a me stesso: «adesso citofono, busso», ma non lo faccio. Anche se mi facessero entrare non so esattamente cosa direi ma la tentazione di dare un’occhiata, di curiosare nella ‘tana neofascista’ è forte, fortissima ma, ahimè, la codardia lo è ancora di più e il timore di non saper gestire la probabile diffidenza, l’ostilità, mi costringe alla ritirata. Di questo comportamento metto ogni tanto a parte qualche mio collega che cerca di rincuorarmi assicurandomi che non è vigliaccheria la mia ma manifestazione di «alta coscienza civile che mi impedisce di frequentare certa canaglia». Io ringrazio ma so che si tratta di viltà e nient’altro perché so che caratteristica indefettibile di uno scienziato dovrebbe essere la curiosità e non quella di impalcarsi a precettore, pure a rischio di trovare le porte sbarrate, se non addirittura lo scherno o un sonoro calcio nel culo («non provano curiosità per nient’altro, perché ciò potrebbe indebolire la forza dei loro argomenti»; del bellissimo monito di Wislawa Szymborska, che ricordi e non conoscevo, penso debbano farne tesoro tutti).
«Le brave ragazze vanno in paradiso, le cattive dappertutto», scriveva Ute Ehrhardt. Io penso che lo scienziato debba essere una ragazza cattiva.
Che dici allora, ci caliamo assieme nelle fogne?