Che l’università debba preparare al lavoro è un luogo comune. Anzi un tormentone, un mantra, una sentenza, ripetuta dalle fonti che in questo Paese hanno in assoluto più ascolto, e cioè le aziende. Le sacre aziende, che siccome la ricchezza la generano loro, hanno sempre ragione. E se non vogliamo diventare poveri, bisogna fare tutti come dicono le aziende. Già, ma ultimamente le aziende di ricchezza ne generano meno dell’auspicabile. Ebbene, l’università, che deve generare sapere e saper fare, ne genera anche lei così poco? Perché le aziende, per non prendersi la colpa del fatto che non riescono più a produrre ricchezza, hanno inaugurato il sistema ben noto dello scaricabarile: la colpa non è nostra, dicono, ma – fra gli altri cattivi – della scuola e dell’università, che non preparano i giovani per il lavoro.
A che lavoro dovrebbe preparare l’università? Basta bazzicare il mondo aziendale molto meno di quanto lo bazzico io, che ci tengo corsi da vent’anni, per sapere che non solo in ogni azienda si fa un lavoro diverso, ma che in ogni comparto di una stessa azienda si fa un lavoro diverso; e anzi, in ogni stanza dello stesso comparto della stessa azienda si fa un lavoro diverso. Il risultato è che anche se uno proviene da un’altra azienda dello stesso settore, e perfino se viene da un’altra stanza della stessa azienda, ovviamente dispone delle basi di conoscenza generali e di buona parte di quelle specifiche, compresa una notevole esperienza pratica, ma per qualche mese deve imparare la specifica cosa che farà nella nuova posizione. La diversità dei compiti nel mondo del lavoro è tale, che pensare di prepararsi per il lavoro implicherebbe di indovinare in che stanza di che azienda si lavorerà. Salvo che poi dopo un anno e mezzo si verrà spostati ad altro incarico, e bisognerà dedicare qualche mese a imparare quello.
Ebbene, dato che le cose in realtà stanno così, quello di cui c’è veramente bisogno in uscita dall’università non sono ometti e donnine che sappiano svolgere a menadito il compito Xy o il compito Qz; ma di persone che, avendo acquisito conoscenze generali nel settore, abbiano anche acquisito la capacità di imparare cose nuove. Cioè che, soprattutto, sappiano cosa vuol dire approfondire un problema fino al livello opportuno e non fermandosi a livelli semplicistici, e sappiano come andare a cercare le informazioni quando gliene servono di nuove che ancora non conoscono.
Studiare ad alti livelli serve a questo. Non importa se la tesi di laurea la fai sulla resistenza alla torsione di una lega dell’iridio o sulle varianti del Filocolo nei codici quattrocenteschi: l’importante è che facendo la tesi di laurea tu impari a che livello l’umanità è in grado di affrontare un problema, e non ti accontenti più dei livelli inferiori. Questo è il senso delle norme che hanno sempre richiesto titoli di studio più alti come condizione per i livelli di responsabilità più alti.
Allora, cosa vuol dire che l’università non prepara per il lavoro? Vuol dire, nella mentalità miope e meccanica di persone ignoranti, che non sforna individui già pronti per essere impiegati in una precisa posizione miracolosamente indovinata fra le migliaia possibili. Individui che, se la posizione disponibile dovesse essere un’altra (o se dopo un po’ di tempo dovesse cambiare), sarebbero inadeguati. No, non è di questo che c’è bisogno. Questo discorso è – almeno in gran parte – un trucchetto rivolto da ignoranti a cui conviene (gli aziendali) a ignoranti distratti (il pubblico) per spostare le responsabilità su chi non può difendersi dalle accuse (gli insegnanti), perché le accuse sono formulate in modo troppo vago e di fatto impossibile da verificare.
Ma un po’ di verifica si può fare. Bisogna liberarci da qualche crampo mentale. Cioè, da meccanismi condizionati che impediscono di vedere il nesso fra le cose che pure già conosciamo. Tutti sappiamo, ormai, per l’esperienza di amici e conoscenti, oltre che per le statistiche serissime dell’Unione europea, che i laureati italiani, se hanno la forza di abbandonare questo Paese, e vanno – poniamo – in Inghilterra o ancor meglio in Germania, trovano immediatamente lavoro; e si rivelano adeguati a produrre la molta ricchezza che lì si produce. Non si tratta solo della notissima “fuga dei cervelli” in senso stretto, cioè del fatto che i giovani scienziati italiani spopolano nelle istituzioni di ricerca di mezza Europa e degli Stati Uniti (solo per un esempio, si vedano i recenti rapporti del Cnrs francese sulla preponderanza dei ricercatori italiani nelle istituzioni francesi, o gli ancora più recenti successi dei giovani ricercatori italiani nell’importantissimo bando europeo Erc Consolidator, che ha scatenato polemiche fra i medesimi e il ministro Stefania Giannini).
