Pubblichiamo , tal quale l’abbiamo ricevuta, la replica di A. Bisin a G. De Nicolao sulla ricerca italiana.

 

In un mio articolo con Alessandro De Nicola, pubblicato su LaRepubblica il 12 Aprile 2012 col titoloRidurre la spesa, il catalogo è questo, compare la seguente affermazione: “L’ università continua a produrre con disarmante regolarità concorsi farsa e più in generale, anche se con alcuni distinguo, poca ricerca (Roberto Perotti docet).” Questo ha generato una piccata reazione di Giuseppe De Nicolao, pubblicata su Roars il 13 Aprile 2012 col titolo Università: Cio che Bisin e De Nicola non sanno (o fingono di non sapere). In questo post rispondo con un ritardo di cui mi scuso.

Gentile De Nicolao,

Come le dicevo non trovo il suo tono molto piacevole. Non apprezzo, soprattutto il suo tentativo – peraltro reiterato – di far passare una mia nota in cui onestamente le dicevo di non conoscere i suoi dati (i dati Scimago) in una ammissione di fare “affermazione perentorie” senza sapere di cosa parlo.  Ancora meno apprezzo il suo suggerimento ai lettori che se non so di cosa parlo su questo, forse… Dopo tutto io ho accettato di dibattere, nonostante tutti (ma proprio tutti, non solo quelli tra i miei amici che si occupano a tempo pieno di screditare l’università italiana) mi consigliavano di lasciar perdere. Vi siete guadagnati una bella reputazione voi a Roars, complimenti!.

Ma il tono e’ abbastanza soggettivi e capita spesso anche a me di essere meno che piacevole. E poi non mi piace rinnegare le promesse. Le rispondo quindi. Lo farò brevemente in alcuni punti. E lo farò senza cercare di fare lo spiritoso o di prendermi gioco delle sue affermazioni – non perché non sia facile farlo, ma per cercare di essere diretto e stilisticamente neutro nell’analisi.

L’affermazione che ha scatenato la sua oltraggiata reazione appare essere che “L’universita [italiana produce] poca ricerca”. Credo anche che il riferimento a Perotti, che mi par di capire lei e molti altri considerano un nemico della patria, abbia contribuito.

Senza pretendere di fornire una analisi completa della quantità e qualità della ricerca dell’università italiana, vorrei discutere brevemente alcuni aspetti diversi che a mio parere piu’ che giustificano l’affermazione incriminata. In realta’, sono proprio i dati Scimago, quelli che lei ha introdotto nella discussione,  a fornire le piu’ chiare munizioni in supporto alla mia affermazione.  Inizio con tre note metodologiche.

i) Tralasciero’ di considerare l’insegnamento, in questo post, e discutero’ solo di ricerca, perché di  ricerca si sta discutendo. Tralasciero’ quindi di analizzare i dati sulla spesa per studente e quelli sul rapporto docenti-studenti, per quanto interessanti siano le questioni che quei dati impongono di affrontare: come definire uno studente, data l’anomalia tutta italiana dei  fuori-corso, e come definire un docente, dato il numero di contratti (integrativi e sostitutivi) censiti dal ministero (ringrazio Francesco Ferrante che mi ha fatto notare questo punto).

ii) Confronterò l’Italia con il Regno Unito. Il Regno Unito infatti è paese simile all’Italia in popolazione e Pil ed è un paese il cui sistema universitario è notoriamente di grande livello – rappresenta probabilmente la frontiera in Europa. In altre parole, i miei confronti vanno interpretati come misure di quanto lontana sia l’Italia dalla frontiera. Ma un confronto piu’ generale, tra paesi diversi, e’ naturalmente possibile. In questo caso pero’ bisogna normalizzare i dati, per il totale della popolazione e/o per una misura del reddito del paese. Lei non lo fa, purtroppo. Ma lo fa Andrea Moro in un post gemello a questo sul nostro blog. Senza voler rovinare la suspence, anticipo che l’Italia il 7-8 posto di cui lei e’ cosi’ fiero, De Nicolao, non lo mantiene proprio.

iii) Anche se i miei commenti riferiranno all’universita’, gli articoli e le citazioni nei dati includono quelli prodotti dai centri di ricerca  al di fuori dell’universita’, che hanno un ruolo importante nella produzione di ricerca in Italia (si pensi al CNR) ma hanno un ruolo essenzialmente irrilevante nel Regno Unito. Se li togliessi dall’analisi (non lo faccio; si possono produrre buone argomentazioni pro e contro) il risultato sarebbe un peggioramento del giudizio sulla produttivita’ relativa dell’universita’ italiana in termini di ricerca. In sostanza, sto implicitamente assumendo, a favore dell’Italia,che  la ricerca che in Italia fa il CNR nel Regno Unito viene fatta in universita’

1. Concorsi. L’università italiana e la sua produttività in termini di ricerca sono il risultato di decenni di selezione attraverso concorsi. L’impressione che molti (tra cui io) hanno di questo meccanismo è che esso sia stato spesso “corrotto” (con alti e bassi a seconda anche della legislazione; legislazione peraltro motivata proprio da questa generale impressione di “corruzione”). Parlo di impressione perché ovviamente è difficile produrre una analisi statistica del fenomeno. Però il mio blog riceve ancora oggi spesso appelli da parte di chi si ritiene danneggiato da membri interni, parenti o amici; quasi ogni conversazione con amici accademici finisce per ricordare il tal o il tal altro concorso maneggiato dal tal o tal altro barone; il nemico della patria Perotti racconta storie interessanti a questo proposito nel suo libro. Nulla più di aneddoti, ovviamente.

Vorrei però citare anche due analisi statistiche centrate sul nepotismo (un estremo ma probabilmente minimo indice della “corruzione” del sistema universitario), precise ed attente:

2. Dottorati di ricerca etc. In tutto il mondo la ricerca avviene “intorno” ai dottorati di ricerca, dove studenti con ambizioni accademiche sono formati nelle rispettive discipline. Non è necessario che sia così,  esistono ottimi centri di ricerca non universitari e/o università con pessimi dottorati, dove si produce ricerca di prim’ordine. Ma queste sono eccezioni, non la norma. Un indicatore fondamentale della qualità dei dottorati è dato dal flusso di studenti che essi ricevono da altri paesi. Questo perché in effetti si è formato un “mercato” internazionale degli studenti per cui le università competono sulla base della propria qualità nella ricerca (ma anche, recentemente, con borse di studio e altri meccanismi).  Il confronto tra Italia e Regno Unito a questo proposito è drammatico:

Tabella A: Brain Gain

Paese

% studenti di dottorato dall’estero nel 2000

Italia

2

Regno Unito

35

Dati: European Commission (2003) – in Lo splendido isolamento dell’università italiana, Stefano Gagliarducci, Andrea Ichino, Giovanni Peri, Roberto Perotti, 2005; l’intera Tabella 4 nel testo è molto istruttiva.

3. Produttività nella ricerca. Se i punti 1 e 2 riferiscono alla quantità e qualità della ricerca nell’università italiana solo in modo indiretto, veniamo ai  dati Scimago.

Tabella B: Articoli e citazioni

Paese

Articoli – in migliaia; 2006-2010

Citazioni – in migliaia; 2006-2010

Italia

762

9.862

Regno Unito

1.533

24,535

Dati: Scimago; riportati da De Nicolao, Roars il 13 Aprile 2012.

L’Italia produce metà articoli del Regno Unito e meno di meta’ citazioni! Si noti che il numero di citazioni per articolo è circa 13 in Italia e 16 nel Regno Unito, il che indica seppur rozzamente una minore qualità dell’articolo  medio in Italia che nel Regno Unito (questo indicatore, usato da Perotti è ridicolizzato da De Nicolao perché dipende in modo drammatico dalla dimensione del paese; ma Italia e UK sono essenzialmente uguali in popolazione e PIL…).

4. Produttività nella ricerca per unità di spesa. Se la produttività in Italia è bassa rispetto al Regno Unito, questo può essere dovuto al fatto che l’Italia spende poco per la ricerca.

Tabella C: Articoli e citazioni per unità di spesa

Paese

Articoli – per milione di dollari; 2010

Citazioni – per milione di dollari; 2006-2010

Italia

8

190

Regno Unito

10

270

Dati: Scimago; riportati da De Nicolao, Roars il 13 Aprile 2012 [I numeri riportati in tabella sono approssimati; estratti “a occhio” da questa Tabella, riportata nel post di De Nicolao.

Se è vero che per unità di spesa il divario con il Regno Unito non appare così elevato, resta comunque vero , nelle citazioni (cioé in una misura che tiene conto seppur rozzamente della qualità della ricerca stessa) che il Regno Unito produce il 42% più citazioni per unità di spesa dell’Italia (e 25% piu’ articoli). C’è un altro punto importante qui: la spesa cui i dati della tabella di De Nicolao riferiscono è quella che l’OCSE definice HERD (Higher Education Research and Development Spending) che non include la spesa per il CNR. Se assumiamo che la ricerca che in Italia fa il CNR nel Regno Unito viene fatta in universita’ (come dobbiamo fare perche’ il confronto tra articoli e citazioni sia valido; vedi nota medodologica iii sopra) allora stiamo drammaticamente sopravvalutando articoli e citazioni per unita’ di spesa in Italia in relazione al Regno Unito.

5. Ranking delle università. Ci sono tanti rankings quante università, ma quello più utilizzato e più noto è lo  Shangai Ranking, prodotto da Academic Ranking of World Universities.

Tabella D: Ranking delle università.

Paese

Università nelle prime 100

Italia

0

Regno Unito

11

Dati: Academic Ranking of World Universities, 2011.

Alcuni commenti a mò di conclusione sono necessari. Innanzitutto, l’affermazione che l’università italiana produce poca ricerca è drammaticamente confermata nei dati, anche e soprattutto in quelli di De Nicolao. De Nicolao è giunto a conclusioni opposte perché ha evidentemente evitato il confronto tra Italia e Regno Unito, preferendo quello con la Francia  (e a volte il Giappone). La Francia è sì simile all’Italia in molti aspetti, anche se non tanto quanto il Regno Unito ad esempio in termini di popolazione, ma non è alla frontiera della ricerca – questo è abbastanza sorprendente e ringrazio De Nicolao per averlo così ben documentato.

Lo scuorfano è bello a mamma sua, e tutti noi ci accontentiamo di noi stessi, ma davvero dobbiamo essere entusiasti di un paese che produce la metà del Regno Unito? Si può davvero essere arroganti come lei è, De Nicolao, nel suo post quando ha davanti dati di questo tipo? Che non solo dimostrano che la produttività totale della ricerca in Italia è metà di quella del Regno Unito ma che anche la produttivita’  per unità di spesa è anche molto inferiore? Non voglio nemmeno pensare a cosa succederebbe se togliessimo la ricerca prodotta dal CNR.

La mia affermazione sulla ricerca in Italia era nel contesto di una lista di possibili risparmi di spesa pubblica. Lei, De Nicolao, a questo proposito afferma

Difficile pensare che siano possibili grandi risparmi senza precipitare nel terzo mondo [addirittura in neretto nel testo; ndr].

Mi permetta di spiegarle come si fa. E’ davvero molto semplice. Michele Ciavarella  e Vito Ricci hanno calcolato, per gli  anni 2004-2010,    una misura della percentuale dei docenti italiani del tutto improduttiva, sia come citazioni, sia persino come pubblicazioni:

Tabella E: Docenti con zero pubblicazioni

Fascia

% con 0 articoli

% con 0 citazioni

Ordinari

26,8

33,7

Associati

26,5

33,3

Ricercatori

29,4

36,0

Dati: Michele Ciavarella  e Vito Ricci su ItalianScientists; elaborazioni da Scholar Search (database in inglese e italiano), per gli  anni 2004-2010.

Il 30% di docenti italiani ha zero pubblicazioni. Speculo: il 50% produce ricerca minima e/o irrilevante. Io non credo che queste percentuali sia particolarmente elevata per l’Italia (ma sono disposto ad essere sorpreso) – docenti che non fanno ricerca o ne fanno pochissima ce ne sono dappertutto. Ma solo in Italia sono pagati esattamente come gli altri, e hanno lo stesso carico di insegnamento degli altri. Non crede che si possa risparmiare qui senza finire nel terzo mondo, De Nicolao?

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77 Commenti

  1. Possiamo fare un passo indietro? Il Prof. Bisin ha senz’altro argomenti a suo favore. Argomenti però controbilanciati in generale, e.g., da questo intervento del Prof. Belleli: http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/05/04/limpossibile-missione-risparmio-sulla-spesa-pubblica/218752/

    Tornando allo specifico dell’Università italiana, vorrei evitare ulteriori polemiche sui dati prodotti da Ciaravella e Ricci, ma vorrei far notare al Prof. Bisin che a fronte di una spesa stimata in N milioni di EUR per il VQR, Ciaravella e Ricci sembrano aver prodotto dei dati interessanti a costo praticamente zero (N > 100). Forse che forse si può risparmiare in qualche altro modo? Vorrei anche ricordare al Prof. Bisin, che l’applicazione della legge 240/2010 (che ha avuto “certi economisti” tra i suoi – tutt’ora – più accesi sostenitori) è stata tutt’altro che a costo zero. Ed i suoi effetti accentratori e veramente negativi si vedranno solo tra qualche anno.

    Infine, una nota sugli argomenti portati dal Prof. Bisin. Le osservazioni fatte su concorsi, ruoli, carichi, ricerca prodotta e non, mi vedono anche sostanzialmente d’accordo, ma la questione è se l’unica cura siano i tagli e se questi tagli, fatti in concomitanza con una legge complessivamente pessima (la 240/2010 con annessi e connessi) saranno efficaci sul breve e medio termine a cambiare in meglio le cose in maniera duratura. Io sono profondamente in disaccordo con questa impostazione che invece permea moltissimi interventi, spesso corroborati da dati evidentemente non osservati con cura e smentiti puntualmente da dati OCSE (yes, we are talking about Prof. Perotti’s bad observations). La sfida che si pone qui è se sia possibile rendere il sistema più efficace ed efficiente *senza tagliare ulteriormente* e *riducendo* l’oramai insopportabile mole di regole e regolamentazioni imposte centralmente. Si è d’accordo a partire da qui? La domanda viene posta al Prof. Bisin ed a molti altri commentatori che ben si guardano dal fare delle “spending reviews” serie delle imposizioni ministeriali odierne; i costi del VQR (o – tanto per – dell’imposizione di sottoporre i progetti PRIN in Inglese *e* Italiano) non vengono mai presi in considerazione. Così, come non si sta prendendo in considerazione il costo anche umano di un sistema concorsuale e di carriere che – invece di intervenire su ruoli e stipendi – sancisce l’ipergerarchizzazione della struttura e la precarizzazione a lunghissimo termine di molte, troppe, persone.

    In altre parole non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. *Prima* si critica l’esistente (ovvero il MIUR e la legge 240/2010 *e* i suoi sostenitori; you know who they are) e *poi* si procede con proposte di miglioramento del sistema, ma solo ed esclusivamente, in un contesto di risorse complessive crescenti. Altrimenti o si è miopi o si è in malafede.

    Marco Antoniotti

    • Il problema, direi, sta nell’assurda pretesa di voler mantenere un sistema fintamente egualitario, sia nella didattica, sia, ancora piu’ assurdamente, nella ricerca. Da nessuna parte al mondo tutti i docenti hanno lo stesso carico didattico e ricevono la stessa remunerazione svincolata dalla produttivita’ (sia didattica che scientifica). O si riconosce questo, o non si va da nessuna parte.

      Per esempio: chi non fa ricerca deve almeno insegnare di piu’. Questo libera risorse (non economiche ma di tempo) per chi invece la ricerca la fa. Siamo d’accordo su questo? Se si’, mi spieghi l’asimmetria fra tempo e denaro? Se non c’e’ asimmetria (non vedo perche’ dovrebbe esserci), allora tutto ad un tratto si scoprono risorse spese male (di tempo e di denaro), e possibili miglioramenti di efficienza a costo zero.

    • Non c’è dubbio che questo è un problema che andrebbe affrontato. Tra l’altro, non è detto che le persone che producono poca ricerca siano necessariamente dei fannulloni. Alcuni possono essere dei buoni insegnanti, che andrebbero valorizzati per quel che riescono a fare meglio. In altri casi la rimodulazione potrebbe avvenire sulla base di momenti diversi del percorso di uno studioso: insegnare di più in certi periodi, fare più ricerca in altri. Mi chiedo però se il modo in cui sarà organizzata l’università italiana consenta che scelte del genere vengano prese a livello locale, come dovrebbe essere. Oppure anche questa sarà una competenza dell’Anvur: decidere chi fa ricerca e chi insegna, redigendo apposito piano quinquennale?

    • Assolutamente d’accordo. Esistono docenti con capacita’ pedagogiche notevoli, che vanno valorizzati. Per me pero’ la decisione non puo’ che essere decentralizzata. Su questo si puo’ discutere ma non c’e’ niente che stabilisca che le universita’ debbano fare tutto. Ci si puo’ specializzare in insegnamento e attrarre studenti su questo, e in ricerca, ed attrarre altri tipi di studenti.

    • E perché cercare di mantenere un sistema “egualitario” dovrebbe essere un’assurda pretesa? Cerchiamo di non parlare per slogan e di guardare criticamente allo stato delle cose. Al momento attuale, la legge 240/2010 “impone” si un’uniformità a livello nazionale in cui l’unico modo di differenziarsi sia individualmente che a livello di struttura è “essere al livello der MIT”. Dato che, come afferma Perotti, chi al MIT non c’è arrivato è un caprone (o, al massimo, ha problemi famigliari: that’d be me, you choose why) si vede benissimo come il sistema (sempre legge 240/2010) è stato disegnato per produrre alla fine un sistema con pochissime “eccellenze” e molte mediocrità. Il tutto in un quadro di rigidità impressionanti e di gerarchizzazione incredibile. Questo è il problema: l’ingegnerizzazione e l’istituzionalizzazione, de facto, delle differenze.

      Ed il sottofondo che ha accompagnato questa “decisione” è stata una campagna mediatica impressionante.

      Ora: il quadro corrente designato dalla 240 e dai suoi decreti attuativi è “ragionevole” o no? La risposta è univoca e le responsabilità cadono anche su un insieme di commentatori che hanno alimentato questo clima di sbaraccamento evitando accuratamente di prendere in considerazione proposte alternative.

      E di proposte alternative ce n’erano sul tappeto. Anche se forse erano proposte che assumevano che si, il sistema può essere mantenuto “equo”, “flessibile” e “efficiente” allo stesso tempo. A meno di non prendere per buona l’affermazione che Perotti fa a pg. 174 (+/-, vado a memoria) del suo pamphlet: chi pagherà sarà la “classe media”.

      I beg to differ.

      Detto questo, smetto di fare dibattiti ideologici (perché i discorsi sull’Università grondano di ideologia) e mi pongo il problema di cosa sia possibile cambiare al momento. E ribadisco: su molte delle cose esposte da Bisin e da Perotti e da altri sono più che d’accordo. Si può cambiare poco ma si può: naturalmente se i Regolamenti Didattici di Ateneo sono decisi da tre persone (grazie alla 240/2010; difesa recentemente dai soliti noti) è un po’ dura, ma ci si può provare. Ma forse a livello “locale” si possono migliorare, e di molto, le cose. Purtroppo, e questo lo dico veramente senza acrimonia e con comprensione (been there, done that), da Nashville o da Mercer Street magari si vedono i problemi “macro” dell’Università italiana ma non come questi siano anche, e forse soprattutto, il risultato del coacervo di regole ed imposizioni che negli ultimi anni stanno rendendo la vita complicatissima a tutti: buoni e cattivi. Coraggio Prof. Moro: proponga al suo Dipartimento di disfarsi dell’autonomia amministrativa e di bilancio, nonché dell’autonomia di gestione dei fondi NSF o che altro recuperate a livello federale e statale. Filmi le risate dei suoi colleghi e poi ne riparliamo. Oppure spieghi ai suoi colleghi come funzionano gli esami in Italia: filmi anche in quel caso l’umorismo dilagante e poi ne riparliamo. La legge 240 ed i suoi decreti attuativi non intaccano *nulla* di tutto ciò. Ne consegue che prendersela con chi questa legge l’ha voluta (e, soprattutto, sullo “zeitgeist” che l’ha imposta) sia cosa buona e giusta. Così come è cosa buona e giusta cercare di mantenere il sistema “equo”; magari anche riducendo la forbice degli stipendi.