Si tratta anche più semplicemente della fuga di laureati, non per forza cervelloni, ma semplicemente laureati che vogliono fare il lavoro per cui hanno studiato. Oltre ai numeri conta la sostanza delle esperienze. Io sono bersaglio continuo dei resoconti di miei studenti e studentesse (per lo più laureati in Lettere e in Lingue, quindi settore occupazionalmente disagiato) che dopo anni di tentativi in Italia, coronati solo dal pantano dell’incertezza sul versante dell’insegnamento o dalla tortura dello sfruttamento in lavoretti precari sul versante delle aziende, trovano il coraggio, cioè insomma sono costretti, a lasciare questo Paese. Poche settimane dopo il loro arrivo – diciamo – in Germania, hanno trovato lavoro.
Non uno qualsiasi: quello che volevano e per cui hanno studiato. Vengono assunti perché sono preparati. E spesso ottengono anche i cosiddetti benefit, come nel mondo del lavoro “vero”. La cosa più emozionante per loro (a anche per me, a cui lo raccontano) non è nemmeno trovare lavoro e quindi risolvere i loro problemi economici; è scoprire che sono bravi. Anni di rifiuti e fallimenti in Italia avevano finito per convincerli di non valere niente, ed ecco che un’azienda tedesca gli dice: sì, vai bene, ci servi; e scoprono che quindi invece sì, valevano qualcosa. Magari parecchio. Non erano loro, ma chi non li voleva assumere in Italia, a non valere niente. Perché i tedeschi non fanno certo regali.
Ebbene, proviamo a sciogliere il crampo mentale e a riconoscere i nessi di causa-effetto. Se i nostri laureati non trovano lavoro in Italia ma lo trovano facilmente all’estero, significa che i nostri laureati non sono ben preparati, oppure invece che il nostro sistema economico non è capace di offrire lavoro? Insomma, come si può dare la colpa all’università se i nostri laureati non possono lavorare qui, ma possono presso aziende straniere?
Come si può dire che l’università italiana non prepara adeguatamente per il lavoro, se prepara adeguatamente per lavorare proprio nei Paesi dove il lavoro è organizzato in modo da produrre più ricchezza; e, dato importantissimo che qui possiamo solo accennare in Tabella 1, Paesi dove le università sono molto più finanziate che da noi? La colpa, palesemente, non è dell’università italiana, ma delle aziende italiane. O al massimo, se proprio vogliamo aiutarle a scaricare il barile, della famosa legislazione italiana che tarpa le ali a qualsiasi iniziativa, e che se fossero state in Italia avrebbe impedito di prendere il volo anche ad aziende-aquila del genere di Microsoft o di Google.
Roma Tre | Manchester | Amsterdam | München | |
studenti | 39.000 | 37.000 | 30.000 | 45.000 |
docenti | 954 | 5.600 | 2.700 | 3.400 |
personale amm.vo | 697 | 5.800 | 2.300 | — |
Bilancio (in mln di euro) | 248 | 780 | 600 | 460 |
Tab. 1. Un po’ di dati (al 2010) sul rapporto fra numero di studenti e risorse a disposizione di alcune università europee paragonabili per dimensioni, quando erano già in fase avanzata (ma oggi ancora peggiorata) le sciagurate riduzioni di spesa e di personale a danno delle università italiane, purtroppo politicamente favorite dalla diffamazione che di esse fanno i cosiddetti ambienti “produttivi” (fonte: G. Domenici, Riforma universitaria e (dis)investimenti in ricerca e formazione, «Journal of Educational, Cultural and Psychological Studies (Ecps Journal)», n. 3, 2011).
Ripetiamolo ancora una volta, perché tanto l’opposto viene ripetuto di più: abbiamo un sistema di istruzione così inferiore al sistema Paese, che esportiamo masse di laureati. Immensamente di più di quanti ne importiamo. Si mettano una mano sulla coscienza tutti quegli italiani che – di solito dal “mondo del lavoro” – sparano a zero sulla nostra scuola e la nostra università, dando ai governi di ogni colore un pretesto per infierire su uno dei settori strategicamente più essenziali per la vita e per l’economia di un Paese: scuola e università, che di fatto formano individui adatti al mercato del lavoro nei Paesi in assoluto più progrediti. Mentre il mondo delle aziende in Italia non è capace di darglielo, un lavoro. Insomma, chi è che non fa bene la sua parte?