    • Se vuoi introdurre l’argomento degli incentivi “micro” sfondi una porta aperta. Proprio per qeusto parlavo di differenziazione salariale e di carico didattico. Chi guarda alla “macro” e’ chi pretende tutto sia uguale per tutti.

      Non sto difendendo nessuno slogan. Il sistema non puo’ essere ugualitario per sua stessa natura: l’universita’ e’ li’ per formare le elites. Non puo’ essere uguale per tutti. E non voglio nemmeno l’universita’ di prima e di seconda categoria. Ne voglio 100 di categorie, diversificate su piu’ dimensioni.

    • “Il sistema non puo’ essere ugualitario per sua stessa natura: l’universita’ e’ li’ per formare le elites. Non puo’ essere uguale per tutti”. Questo è uno slogan.

    • Vedo che non si puo’ rispondere direttamente a questo commento:

      Francesco Sylos Labini
      7 maggio 2012 alle 20:47
      “Il sistema non puo’ essere ugualitario per sua stessa natura: l’universita’ e’ li’ per formare le elites. Non puo’ essere uguale per tutti”. Questo è uno slogan.

      per cui metto qui, perche’ mi pare un punto importante.

      Questo non e’ uno slogan ma e’ la Costituzione italiana, dove si legge (art. 34): “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.”

      Quindi i non capaci e i non meritevoli ne hanno facolta’ ma non diritto. Quindi non puo’ essere uguale per tutti, a meno di non voler procedere col (stavolta, si, uno slogan) “siamo tutti meritevoli”

    • Direi che stiamo parlando di cose diverse. La discussione tra Antoniotti, Moro e me riguardava il trattamento eguale dei docenti rispetto al carico didattico. L’idea è che si potrebbe redistribuire il carico didattico tenendo conto della produzione scientifica. A me pare che questa sia un’ipotesi di cui vale la pena di discutere, che non c’entra nulla con la costituzione o con l’egualitarismo nell’accesso alla formazione universitaria, che è invece il problema sollevato da Sylos, cui ha risposto Zanella. Non c’è dubbio che anche il secondo tema sia molto importante, ma suggerisco di discuterne in un’altra occasione.

    • Sulla costituzione non c’è scritto che “l’universita’ e’ li’ per formare le elites. Non puo’ essere uguale per tutti” ma “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.” Sono due concetti molto diversi.

    • Il problema che ho con i tuoi argomenti è che invece di discutere sui meccanismi di accettabile differenziazione (per una definizione concordata di “accettabile”) tra persone e tra istituzioni, di fatto porti acqua verso chi invece ci ha dato la 240/2010 (e, personal pet peeve, il costosissimo ed accentratore ANVUR/VQR). Ripetiamo: la 240/2010 è quanto di più sovietico si possa immaginare da moltissimi punti di vista.

      Facciamo un giro largo. Un centinaio di strade uptown da dove sta Bisin, perlomeno in un paio di dipartimenti, il moltiplicatore *medio* di salario tra un assistant professor tenute track ed un full professor è di circa 2. Non sarei affatto sorpreso di sapere che questo numero sia diffuso altrove. In Italia, anche evitando i soliti strafalcioni di Repubblica (e di Perotti), il moltiplicatore *è* più alto e con dinamiche sociali dovute al blocco del turnover che ridurranno nei prossimi anni la spesa per stipendi complessiva. Ora: sarebbe stato meglio attaccare questo problema, oppure la logica della riduzione della massa stipendiale è l’unica da perseguire? Io scommetto che siamo – come ben dici – d’accordo su quale dovrebbe essere la risposta. Invece, quello che è successo in Italia è che i soliti noti (hint: scrivono sul Corriere) si sono levati a sostenitori della “riforma” Gelmini con annessi e connessi e *quindi* solo ed esclusivamente a sostegno della politica di riduzione complessiva della massa salariale; il che nel mio vocabolario è tanticchia ideologico. Nel frattempo, yours truly (dato che sono un caprone, come afferma Perotti) c’è rimasto in mezzo. Vabbè, chi è causa del suo mal… Ma tornando alla questione centrale: un conto è discutere a livello “micro” ed un conto è discutere a livello “macro”. Io continuo credere che ci sono modi diversi di guardare al “macro livello” e credo che in generale, dovresti fare più attenzione a vedere il “cui prodest” con le tue considerazioni, molte delle quali, ribadisco, più che condivisibili.

      It ain’t a pissing context.

    • La ringrazio. Ho letto pero’ l’articolo sul Fatto e non trovo altro che affermazioni che non si puo’ fare (tagliare la spesa) senza spiegazione sul perche’ non si possa.

      Non prenderei troppo sul serio i dati di Chiavarella e Ricci, assolutamente. Per me era un modo di dire che il modo di tagliare e’ distinguere per produzione di ricerca e trattare quelli che non la producono da insegnanti (con salari inferiori e/o piu’ insegnamento)

      Riguardo alla domanda che mi pone: direi di si, in principio. Io credo pero’ che si possano fare entrambe le cose, tagliare la spesa e migliorare il sistema universitario (mi riferisco alla ricerca – la questione del costo per studente e’ piu’ complessa). Non conosco i dettagli della riforma, ma in generale sono assolutamente d’accordo che i tagli lineari sono cosa tremenda, fanno morti e feriti in un sistema non concorrenziale (potrebbero invece funzionare se le univerista’ competessero tra loro per fondi e/o studenti perche’ la distribuzione dei tagli in questo caso sarebbe operata da chi, all’interno all’universita’, gestisce la competizione).

    • Prego: sull’articolo de “Il Fatto” possiamo dire che the short answer is: se si taglia la spesa si taglia reddito e si entra in un circolo vizioso. Ma non è di questo che stiamo discutendo e di risposte lunghe e anche ragionevoli a sostegno di tagli e rimodulazioni oculate della spesa sono pieni i giornali, i libri, le televisioni, i blog e chi più ne ha più ne metta.

      Se invece ci limitiamo all’Università ed alla RIcerca in Italia, la risposta *È* inequivocabile: il sistema nel suo complesso non può ammettere più alcun taglio di alcun genere. Ce lo dicono i dati OCSE ed Eurostat da anni oramai. Quindi la sua risposta “in linea di principio” si scontra con la realtà dei fatti, descritti, per l’appunto, dai dati complessivi OCSE ed Eurostat, inclusa la pietra tombale sulla questione degli “studenti a tempo pieno equivalente” in essi contenuta (http://eacea.ec.europa.eu/education/eurydice/documents/thematic_reports/138EN.pdf pg. 25, Fig. 1.8), con buona pace de “L’Università truccata”. Che ci siano dei fannulloni all’interno del sistema lo sappiamo tutti e sappiamo anche che, fino ad un certo punto, sono fisiologici. Il problema, come ho già detto è che il quadro attuale della Legge 240 e dei suoi decreti attuativi “ingegnerizzerà” di fatto delle differenze in uno scenario di risorse decrescenti e di sostanziale mancanza di autonomia da parte delle singole sedi. Altro che “competizione”!!! Ed i sostenitori principali della riforma attuale – nonostante i peana di circostanza verso le posizioni “libertarie”, nel senso ronpaulistico del termine – sappiamo chi sono, su che giornali scrivono ed hanno scritto, ed in che Università milanese di Via Sarfatti lavorano. Non solo. Questi sostenitori dovrebbero invece guardare con molta attenzione ai dati di Ciaravella e Rizzi, proprio perché questi dati, o meglio, la metodologia che hanno usato, dimostrano come l’esercizio ANVUR/VQR sia una “spesa”. Le chiedo: pensa forse che la National Education and Evaluation Research Agency (www.nerea.gov) abbia in piedi un simile programma di “valutazione” e di “indirizzo” dell’accademia USA? Non crede che il Rep. Ryan calerebbe con la falce su un simile programma?

      Le proposte serie e veramente dirompenti di altri non sono invece neanche state prese in considerazione; eppure sono lì e vanno invece nella direzione giusta – autonomia, responsabilizzazione, il tutto senza tagli. Ripetiamolo! L’Università e la Ricerca italiana non possono sopportare più alcun taglio. Ed un altro dato a sostegno di questa posizione riguarda la percentuale di successo di una domanda di finanziamento in Italia. Senza timore di essere smentito almeno negli ordini di grandezza anche andando a memoria e senza citare fonti, direi che negli USA ed in Europa si viaggia attorno al 10% (NSF, NIH, NEH, DARPA, FP7 etc etc). In Italia, tra FIRB e PRIN la percentuale (specie nei FIRB, i programmi destinati a “ggiovani”) scende attorno al 3-4%. Come si fa ad andare avanti con numeri di questo genere? E ringraziamo il Ministro Profumo che in extremis ha sbloccato i fondi PRIN e FIRB lo scorso dicembre. La Gelmini (elogiata più volte dai soliti noti) li avrebbe riconsegnati a Tremonti (come da accordo, dice l’Andreotti che è in me e pensa male). Ha poi presente quanto tempo ci vuole per pagare uno studente per l’equivalente di un “summer job”? Vogliamo discutere di queste cose?

      Stabilito questo punto fermo irrinunciabile – basta tagli – i problemi diventano di diverso tipo, ma *tutti* risolvibili limitando i poteri “centralistici” e regolatori a tutti i livelli. A partire dal Ministero, fino ai CdA, in un quadro però di “equità” sostanziale. Solo in questo caso diventa ragionevole proporre cose come la rimodulazione dei compensi tra ricercatori ed ordinari (una misura di equità), anche proponendo cose come “course buy-outs” sui fondi di ricerca. Perché non lo si fa? Io continuo a peccare pensando male: non lo si fa, perché in questo modo l’Accademia diventerebbe a tutti i livelli *meno* gerarchica di quanto non lo sia ora e
      di quanto prefigurato dalla 240/2010 e dai suoi sostenitori. E sia ben chiaro che quando parlo di “meno gerarchia” ho in mente anche l’Accademia USA. Inoltre, ricordiamoci che in Italia, le “vie d’uscita” da una posizione sono pressoché zero, sempre grazie al quadro normativo ed alla fantastica inabilità dei nostri imprenditori nel leggere le parole “innovazione” e “ricerca”.

      Concludo rigirando quindi la frittata. Si alla competizione ma non in un quadro come quello attuale di risorse decrescenti e di controllo asfissiante da parte di organi quali quelli prefigurati dalla 240/2010 e, soprattutto, smettendola di assumere che il sistema “vada punito” in un modo o nell’altro, sia intendendo che “il mercato” punirà gli “unfit” oppure che gli “unfit” vadano puniti per via inquisitoriale grazie a ulteriori regole. Su questa base si può discutere. Si accettano questi termini del discorso o no?

  2. A proposito del rapporto tra “concorsi truccati” ed “eccellenza scientifica” suggerisco a tutti di leggere la storia del concorso a cattedra cui partecipò Ettore Majorana, come è raccontata nel libro di Laura Fermi “Atomi in famiglia” . La stessa storia è stata ripresa da Leonardo Sciascia nel libro “La scomparsa di Majorana”.

  3. Mi pare che la replica di Albert Bisin sia un’involontaria conferma delle cose dette da Giuseppe De Nicolao nel suo intervento. Il quale, così almeno mi pareva di aver capito, più o meno diceva queste cose: nonostante i problemi di mala gestione dell’Università italiana, nonostante le risorse sempre più scarse, nonostante l’accanimento mediatico nei suoi confronti, nonostante tutto questo la ricerca italiana ha mantenuto negli scorsi anni livelli più che dignitosi nel panorama internazionale.
    Alberto Bisin, per convincere del contrario, adotta una doppia strategia retorica: da una parte elenca i noti problemi strutturali dell’Università italiana (nepotismi concorsuali, mala gestione, scarsa attrattività internazionale, ecc.); dall’altra propone un impietoso confronto tra Italia e Regno Unito teso a dimostrare il divario incolmabile tra le due nazioni per qualità e quantità della ricerca. La ricerca italiana, sostiene Bisin, non solo è lontanissima dagli Stati Uniti, nei cui confronti il paragone è improponibile, ma anche nei confronti del Regno Unito, paese simile all’Italia per popolazione e Pil.

    Ma davvero il divario con il Regno Unito su cui insiste Alberto Bisin nella sua replica è un dato irreprensibile che prova la scarsa produttività scientifica dell’Università italiana? Davvero, come scrive Alberto Bisin, la distanza rispetto al Regno Unito misura “quanto lontana sia l’Italia dalla frontiera” della ricerca scientifica?

    Bisin insiste poi su un dato apparentemente inequivocabile: vi sarebbe circa un 30% di docenti italiani (equamente distribuiti nelle tre fasce della docenza) totalmente privi di pubblicazioni e/o citazioni negli ultimi anni. E poiché tutto il suo discorso è volto a individuare voci di spesa passibili di tagli, quel dato viene proposto come punto di partenza per un serio disimpegno di risorse pubbliche dal settore dell’istruzione e la ricerca.

    A me pare che questi argomenti non contraddicano il ragionamento di fondo di De Nicolao e anzi lo rafforzino. Se quelle percentuali di inattività scientifica fossero vere, renderebbero ancora più pregnante il suo discorso, perché appunto dimostrerebbero come nonostante la presenza di un peso morto così gravoso, l’università italiana sia riuscita pur tuttavia a mantenersi su posizioni assai rispettabili. La politica dei tagli, che Bisin sa benissimo mai riuscirà a toccare quel peso morto, avrà invece la conseguenza di indebolire ampi settori della ricerca italiana, dignitosissimi, avviando davvero un ciclo involutivo.

    Sconcerta infine quel valore perentorio che Bisin sbandiera come prova della cattiva qualità dell’università italiana: “il 50% produce ricerca minima e/o irrilevante”. Bisin dice trattarsi di una sua speculazione, ma è davvero singolare che la VQR 2004-2010 stia per avviarsi avendo proprio quella percentuale come soglia dell’accettabilità scientifica. Sembra quasi si sia stabilito a priori che il 50% della ricerca italiana sia di cattiva qualità. Ma cosa potrebbe finire in quella fascia così ampia di ricerca ritenuta “irrilevante” è questione che mi stupisce nessuno abbia sollevato. Mi pare di percepire una totale amnesia del carattere collettivo dell’impresa scientifica, con le necessarie gradazioni di rilevanza. Ma anche gli studiosi più acclarati devono talvolta le loro intuizioni più profonde al lavoro quotidiano di ricercatori che nella penombra dei loro laboratori fanno emerge anomalie, dati intrattabili, che studiosi magari più avveduti riescono a trasformare in scoperte scientifiche. Spero che in quel 50% frutto della “speculazione” di Bisin non finiscano ricercatori e gruppi di ricerca vitali per la scienza stessa.

    • Non devo essere stato chiaro. Non credo ci sia nulla di strano o eccessivo nel 30 o 50 per cento di ricerca irrilevante (per questo mi permetto di speculare: il 50% non viene da nulla e fprse anche il 30% e’ discutibile). In tutto il mondo tanti docenti non fanno ricerca. Il punto cruciale e’ che non sono pagati lo stesso e spesso insegnano di piu’.

      PS Non porto l’acqua a nessun altro mulino. Il 50% che produce ricerca in Italia ne produce meno del 50% nel Regno Unito.

  4. Perdonatemi,
    sgombriamo almeno il campo dal 30% di improduttivi. E’ un dato che non sta in piedi, calcolato senza alcuna base scientifica.
    Per quanto riguarda le osservazioni di Moro, nell’associarmi alle osservazioni di Mario, ricordo che per assicurare una differenziazione di questo tipo occorrerebbe passare al regime contrattuale. L’esperienza della contrattualizzazione della dirigenza pubblica dovrebbe servire per ciò da test case.
    A.

  5. Scusi Bisin, perché fa finta di non sapere che tutto il sistema internazionale che “misura” la produzione scientifica è anglocentrico e che da questo sistema sono esclusi interi settori scientifici, come ad esempio le scienze umane che in Italia forse qualche tradizione e significato ce l’hanno?
    E’ come se paragonassimo la produzione scientifica italiana e quella polacca sulla base di quante “K”, “Z” e “Y” ci sono sui titoli degli articoli pubblicati…
    L’assunto di fondo della sua argomentazione, cioè che l’Italia ha una produzione scientifica calante per quantità e qualità, può anche essere condiviso: a me sembra, ad esempio, che non riconoscere un progressivo scadimento della ricerca derivante dalla continua riduzione di investimenti nella stessa, sia fare un favore a chi questa riduzione la promuove ed attua.
    Ma sostenere ciò con molti degli argomenti da lei usati (nepotismo, inefficienza ecc.) rende poco convincente la sua tesi (che comunque lei, a differenza di qualcun altro, ha sostenuto con modi urbani).

    • Caro Zannini,

      mi sembra un po’ eccessivo dire che le scienze umane siano del tutto escluse dal sistema internazionale che misura la produzione scientifica.

      Certo chi pubblica in italiano ha un problema di visibilità, e questa dovrebbe essere una buona ragione per riflettere attentamente sull’uso che si intende fare delle misure disponibili. Avrebbe senso azzerare interi settori di ricerca solo perché non appaiono nei database internazionali? Io non credo.

    • Non e’ la misura ad essere anglocentrica e’ la produzione scientifica che lo e’.

    • La produzione scientifica è anglocentrica. Ma i database su cui si fanno le statistiche bibliometriche hanno un bias anglocentrico, specialmnete nelle scienze umane e sociali.
      “Bibliometric evaluations are based on international journal literature indexed in the SSCI, but social scientists also publish books, and write for national journals and for the non-scholarly press. These literatures form distinct, yet partially overlapping worlds each serving a different purpose. For example, national journals communicate with a local scholarly community, and the non-scholarly press represents research in interaction with contexts of application. Each literature is more transdisciplinary than its scientific counterpart, which itself poses methodological challenges.” http://works.bepress.com/diana_hicks/16/

    • Tra i millanti esempi che si potrebbero fare a proposito del bias anglocentrico richiamato da Baccini provo a proporre questo (mi perdoneranno i letterati se mi avventuro nel loro campo).

      Due libri come S. Timpanaro “Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano” (1965) e H. Bloom “The visionary company: a reading of English romantic poetry” (1971) danno su google book un numero di riferimenti (misurato in numero di pagine) non molti diversi (44 pagine per il libro di Timpanaro, 46 per il libro di Bloom). Segno questo, forse, che google book può potenzialmente essere una banca dati non eccessivamente viziata dal bias anglocentrico. Se poi però vado su google scholar, il divario in termini di citazioni si fa importante: 90 citazione per il libro di Timpanaro contro le 296 del libro di Bloom. Un rapporto di uno a tre significa che già su google scholar il bias comincia a farsi sentire, nonostante, come sembra far trasparire google book, i due libri potrebbero avere avuto complessivamente un impatto equivalente.

      Vado ora su qualcosa di più specifico. Prendo due autori discussi nei due libri, Pietro Giordani e William Hazlitt, due intellettuali di grande valore. Degli studi su rivista che sulla scia di Timpanaro abbiano approfondito la figura di Giordani, presumo sulle banche dati solitamente utilizzate per le analisi bibliometriche non ci sia praticamente traccia; qualcosa di più potrebbe certamente esserci in google scholar, ma la differenza tra il dato google book e il dato google scholar segnalata a proposito del libro di Timpanaro lascia supporre che ancora google scholar non registri molte informazioni.

      Viceversa, degli studi che abbiano affrontato William Hazlitt presumo possa esservi una copertura molto più estesa, forse quasi completa (sia sulle banche dati ufficiali sia su google scholar).