Testo pubblicato quale prima sede sulla pagina Web de Il Mulino.
la proletarizzazione del ceto medio passa anche per le università, non più centri di formazione di menti critiche dentro cittadini consapevoli ma centri per l’impiego in posizioni precarie.
Finora quando i giovani Ph.D. italiani vanno all’estero sono sempre stati apprezzati appunto per la loro preparazione; domani sarà lo stesso?
c’è azienda e azienda. Esiste la grande azienda assistita dallo stato per anni, direttamente e indirettamente, l’azienda virtuosa che si è fatta da se, la piccola azienda.
Tutte queste hanno esigenza diverse.
Certo che il laureato in lettere può facilmente trovare lavoro in un ufficio comunicazione di una grande azienda, ma la piccola non può permetterselo, anche se lo vorrebbe.
In Italia, si è assistito a una de-industrializzazione nei settori chimico, elettronico, informatico.
Tiene la meccanica, l’alimentare, il tessile, la moda.
Questi sono i settori che assumono. Allora, bisogna chiedere alle aziende di quanti laureati/anno hanno bisogno. Ciò dipende dal territorio.
In Italia ci sono aeree industrializzate e aree no.
Certo che, fino a che si mantiene il numero aperto a lettere, scienze politiche e legge, allora l’ università diventa un tampone per la disoccupazione.
In Germania si accede a certe facoltà direttamente solo se si proviene da una determinata scuola superiore. L’ università è gratis, ma non per tutti.
Forse è il momento di incominciare a ragionare cosi anche da noi.
Tutto vero, specialmente che le Università italiane (ancora per poco) preparano bene, meglio di molte estere.Anche che il tessuto economico sociale italiano non è predisposto a produrre lavoro, etc, etc. Ma è anche vero che, ultimamente, l’Università Italiana manca di una ‘mission’ che sia agganciata alla realtà e manca di sistemi di regole orientati ad interagire con la società. Siamo sempre più autoreferenziali e l’attività degli Universitari è finalizzata solo ad ottenere obiettivi accademici e rifiuta ogni interazione col mondo esterno. Quindi, tra un pò di anni, forse ci accorgeremo che la nostra Università non prepara neanche più meglio di altre e saremo definitivamente finiti.
“Siamo sempre più autoreferenziali e l’attività degli Universitari è finalizzata solo ad ottenere obiettivi accademici e rifiuta ogni interazione col mondo esterno”
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Nel contesto che conosco, direi che la tendenza è diametralmente opposta, al punto che – vista la situazione italiana – si cercano interazioni con le imprese in ambito internazionale. È vero che il delirio valutativo tende invece a premiare l’autoreferenzialità accademica (pubblicare per pubblicare e scambiarsi citazioni). Ma l’idea di un “rifiuto” generalizzato non mi sembra che rispecchi la realtà. Piuttosto, vedo emergere disincentivi frutto di approcci ideologici.
Articolo esemplare. Complimenti.
Segnalo solo, per pignoleria professionale, un errore terminologico nel terz’ultimo capoverso: le imprese, come ovvio, non “offrono lavoro”, ma casomai “domandano lavoro”. Il lavoro non è una “cosa”, un oggetto, che le imprese offrono ai lavoratori, ma è un insieme di tempo, conoscenze e capacità che i lavoratori offrono e le imprese domandano. E questo, in effetti, è proprio il problema segnalato ottimamente dall’autore del pezzo: l’offerta c’è, e pure di alta qualità; è la domanda che manca.
In effetti, non preparare “neanche più meglio di altre” ed essere “definitivamente finiti” è agghiacciante. Sarebbe il caso che ne discutessimo tutti di persona personalmente!
noto una situazione strana:
1) si vede un certo collegamento tra PhD e azienda, anche per future assunzioni
2) si vede UNA TOTALE ESTRANEITA’ tra Pubblica Amministrazione e PhD, anche laddove ci sia una corrispondenza forte tra contenuti e competenze, ad es: PhD in materie giuridiche e concorsi pubblici contenenti prove con materie sulle quali uno ha già fatto la tesi di dottorato o altre pubblicazioni più “TOSTE” delle prove scritte ed orali o di pubblicazioni scadenti di professori scadenti che stanno in commissione di concorso pubblico presso enti o ministeri.