      Tutto questo immagino abbia una certa importanza nel momento in cui si fanno confronti citazionali tra Italia e Regno Unito come quello proposto da Bisin. Conterà pur qualcosa che su JSTOR digitando “Pietro Giordani” ottengo una misera paginetta e digitando “William Hazlitt” ne escono 23! Il discorso, naturalmente, riguarda in prevalenza le humanities, più che le scienze dure, per le quali il canale veicolare della conoscenza non può che essere la lingua inglese. Ma il confronto grezzo proposto da Bisin immagino sconti pesantemente il fatto che degli studi su Pietro Giordani non c’è traccia nelle banche dati mentre le citazioni anglosassoni utilizzate da Bisin per il confronto comprendono “anche” gli studi su William Hazlitt.

      Spero non mi si controreplichi che William Hazlitt ha statura intellettuale enormemente superiore a quella di Pietro Giordani e/o che gli unici studi su Pietro Giordani passibili di considerazione debbono essere pubblicati in inglese.

  6. Sono d’accordo con la prima osservazione di Andrea Moro e l’aggiunta di Mario Ricciardi. Mi sembra però che il problema sia, in pratica, quello di implementare i meccanismi che possano portare ad una diversa e più razionale distribuzione del lavoro.

    • Non nascondiamoci… e’ un problema che non esiste in nessun’altra parte del mondo. Io non conosco nessun sistema in cui tutti sono pagati allo stesso modo ed insegnano le stesse ore. Alla fine, basta volerlo. La retorica dell’aggiungere risorse a tappeto non fa che peggiorare la posizione perche’ aumenta le rendite dei parassiti.

    • Sono d’accordo che basta volerlo e sarebbe anche una cosa buona e giusta. Ma il problema che a Nashville non si percepisce è che in Italia, non si sta aggiungendo alcuna risorsa. Il che, da qualunque parte si voglia guardare alla cosa, è suicida per il paese.

    • Non so Marco, io credo che in Italia, quando ci si lamenta della mancanza di servizi (la ricerca e’ solo un esempio), non ci si rende conto che non si cresce da piu’ di 10 anni. Se non si cresce, non ci sono proprio i soldi, e allora bisogna pensare a cambiare la spesa.

      Che poi non si cresca proprio perche’ non c’e’ ricerca, si puo’ argomentare, pero’ ti diro che la ricerca di base contribuisce solo indirettamente alla crescita: contano gli investimenti stranieri, lo stimolo all’imprenditoria, il capitale umano (e quindi la qualita’ didattica di scuola e universita’) etc… tutte cose che mancano in Italia.

    • Alla lista io aggiungerei, in una posizione decisiva, alcuni fattori istituzionali. A cominciare dalle istituzioni politiche. Ciò detto, mi pare che il tuo commento non tenga conto – o escluda, e in questo caso mi piacerebbe sapere perché – l’ipotesi che si possa distribuire in modo diverso anche in assenza di crescita, o in presenza di crescita bassa. Non sono sicuro che questa sia una possibilità aperta nel caso dell’università, ma per altri servizi forse se ne potrebbe discutere. Penso alla scuola, per fare un esempio.

    • “Cambiare la spesa” non significa “tagliare”. Invece tutto il dibattito italiano su Ricerca ed Università (e scuola in generale) non esce da questi binari.

      E qui nessuno dice che non serva anche altro. L’imprenditoria italica avrebbe bisogno di un tot di sberle ulteriori ad esempio, dato che quelle che sta prendendo non pare siano sufficienti.

      Detto questo, possiamo concordare che il “cambio di spesa” passa anche e soprattutto per la critica dell’esistente? E che questo “esistente” è attualmente il quadro legislativo e regolatorio prodotto dalla Legge Gelmini e dai suoi sostenitori? You know who they are!

      Ripeto: non mi interessa fare qui un discorso ideologico sui massimi sistemi e sulle politiche atte ad “attrarre gli investimenti stranieri”. Mi interessa rimanere in ambito più limitato. Università, Ricerca e – forse soprattutto – Scuola non possono più ammettere ed accettare tagli di alcun genere. Cosa che invece si sta pensando di fare secondo quanto ventilato dalla “spending review”.

      Infine non capisco la logica dell’argomento: “In Italia mancano queste cose e non si cresce”…. “allora dobbiamo tagliare ulteriormente”. Posso anche dare il beneficio del dubbio e sperare che questa non sia la tua posizione definitiva, anche perché i tuoi conti dicono proprio che in Italia si è messi male *anche* per la mancanza di finanziamenti. Ovvero spero che tu ti stia giustamente limitando al “cambio della spesa”.

      Da questo punto di partenza possiamo andare avanti. Idee su come procedere ce ne sono, e sono essenzialmente idee da applicare localmente; sempre dati i vincoli che tra breve ci ritroveremo sempre di più tra i piedi.

    • BTW. Ho appena letto l’articolo su NfA “L’Italia produce poca ricerca. Qualche dato in più.”. Con tutto il rispetto, l’affermazione finale che l’Italia ripartisca male le sue risorse è un’affermazione di una banalità quasi sconcertante. Ma ancora più sconcertante è la protervia con cui lei insinua che questa osservazione ovvia escluda a priori il fatto che tutte le statistiche “terze” dicano chiaramente che i finanziamenti per Ricerca ed Università in Italia siano sub-par.

    • Andrea, nessuno si nasconde: almeno su questo punto io sono d’accccordo con te. Infatti uno dei pochi punti della riforma Gelmini che mi pareva sensato era quello di subordinare gli scatti ad un giudizio sull’attivita’ didattica e scientifica di ciascun docente.

      Il problema e’ che poi questo meccanismo non e’ stato implementato (gli scatti son stati bloccati a tutti, indistintamente). Tra poco questo nodo verra’ al pettine (ovvero si passera’ dalla teoria alla pratica). Son certo che ne vedremo delle belle!

    • E su questo siamo d’accordo tutti “ccarminat”.

      Ma qualcuno dovrebbe spiegare a che serve a tal proposito l’insistenza nel negare l’ovvio (non ci sono abbastanza fondi) ed il continuo pestare sulla “bassa qualità” della ricerca italiota. Il tutto condito da sostegni sostanziali (e, nel caso di NfA, indiretti, e, spero, non voluti) al quadro regolatorio attuale costituito dalla legge 240/2010, dall’ANVUR e dai loro decreti e regolamenti.

  7. @ Bisin: improduttività e irrilevanza sono due concetti profondamente diversi. L’improduttività significa che non si produce nulla. L’irrilevanza è legata a giudizi anche transeunti. Ci sono state epoche in cui un ricercatore che avesse detto che la terra non era piatta sarebbe stato irrilevante. C’è stato chi è stato considerato irrilevante perché argomentava che lavarsi le mani prima del parto riduceva i decessi post partum etc. etc.
    Non confondiamo mele e pere.
    AB

    • Ci sono livelli di irrilevanza da rendere il giudizio superfluo. Non spacchi il capello in quattro inutilmente. Non sto parlando di chi ha un CV un po’ breve o di chi ce l’ha lungo ma in riviste in lingue diverse dalla lingua franca. Sto dicendo che tra 0 articoli e due (cinque?) articoli in italiano in un libro curato dal barone la differenza e’ irrilevante (pun intended). Non faccia finta di non capire

    • Cerchiamo di stare sul punto. Bisin nella sua replica fornisce percentuali di inattivi citando come fonte Ciavarella che a sua volta ha consultato Scholar Search. Cerchiamo prima di tutto di capire se la fonte è affidabile e i numeri sono sensati. La questione dell’irrilevanza, pure assai interessante, è diversa e merita un approfondimento a parte. Mescolare problemi diversi non aiuta una riflessione scientifica e basata sui dati.

    • Il punto non sono i dati di Ciavarella. Non fermatevi su quelli (capisco il fascino retorico di far cosi’; ma siamo seri). Sono ovviamente poco sensati – per questo non li ho usati per argomentare che l’universita’ faccia poca ricerca (ho usato altro per questo) – ma solo per rimarcare l’ovvio che in accademia, qualunque accademia, un gruppo relativamente piccolo di persone produce ricerca e che questo gruppo potrebbe (dovrebbe, secondo me; sarebbe, se si aprisse il mercato del lavoro) essere trattato diversamente in sede contrattuale.

    • Ma questa era sostanzialmente una delle proposte alternative circolate nell’autunno del 2010. Eppure i soliti sostenitori della “Riforma” Gelmini non la presero neppure in considerazione. Potevano dire: alt un attimo, vediamo di discutere seriamente. Invece no. Dissero: peccato che non possiamo fare il Far West, ma è meglio fare ora la riforma Gelmini.

      I risultati sono sotto i nostri occhi.

    • Allora Bisin, nel suo articolo c’e’ scritto “Mi permetta di spiegarle come si fa. E’ davvero molto semplice. Michele Ciavarella e Vito Ricci hanno calcolato, per gli anni 2004-2010, una misura della percentuale dei docenti italiani del tutto improduttiva, sia come citazioni, sia persino come pubblicazioni: Il 30% di docenti italiani ha zero pubblicazioni.” Visto che ce lo ha spiegato lei come si fa (e che e’ anche molto semplice) mi sembra curioso che ora se lo rimangi.

    • Cosa mi rimangio, Sylos Labini, lei non ha capito nulla. Certo che si fa cosi’. Dico che non ho usato quel dato (il 30% di 0 pubblicazioni) come argomento che l’universita’ produce poca ricerca ma come esempio di come si taglia. Non posso credere che lei sia cosi’ poco perspicace – devo assumere che sia in mala fede.

      PS Il sito non mi lascia rispondere direttamente a lei. Non posso immaginare sia voluto – devo assumere che sia un caso.

    • Non è voluto ma non è un caso. Dipende dal modo in cui sono postati i commenti. Se si commenta un commento bisogna inserirsi commentando il post da cui origina la conversazione. Come ha fatto correttamente. In effetti si potrebbe migliorare il layout.

    • [@M.Ricciardi] Effettivamente il “comment threading” di questo tema di wordpress lascia molto a desiderare (bisognerebbe ammettere almeno tre livelli di threading). Capisco che chi e’ abituato a bazzicare nFA (che e’ strutturato per sopportare bene anche centinaia di commenti) vada in paranoia di fronte ad un guazzabuglio simile.

      Ovviamente all’inizio, quando gli articoli avevano pochissimi commenti, poteva anche andare, ma adesso e’ un caos completo.

      A proposito di layout: sarebbe anche comodo avere la finestra di login in alto invece che in coda a tutto.

    • Oooops! Ho detto una bischerata: mi sono appena accorto che i livelli di threading sono cinque (altro che tre!); ma evidentemente non sono abbastanza.

      Non so se WP abbia un tema adatto a gestire una stratificazione di thread di profondita’ non limitata a priori …

  8. “Non spacchi il capello in quattro inutilmente” è una delle risposte di Bisin. Purtroppo, però, per fare affermazioni fondate bisogna quasi sempre fare adeguati “distinguo”.
    Per esempio: citare i dati Scholar generalizzandone il significato è operazione metodologicamente errata a causa dei limiti arcinoti di quello (e di altri) database di riferimento.
    Per esempio: riportare quei dati sulla bassa internazionalizzazione dei dottorati italiani è una affermazione ad effetto, ma del tutto generica, perché non considera la realtà della ricerca in tanti settori disciplinari.
    Per esempio: dire che “la produzione scientifica è anglocentrica” (scusa Baccini) mi pare assai discutibile se esteso a tutti i campi disciplinari (cosa dovrebbe dire chi studia Illuminismo francese, Inquisizione spagnola o nazionalismo balcanico?).
    Per esempio: affermare che si produce ricerca “tanta”, “poca” o “nella media” mi pare poco informativo (e assai rischioso da un punto di vista mediatico) se non si distinguono gli ambiti disciplinari.
    Per esempio: continuare a ragionare di discipline tecnico-sperimentali e di disciplne socio-umanistiche come se fossero esattamente sullo stesso piano dal punto di vista di “produttività”, “modalità di pubblicazione”, “visibilità”, “disseminazione”, “citazioni”, “finanziamenti”, “impatto” è un grave errore di impostazione analitica che mi pare riporti indietro di qualche anno (c’era la speranza che mesi e mesi di discussioni avessero insegnato almeno a distinguere).
    Trovo che, in generale, la discussione rischi di rinchiudersi in una provincialissima e insopportabile prospettiva “anglocentrica”. Alcuni sembrano preoccupati soprattutto di dimostrare agli altri quanto ne sanno dei sistemi della ricerca e dell’università americani o inglesi o canadesi o australiani. Cerchiamo di non dimenticare che siamo in Italia, dove esistono tradizioni consolidate di studio di grande livello: alcune competitive a livello internazionale nel senso che i suoi esponenti possono ben figurare all’estero; altre competitive a livello internazionale nel senso che il problema di ben figurare presso di noi ce l’hanno i non-italiani che studiano Rinascimento o arte barocca o Virgilio e Cicerone o Machiavelli o Calvino e Gadda o il fascismo nostrano o i sistemi politici dell’Europa mediterranea.
    Mi sembra che da queste discussioni – al di là di un certo furore ideologico – emerga un dato incontestabile: i dati di cui disponiamo sono ancora largamente insufficienti e poco comparabili per fare generalizzazioni attendibili. Conosciamo ancora poco la realtà della produzione scientifica italiana e se la conosciamo ciò è vero solo per singoli settori, che sono raffrontabili al loro interno e sul piano internazionale grazie alla condivisone di vari standard, anche linguistici.
    Se questo è vero, allora il punto è: conoscere le cose di cui si parla. Effettuare indagini approfondite sulla produzione scientifica delle università con la buona intenzione di conoscere la realtà: solo in seguito per decidere. Esiste un database del Cineca: ma è possibile che non ci sia una analisi decorosa di questa messe di dati ? Che il fior fiore dei tenici informatici del Cineca si metta al lavoro e produca una statistica degna di questo nome (una curiosità: il Cineca ha rifiutato di produrre dati sulle riviste di rfierimento di certi settori scientifico-disciplinari e si è dato una mossa solo quando glieli ha chiesti l’Anvur) ! Molte università stanno effettuando al loro interno operazioni anche molto impegnative di analisi della propria produzione: perché non “guidare” questo processo promuovendo lavori coordinati con metodi condivisi ? L’Anvur permette di avvicinare questo obiettivo ? Certamente no, perché non è questo che si propone, avendo – come si dice – messo il carro davanti ai buoi: senza adeguate, omogenee (per macroaree, s’intende) ma spesso complicatissime metodologie di valutazione ha affrontato un compito costosissimo e pressoché del tutto autoreferenziale con lo scopo di disporre di una lama abbastanza affilata per tagliare qua e là o di un vaglio per mettere in serie A e in serie B. In realtà, è solo dopo aver raccolto e analizzato i dati come si conviene che si può trarre qualche conclusione per comparare efficacemente le università tra di loro (su base disciplinare: l’italianistica è meglio qui o là, la medicina nucleare è meglio qui o là) sia di stabilire se i nanomateriali italiani sono più avanti di quelli svedesi (e questo certamente lo si può già dire ora), se lo studio sullo sviluppo del capitalismo finanziario è più avanti in Italia o nei benemeriti Stati Uniti, se l’evoluzione storica delle forme societarie in Italia la conosciamo meglio noi o gli inglesi e se lo studio storico del rapporto tra società e istituzioni in Italia lo facciamo meglio noi o i dottorandi di Columbia (che pure vengono a imparare da noi perché gli archivi e il know-how li abbiamo noi, anche se i nostri governi stanno mandando completamente a ramengo archivi e biblioteche).
    Teniamo conto anche del fatto che già ora in molti casi sappiamo perfettamente dove si fa ricerca migliore che altrove, chi sono i migliori eccetera; e sappiamo benissimo chi fa ricerca mediocre o non ne fa affatto. E ci vuole una legge dello Stato, un’autorità centrale, una decisione di vertice per adottare una linea conseguente ? Le università non sono capaci di fare scelte autonome ? Non sono in grado di prendere decisioni responsabili ? Ci aspettiamo che lo faccia lo Stato, governi dominati o dall’ideologia o dal bisogno della sopravvivenza politica o da consiglieri inspiegabilmente inamovibili ? Se è così, allora aveva ragione Nanni Moretti: “ce lo meritiamo Alberto Sordi” (col massimo rispetto per il grande Albertone).

    • Caro Abbattista, il mio era un anglocentrico macro. Stavo pensando al peso di tutte le pubblicazioni in inglese dei database anglocentrici. Forse hai ragione tu: e penso ad un ipotetico database globale della produzione scientifica mondiale forse non sarebbe al momento anglocentrico per le social sciences and humanities.

  9. Vi propongo il punto di vista di uno che per 15 anni ha guardato l’Italia dall’estero, e che solo recentemente è tornato in patria. La mia visione dell’Italia era di un paese accademicamente in declino, molto indietro rispetto alla serie A mondiale. Questa visione non era influenzata da un complotto bocconiano, e neppure da campagne giornalistiche orchestrate dai poteri forti (fino a pochi anni fa i concorsi truccati finivano raramente sui giornali). Il mio giudizio era influenzato principalmente dai MIEI COLLEGHI italiani, vecchi e giovani, che non perdevano occasione per lamentarsi e criticare il nostro sistema accademico. E poi era confermato dal fatto che quando aprivo jobs.ac.uk o Jobs for Philosophers non vedevo MAI un’inserzione italiana, a fianco di quelle olandesi, tedesche, o perfino spagnole.
    E poi la sorpresa. Quando sono tornato nel 2009, le mie aspettative erano così basse che quasi ogni giorno mi stupivo di quanti passi avanti fossero stati fatti rispetto al 1994. L’università italiana (almeno quella delle grandi università del nord, che conosco meglio) è molto, molto meglio di come la si dipinge. Sicuramente tratta meglio gli studenti, fa più ricerca, e la fa meglio di quando ero studente.
    Detto questo, c’è ancora da lavorare, anche perché gli altri paesi non stanno fermi ad aspettarci. A occhio direi che stiamo affrontando oggi i problemi che in GB sono stati affrontati 10 anni fa. Ci sono ritardi che dobbiamo colmare. Oggi siamo in un momento storico nel quale pretendere più soldi è purtroppo utopico. Ma proprio in questi momenti – e qui concordo con Bisin – le istituzioni devono trovare al loro interno le energie e le risorse per uno scatto di orgoglio e di qualità. Così saremo pronti quando aumenteranno di nuovo i finanziamenti e potremo farne buon uso.
    Quasi ogni giorno, purtroppo, vedo anche cose che lasciano a bocca aperta. Recentemente per esempio ho scoperto che ci sono interi dipartimenti nella mia università (Milano) dove i professori che sono stati assunti con le vecchie norme insegnano META’ delle ore rispetto ai loro colleghi più giovani, nascondendosi dietro ai minimi di legge. A dispetto di qualsiasi criterio di uguaglianza, a prescindere dal loro contributo alla ricerca. Mi chiedo con che faccia si presentino ai consigli di dipartimento…
    Quindi, ragazzi, rimbocchiamoci le maniche perché c’è molto da fare. Le sacche di inefficienza ci sono, i “baroni” (termine che mai avrei pensato tornasse di moda) purtroppo anche – hanno la faccia, magari simpatica, del mio collega che insegna 60 ore e non pubblica un tubo da dieci anni. Noi abbiamo gli strumenti per affrontare e risolvere alcuni di questi problemi; poi quando il MIUR si deciderà a darci davvero più autonomia, ne risolveremo altri. Ma pretendere subito + autonomia, + uguaglianza, e + risorse è non solo utopico, ma anche sbagliato. Quell’equazione dà come risultato la Regione Sicilia, non l’Ecole Normale o il MIT. Ci potremo permettere più autonomia e più soldi quando sapremo dimostrare che se abbiamo un buco di 60 ore, lo facciamo coprire dal suddetto collega, non chiediamo un punto di organico in più al rettore.
    Ovviamente c’è chi lo fa già, e va premiato. E i tanti che non lo fanno vanno PENALIZZATI, ovvero devono avere meno risorse dei virtuosi. Solo così andremo al consiglio di dipartimento e diremo: “caro Giovanni, da cinque anni pubblichi solo sul Gazzettino di Ladispoli e insegni la metà di me. L’anno prossimo si cambia.” Lavoriamo, gente, lavoriamo.