3) Il fatto che il DOTTORATO (terzo grado di istruzione, più importante della laurea non conti nulla, neppure nei concorsi della PA, Pubblica Amministrazione che costituisce lavoro, significa che, almeno dal punto di vista del DOTTORATO, NON C’E’ COLLEGAMENTO TRA Università E MONDO DEL LAVORO PUBBLICO.
Condividete?
Caro Anto,
certo che condivido, ed anzi preciso che, dal punto di vista del dottorato, nemmeno tra università e mondo del lavoro privato c’è collegamento.
I dottori di ricerca assunti dal privato devono l’assunzione alle loro capacità (e fortuna) e/o alla ricerca di lavoro iniziata già durante il periodo del dottorato stesso, una volta resi edotti dell’assenza di posti a tempo indeterminato nella struttura universitaria, non certo all’asserita formazione conseguita all’esito del terzo grado di istruzione. Questa è la realtà. Il resto è retorica necessaria al mantenimento in vita dei corsi di dottorato.
gentile MAFFoodandbeverage,
in relazione alla sua visione, secondo cui il dottorato sarebbe poco utile per l’inserimento nel mondo del lavoro, sempre e comunque: non mi permetto di discutere se la sua affermazione sia vera o meno nell’ambito che lei conosce di più, che non so nemmeno quale sia.
posso invece testimoniare che i dottori di ricerca che si sono formati nell’ambito che io conosco non avrebbero avuto le opportunità che hanno avuto senza aver conseguito il titolo di dottore di ricerca e con tesi sullo specifico ambito.
quindi, per favore, si tratti bene astenendosi da generalizzazioni false e, sempre che una generalizzazione vera possa esistere, si limiti a quelle vere.
grazie, sorrenti.
Sono ovviamente d’accordo con lo stimato collega.
Vorrei aggiungere: lo Stato può rendere utile il titolo di studio praticando politiche intelligenti di assunzione. Se per esempio nella scuola si tiene basso obbligatoriamente il numero di alunni per classe, è prevista l’assunzione di più insegnanti. Un numero X di giovani entra in ruolo (dopo concorso, non con le sanatorie), il lavoro scolastico è qualitativamente migliore, gli stipendi erogati crescono.
Da molti anni lo stato licenzia il supplente a giugno e ne affitta uno diverso a settembre, tiene in cattedra sessantasettenni che dovevano andare in pensione, ammette classi con trenta studenti.
Molti giovani interessati a discipline umanistiche non si iscrivono più perché non pensano di riuscire a trovare uno sbocco dei loro studi nell’insegnamento.
Quanto ai milioni di posti creati da Confindustria negli ultimi vent’anni, non voglio pronunciarmi …
C’è qualcosa di strano nei dati: dalla tabella risulta che Manchester ha un personale quasi 7 volte più numeroso di quello di Roma3 ma un budget di solo poco più di 3 volte. E discrepanze simili, ma di misura minore, emergono dai confronti con Amsterdam (personale circa il triplo, budget circa il doppio) e Monaco.
(solo) “il 24% degli italiani ritiene importante l’istruzione per lo sviluppo dell’impresa”
23:30/62:08
http://www.radio24.ilsole24ore.com/programma/focus-economia/trasmissione-aprile-2016-183651-gSLAHkIgbB
In realtà se si legge l’ultimo bilancio disponibile sul sito web dell’Università di Manchester, al 15 luglio 2015 (loro scadenza dell’anno finanziario),
http://documents.manchester.ac.uk/display.aspx?DocID=27044
il confronto con Tor Vergata è ancora più imbarazzante: le entrate sono poco più di un milione di sterline per oltre 1.250.000 euro! Forse non erano state messe nel conto i quasi 500.000 euro di entrate da tasse universitarie (più o meno un ordine di grandezza superiori a quelle di Tor Vergata).
Il numero di impiegati è invece proprio quello, l’ultimo dato certo sul sito:
http://documents.manchester.ac.uk/display.aspx?DocID=23408
indica uno staff di oltre 11.000 persone.
Certo i due sistemi universitari e relativi metodi di finanziamento non saranno forse direttamente confrontabili, ma a parità di studenti, budget e staff di Manchester si avvicinano ad essere un ordine di grandezza superiore: un altro mondo!
Evidentemente a Roma le priorità di spesa saranno indirizzate altrove: a pagare gli oltre 30.000 dipendenti del comune ed i quasi altrettanti dipendenti delle varie società partecipate e le loro enormi perdite, tanto per fare un piccolo esempio..