    • Caro Guaia, we are in the same boat.

      Ma la questione non cambia. I fondi per l’Università e la Ricerca in Italia sono bassi e vanno alzati. Punto. E pretendere subito + autonomia + uguaglianza e + risorse è il minimo sindacale. A partire dal prossimo PRIN (per favore chiamiamolo PRIN 2013) che o avrà una dotazione di almeno 460 milioni o sarà una presa per i fondelli. La matematica è facilmente spiegata.

      Detto questo è *OVVIO* che bisogna muoversi a livello locale per cambiare le cose. “Iscrizione corso per corso”? “Disattivazione immediata del corso monografico con due studenti ed appioppamento del carico didattico su un corso del I anno il semestre successivo”? “Eliminazione del disaccoppiamento corso/esame”? Anybody?

      E questa è solo la didattica.

    • … inoltre. Non è il MIUR che deve concedere alcunché. Siamo noi che dobbiamo votare persone serie che poi vadano al MIUR.

    • ma se pubblica sul Gazzettino di Canicattì articoli di diffusione scientifica- ma non ricerca pura – e segue con scrupolo gli studenti, li riceve adeguatamente, casomai ha 200 esami a sessione ?

  10. Mi ha stupito la seguente affermazione di Alberto Bisin
    “La Francia è sì simile all’Italia in molti aspetti, anche se non tanto quanto il Regno Unito ad esempio in termini di popolazione, ma non è alla frontiera della ricerca”
    Non so cosa dicano le bibliometrie, ma la Francia ha una posizione di assoluto spicco in matematica. A naso direi migliore della posizione della Gran Bretagna e della Germania (quest’ultima, in matematica, ancora soffre per le conseguenze della cacciata e sterminio degli ebrei). Chi come me non crede nelle bibiometrie è costretto a limitarsi a considerare la propria disciplina o subdisciplina o sub sub disciplina. Per quest’ultima (analisi armonica) non ho alcun dubbio.

    • Alessandro, la mia affermazione si basa sui dati Scimago (aggregati, non ho guardatoi ancora – lo sta facendo Andrea Moro – ai dati per disciplina) presentati da De Nicolao nel post che io discuto. Come faccio notare nel mio post, anche me ha sorpreso la Francia. In questi dati, la Francia sta vicino all’Italia e distante miglia dal RU. Mi sono posto la questione. Potrebbero esserci questioni di compatibilita’ dei dati. Ma potrebbe anche essere che la Francia ha una concentrazione di eccellenza nelle Grands Ecoles che genera un errore di prospettiva: la ricerca di livello eccezionale che ci appare davanti non e’ rappresentativa del paese in generale. Non so se sia vero, ma mi pare ragionevole. Mi sto convincendo che sia cosi’ in economia, che ovviamente e’ la disciplina che conosco meglio.

    • Non direi che (in matematica) la Francia abbia una “concentrazione di eccellenza nelle grandes ecoles che genera un errore di prospettiva”. Tra l’altro mentre gli studenti delle Grandes Ecoles sono molto più selezionati di quelli delle università non mi sembra che valga lo stesso per i professori di matematica francesi, specie se si parla delle università di Parigi e dintorni. Non so che cosa sia Scimago e non lo voglio sapere. Come ho detto non credo nella bibliometria, perché non mi convincono le unità di misura: articoli e citazioni. Ma non posso certo essere io a cambiare mode di questa importanza. Per questo mi limito a non partecipare a discussioni basate su stime e dati bibliometrici. Spero intanto che con gli anni la bibliometria faccia la fine della antropometria, e che nel frattempo l’inseguimento delle citazioni non abbia corrotto anche i giovani più bravi.

    • E’ vero che la ricerca del parametro perfetto assomiglia in molto aspetti QI: ci sono molti punti in comune ed il libro di Stephen Jay Gould “Intelligenza e pregiudizio” ne spiega in maniera cristillana la criticita’. Penso pero’ che i parametri bibliometrici in se’ possano anche dare delle informazioni interessanti se chi le usa capisce quel che vogliono dire. Ad esempio che quando si misurano aggregati l’informazione e’ statisticamente piu’ attendibile che per un singolo o che la completezza dei database e’ una condizione necessaria (ma non sufficiente). Il problema diventa l’uso improprio di questi dati che condiziona i comportamenti individuali e falsa gli obiettivi di ricerca.

  11. Ho visto che Scimago calcola anche un h-index per nazione (l’h index è di moda): l’Italia si classifica al 7° posto nel mondo e al 4 considerando l’Europa occidentale.
    Dottorandi dall’estero: perchè dovrebbero venire in Italia dove la borsa di studio è da fame, non ci sono servizi e gli affitti si mangiano metà dei soldi. Idem per i post-doc: un nostro giovane dottore di ricerca è appena partito in Olanda dove avrà uno stipendio che è pari a quello di un ricercatore con 20 anni di servizio.
    Classifica di Ciavarella e Ricci su docenti improduttivi e con zero citazioni: è basato su Scholar Search che, a parte gli errori dovuti alle omonimie (ho inviato i dati corretti per singolo ricercatore con stesso cognome e stesso nome al Prof. Cesareni di Tor Vergata), non ha tenuto conto delle pubblicazioni che si ritrovano nelle banche dati (anagrafe della ricerca dei singoli atenei o istituti speciali). io sono rimasta colpita dalla percntuale di improduttivi con zero citazioni alla Scuola Normale di Pisa. Sono andata a controllare sul sito e in particolare per le aree umanistiche. Ho confrontato quanto riportato da Scholar Search per i singoli docenti (0 lavori + 0 citazioni) è ho verificato che ciò non risponde assolutamente al vero.

  12. Ritengo positivo che Alberto Bisin abbia “dato i numeri,” cioè la sua versione corredata da dati della situazione della ricerca in Italia. In effetti, aveva proposto onestamente un confronto qualche tempo fa sui dati. Ritengto sarebbe molto interessante e proficuo aprire una discussione sui meccanismi che dovrebbero garantire l’efficienza del sistema universitario italiano. Il confronto con il Regno Unito è legittimo poichè si tratta di un sistema universitario a finanziamento pubblico. Nel Regno Unito, vige da anni un sistema decentralizzato, basato sulla teoria dei quasi-market che dovrebbero garantire l’efficienza del sistema tramite un meccanismo quasi-competitivo. Per considerare questo modello un esempio da importare in Italia, dovremmo però analizzarne tutte le implicazioni. In letteratura, non ho trovato molti riferimenti che propongano una integrazione seria tra teoria dei quasi-market e teoria del “mechanism design.” Queste lacune teoriche andrebbero colmate per valutare se il meccanismo sia disegnato corettamente rispetto agli obiettivi. Gli obiettvi stessi andrebbero individuati chiaramente, cosa che mi sembra, anche dalla discussione precedente, non sia così scontata. C’è molto lavoro da fare su questo, lavoro che non è stato fatto nel riprogettare il sistma universitario italiano con la legge 240. Da quelo poco che conosco della teoria del mechanism design, ritengo che tra dare incentivi sbagliati e non darne forse sia meglio non darne.

  13. Utilizzando i dati di Bisin si evince che se i ricercatori italiani fossero produttivi quanto quelli britannici l’Italia avrebbe un numero di citazioni pari a circa 14000, il resto della differenza fra i due paesi – 9500 citazioni – va attribuita alla minore spesa in ricerca. Questa differenza è circa il doppio di quella dovuta alla produttività. Quindi, è un errore sostenere che i problemi della ricerca italiana siano concentrati nella sua scarsa efficienza. Inoltre, sorvolare sulle differenze esistenti fra UK e Francia e Germania non è per niente corretto, in quanto queste differenze sono attribuibili a fattori storici e strutturali (ad es. la lingua) che favoriscono la ricerca UK. Proviamo a fare il possibile: favorire l’efficienza del sistema e investire risorse in ricerca.

  14. Credo che qui però si stia sottovalutando il vero problema per la “valutazione” della ricerca; come funziona in Italia la selezione di chi dovrebbe fare la ricerca? è questo il vero fulcro del discorso. Se la metodologia dei “concorsi” (uso le virgolette perché quasi in nessun caso concorsi sono!) rimane quella che fino ad adesso è stata, è davvero inutile parlare di altro. La ricerca non è una cosa astratta, ma fatta da persone. La domanda giusta è: come si devono valutare queste persone?

    • Caro Marco,

      La regola che tu proponi mima quello che altrove è un meccanismo fisiologico di circolazione degli accademici.

      Non mi sembra una buona idea:

      (i) perché dove ci sono potentati accademici che riescono a controllare l’esito dei concorsi non è difficile, per gli stessi potentati, ottenere la chiamata del proprio protetto in un’altra sede con la prospettiva di richiamarlo indietro alla prima occasione. Di fatto questa è stata la regola negli ultimi anni in alcune discipline, dove si sosteneva che questa finta mobilità realizzata attraverso scambi tra gruppi alleati consentisse di “arricchire” il curriculum di uno studioso. Nota l’ipocrisia. Non l’aver lasciato una sede prestigiosa per andare in una altrettanto o più prestigiosa (tipo avere un incarico a Harvard dopo aver fatto il PhD a Yale), ma l’essersi mosso, semplicemente.

      (ii) perché non è accettabile precludere a una persona che ha fatto il dottorato in una sede prestigiosa e in un ambiente intellettualmente stimolante la possibilità di continuare a lavorare nello stesso ambiente in ossequio a una finzione ipocrita (come ho detto negli altri paesi le persone cambiano sede per andare in un posto migliore o per ragioni personali, non tanto per cambiare aria).

      (iii) perché si impedisce la creazione di quello spirito di corpo che – in un contesto sano, e ce ne sono di contesti relativamente sani persino nel nostro disgraziato paese – è uno dei requisiti per far funzionare bene un’istituzione.

  15. Premesso che giudico la regola del non assumere i propri dottorandi positivamente (conosco dipartimenti esteri molto prestigiosi che hanno deciso autonomamente di adottarla, e con successo), temo che la discussione valutazione/reclutamento sia stata impostata proprio a testa in giù. La esperienza italiana dopo vent’anni di esperimenti è che praticamente qualsiasi sistema di regole per il reclutamento è vulnerabile. Abbiamo provato con il centralismo, il localismo, il localismo moderato dal centralismo, perfino il sorteggio delle commissioni. Alla fine dovremmo avere imparato che giocando con le regole non si va lontano. La valutazione della ricerca *a valle* serve proprio a colmare i deficit della selezione a monte. La ragione per la quale in altri paesi spesso citati come esempio (tipo gli USA o la GB) non si assumono i propri mediocri studenti è che queste scelte danneggerebbero chi fa il reclutamento. La tradizione e le norme sociali contano, certo, ma decadono in fretta se non supportate di incentivi adeguati. In un sistema finanziato dallo Stato, la valutazione della ricerca può funzionare da potente incentivo. Un cretino in dipartimento vuol dire meno soldi per tutti, in futuro, quindi meno nuove assunzioni, più ore di lezione, meno fondi per la ricerca. E’ questo meccanismo che nel lungo periodo sostiene norme sane di reclutamento, non l’intrinseca moralità o immoralità dei docenti (che è abbastanza simile dappertutto), e tantomeno le “regole del concorso perfetto”, che (ahimé) non esistono.

    • Scusa Francesco, ma se le cose stanno così non capisco perché quella regola sarebbe necessaria. Lo so che ci sono dei Dipartimenti (credo sopratutto negli Stati Uniti) che hanno deciso di adottarla, ma questa non mi sembra una buona ragione per seguirli. Non tutto quello che avviene all’estero merita di essere imitato. Come tu dici, posto che non ci sono metodi di selezione del personale perfetti, la cosa migliore è trovare un meccanismo che premi scelte oculate. Una regola che esclude meccanicamente alcune persone a me non sembra un paradigma di oculatezza. Meglio scelte autonome e responsabili. Anche per questo è importante avere una valutazione affidabile.

    • La regola è adottata perché in aggregato porta a scelte migliori, e con minore conflitto. Ma è adottata solo perché gli incentivi la sostengono. Altrimenti non sarebbe adottata, né sopravviverebbe nel lungo periodo. Se tutti fossimo perfetti, sono d’accordo che non ci sarebbe bisogno ne’ di regola ne’ di incentivi. E in molti casi gli incentivi sono così forti che davvero non ce n’è bisogno.

    • +1 ancora. Direi però, che essendo “le regole” necessarie, è bene che queste siano poche, semplici, e flessibili. L’esatto contrario del combinato attuale imposto dalla Legge 240 con annessi e connessi.

    • Francesco, sei proprio un utilitarista! Ma se ci fosse modo di disegnare incentivi efficaci perché adottare una regola del genere?

    • … perché anche in presenza d incentivi “migliori” viene comunque adottata?

    • Mah, come cerco di spiegare nella mia risposta a Francesco qui sotto non sono convinto che sia una regola necessaria, e se ci sono gli incentivi a fare le scelte corrette mi sembra controproducente. Inoltre, è una regola che si aggira facilmente, quindi introduce rigidità senza assicurare un risultato positivo.

  16. Per vari motivi: (1) la regola elimina una possibile fonte di conflitti: se ho quattro candidati eccellenti, dei quali uno è un mio studente e uno il tuo studente, rischiamo di scannarci per nulla o comunque alimentare sospetti che nel lungo periodo portano a malumori nel dipartimento. Allora meglio legarci le mani subito e cercare solo fuori dal dipartimento (tanto un paio di candidati eccellenti ce li avremo comunque). (2) All’esterno del dipartimento non sanno come abbiamo fatto il reclutamento. Se per caso scegliamo per due volte di seguito un nostro candidato (anche se magari in entrambi i casi è uno dei migliori o il migliore), all’esterno possono percepire il nostro dipartimento come nepotista, con conseguenze negative per la nostra reputazione. (3) Nel giudicare i nostri studenti potremmo avere dei bias, dei quali magari non ci rendiamo neppure conto.
    Detto questo, come ho detto non credo che una regola del genere sia una panacea – al massimo può essere utile in un contesto istituzionale appropriato.
    Ultima considerazione sui concorsi: il dibattito sui concorsi è spesso focalizzato sulla selezione, con derive moralizzanti che purtroppo lasciano un po’ il tempo che trovano. Molti nostri colleghi non capiscono che il momento fondamentale nel reclutamento è la search. Senza una buona search, la selezione serve a poco. Si può essere onesti finché si vuole, ma se hai solo tre candidati mediocri, recluterai sicuramente un mediocre. Fare una search fatta bene comporta un po’ di sforzo e perdita di tempo (bisogna anche sapere come farla, e molti nostri colleghi non lo sanno), ovvero dei costi che affronteremo solo se ci sono i giusti incentivi. Per questo bisogna fare la valutazione della ricerca, farla spesso, e fare in modo che sposti quantità significative di fondi da un’università all’altra.

    • Sul primo punto, quello che riguarda la regola, non sono convinto, anche se non nego che le tue considerazioni abbiano un peso. Che potrebbe essere determinante se l’evoluzione delle università andasse verso un modello più simile a quello statunitense. Io continuo a pensare che l’idea di università come ambiente in cui si promuove anche uno spirito di corpo andrebbe preservata consentendo agli studiosi che vogliono farlo di continuare a lavorare dove si sentono più a loro agio, fianco a fianco con persone cui siano legate da interessi comuni. Non è detto che il bias abbia effetti negativi dal punto di vista della fioritura di un’istituzione. La straordinaria influenza culturale di alcune università britanniche per una parte del secolo scorso dipende in maniera significativa dall’essersi ispirate a questo modello. Una regola dall’applicazione meccanica mi sembra da questo punto di vista profondamente controproducente, anche se asseconda tendenze presenti nella nostra società.

      Sul secondo sono d’accordo con te.

    • Ma non c’è alcun problema con la “creazione di spirito di corpo”. Infatti, IMHO, sarebbe senz’altro molto negativo imporre la mobilità per le progressioni di carriera. Ma, dato la situazione attuale al momento del primo reclutamento (possibilmente dopo una “search” ben fatta come sostiene Guaia) sarebbe una cosa i cui benefici senz’altro supererebbero gli svantaggi.

      Detto questo ripetiamo: (1) non è una panacea e (2) il contesto attuale è quello della Legge 240 dove è stato introdotto un sistema anglo-francese di reclutamento (con una ulteriore dilazione a dismisura del periodi di precarietà malpagata) con un accentramento di poteri nell’ANVUR.

      Prima tutti ci rendiamo conto dello stato attuale delle cose e meglio è. Poi possiamo cominciare a pensare a come cambiare le cose. Ma se qui si continua a dire “la riforma 240 va oliata” e “l’Università deve essere al servizio dell’impresa”, non si va da nessuna parte.

    • Anche per questo abbiamo dato vita a Roars. A proposito della legge 240 ti segnalo che oggi il Corriere, che è forse il giornale che più di ogni altro ha sostenuto gli interventi della Gelmini, pubblica un pezzo in cui si segnala il caso di uno studioso italiano che ha avuto un lavoro a Cambridge e si sottolineano i tempi rapidi della selezione. A questo punto viene il dubbio che a via Solferino non leggono le leggi che difendono.

    • Oggi Monti si scaglia contro chi ha responsabilità per la genesi della crisi e le sue drammatiche conseguenze. Il Corriere ed i suoi editorialisti dovrebbero andare a confessare i propri peccati.

  17. Non mi sembra che siano altri metodi per arrivare a una verità che sia socialmente condivisa, con mezzi non coercitivi, a parte il dialogo.

    (La propaganda, ad esempio, e’ in sostanza coercitiva, perche’ esclude o deforma altre voci, contrarie alla tesi che si vuole inculcare).

    Per questo sono sorpreso quando qualcuno (AB) dice che era tentato di non rispondere. A mio avviso in un dialogo abbiamo il dovere di rispondere. Ribattere o ritrattare, tertium non datur. Bene ha fatto quindi AB a rispondere. Attendiamo ora la replica dei suoi interlocutori. E naturalmente attendiamo la replica di RP.

    Per lo stesso motivo, sono sorpreso quando l’ANVUR dichiara che non risponderà a roars. Mi sembra anche grave. Sottrarsi al dialogo da una posizione di potere mi sembra appunto un abuso di potere (con mezzi coercitivi, se a farlo e’ una agenzia che deve “valutare”, con fondi pubblici; e ciò e’ ancora più grave, visto che le critiche sono rivolte agli aspetti metodologici della “valutazione”). (Qui uso le virgolette non per indicare scetticismo, ma perche’ il termine non ha un significato univoco).

    Pero` nel dialogo non bisogna mai assumere la malafede dell’interlocutore, come ha fatto FSL verso RP (e poi AB verso FSL). La fede dell’interlocutore e’ un noumeno inconoscibile e per giunta non e’ la cosa piu’ importante, se il fine e’ quello di avvicinarsi alla verita’. E’ bene distinguere l’errore dall’errante.

    • Mi scusi signor fausto, io ho scritto che Bisin ha prima scritto che “Mi permetta di spiegarle come si fa. E’ davvero molto semplice. Michele Ciavarella e Vito Ricci hanno calcolato, per gli anni 2004-2010, una misura della percentuale dei docenti italiani del tutto improduttiva, sia come citazioni, sia persino come pubblicazioni: Il 30% di docenti italiani ha zero pubblicazioni.” E poi nel commento qui sopra ha scritto “Il punto non sono i dati di Ciavarella. Non fermatevi su quelli (capisco il fascino retorico di far cosi’; ma siamo seri). ” Poiché il punto è semplice, la questione deve essere chiarita dai dati: quali sono i dati affidabili che descrivoni la situazione? Nel commento che ho scritto sopta ho solo rimarcato il fatto che Bisin prima ha scritto una cosa e poi sembra aver fatto marcia indietro. O forse ho capito male e altrimenti i dati di Ciavarella sono, secondo Bisin, giusti e descrivono la situazione? Tertium non datur.

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