«In pieno declino»: con questa espressione il premio Nobel per la fisica 2012, Serge Haroche, ha definito la situazione della ricerca italiana, pronunciando parole dure sul nostro paese durante il suo discorso al Collège de France, di fronte alle autorità politiche francesi. Il prof. Haroche ha parlato dell’Italia come “terra di emigrazione” e ha denunciato la disperazione dei ricercatori italiani, prendendo il nostro paese a emblema dei problemi della ricerca a livello mondiale e dei pericoli cui uno Stato può andare incontro qualora seguisse il modello italiano[1].

La gravità della crisi del nostro sistema d’istruzione è dunque nota all’estero tanto quanto lo è in patria. Lo scorso 22 aprile, sul «Corriere della Sera», Tullio De Mauro commentava ironicamente la polemica sull’abolizione del valore legale della laurea con le seguenti parole: «Direi che l’università italiana è un malato terminale. Profumo vorrebbe in qualche modo staccare la spina ma la gente non vuole saperne…». La causa di questa perdurante malattia sembra essere stata individuata in una crescente burocratizzazione dell’attività di ricerca, che ha impedito la messa in pratica del dettato costituzionale, ingabbiando la libertà del ricercatore nelle maglie di progetti e contratti a breve scadenza e costipandone gli orizzonti entro gli spazi sempre più angusti di una presunta “produttività” scientifica. L’effetto che ciò ha provocato sulla già esausta cultura italiana è stato quello di averla imbalsamata. Quel che è certo è che mentre il modello humboldtiano di una Università come sede naturale della ricerca sembra essere definitivamente tramontato, sulle sorti future del sistema d’istruzione italiano incombe una grave e oscura incognita.

Se è vero che la disuguaglianza più pericolosa nel mondo contemporaneo non è quella economica, ma quella nella conoscenza e nelle politiche educative, come ha scritto Marc Augé nel suo ultimo libro[2], l’Italia potrebbe essere uno dei paesi più vicini al crack. Sulla rivista «Alfabeta 2»[3] dell’ottobre 2010 Umberto Eco scriveva: «quando sono entrato all’università, all’inizio degli anni Cinquanta, gli studenti universitari erano 226.000 […]. Nel 2007 erano un milione e ottocentomila (con una piccola flessione negli anni seguenti). A un aumento quantitativo di queste dimensioni non è corrisposto un aumento adeguato in infrastrutture, docenza, investimenti per la ricerca. Fine della storia. Uno Stato che non decide di finanziare adeguatamente ricerca ed educazione è destinato non solo a perdere cervelli, che sarebbe il meno, ma a tenersi in casa cervelli bacati». E sullo stesso numero della rivista, Mario Domenichelli ha ricordato che: «Quando si parla di crisi dell’università se ne individua spesso la causa nella massificazione, come se da noi si trattasse di una situazione particolare; particolare è stata solo la risposta, se non l’assenza di risposte “politiche” alla questione. […] In situazioni analoghe alla nostra, sulla spinta dell’onda d’urto dei movimenti studenteschi del 1968, in Francia (legge Faure) e in Germania (però già a partire dagli anni Cinquanta-Sessanta) vengono approvate riforme di rilievo; in Italia non ci fu alcuna vera riforma, se si eccettua la liberalizzazione degli accessi a tutte le facoltà»[4].

Paesi come Francia, Germania e Inghilterra, per non parlare di Svezia, Danimarca e Finlandia, negli anni Sessanta e Settanta hanno organizzato la loro economia attorno alla scienza, mentre l’Italia smantellava le esperienze più avanzate di ricerca scientifica e fallivano periodicamente tutti i tentativi di riforma dell’università.

Il genetista Adriano Buzzati Traverso già nel 1956 aveva definito l’Università «un fossile denutrito» e, riportando i giudizi imbarazzanti di organismi internazionali sullo stato ricerca italiana, concludeva: «la nostra università è avulsa dalla vita del paese, ha una struttura interna sorpassata, e in essa aleggia ancora un’aurea medioevale». Egli riassumeva le ragioni di questa situazione in tre problematiche generali: in primo luogo, il bilancio sempre troppo magro per l’istruzione, «gran male fatto all’Italia dalla mancanza di senso di responsabilità, di coraggio civile, dal rinunciatarismo e dalla superficialità di ministri della Pubblica Istruzione, di Consigli superiori dell’istruzione, di rettori di università e di professori succedutisi durante gli ultimi quattro decenni»; in secondo luogo, il provincialismo dei professori universitari ostili all’introduzione di nuove discipline di cui non fossero esperti e di qualsiasi innovazione nell’organizzazione della ricerca; infine, la ristrettezza di vedute di una categoria imprenditoriale «gretta nelle sue visioni di rinnovamento e poco disposta ad una effettiva collaborazione con lo stato per migliorare rapidamente la situazione attuale».

Tra il 1956 e il 1968, con una serie di articoli poi raccolti in volume[5], Buzzati Traverso aprì un dibattito sull’emergenza educativa: «Un paese che dispone di una scuola inadeguata, come indirizzo, come dimensioni e come composizione, alla civiltà e alla struttura economica verso cui il resto del mondo si sta orientando, in seguito al prepotente evolversi della scienza e della tecnica, è destinato alla rovina e al servaggio. Un servaggio meno appariscente di quelli passati […], ma ancora più umiliante, poiché esercitato a livello della cultura, per cui un tempo rifulgevamo. Ineluttabilmente, tecniche nuove, nuovi impianti, prodigiosi macchinari finiranno col venire importati anche in Italia, ma progettati, studiati, costruiti e controllati da tecnici stranieri. Ed allora i nostri figli e noi stessi saremo i paria del mondo nuovo»[6].

A suo dire, l’unico modo per sbloccare un sistema immobilizzato da fortissimi interessi di parte consisteva nel favorire «tentativi didattici e di ricerca diversi», al di fuori delle sedi universitarie, con la creazione di istituti di ricerca dotati di totale autonomia che provassero a mettere in pratica un modello educativo nuovo e adatto a formare studiosi con mentalità aperta alle rinnovate concezioni del mondo contemporaneo, come era avvenuto in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Giappone, paesi in cui vigeva un continuo aggiornamento dei metodi di studio: «occorre lasciare libero sviluppo alla iniziativa di gruppi volenterosi, istituendo uno speciale fondo per esperimenti educativi, al di fuori delle strutture scolastiche previste dall’attuale ordinamento»[7]. Questa proposta era ancora più valida per le regioni meridionali, in cui vi era la urgente necessità di creare una “massa critica” di capacità intellettuali, dirigenziali e di ricerca «al di sotto della quale gli sforzi del singolo e della collettività vanno in buona misura sprecati». Nel Mezzogiorno, infatti, accadeva che ancor prima di raggiungere quella massa critica, gli elementi migliori preferissero trasferirsi in quei centri dove meglio poter esprimere le loro potenzialità. Consapevole, dunque, del fatto che «non bastano le acciaierie di Taranto o la progettata Alfa-Sud per trasformare il Mezzogiorno», nel 1962 Buzzati Traverso fonda a Napoli il Laboratorio Internazionale di Genetica e Biofisica, in collaborazione con il CNR, e nel 1964 si spinge ancora più avanti, lavorando con il fisico Eduardo Caianiello e il chimico Alfonso Maria Liguori alla creazione di un’area di ricerca.

I progetti di rinnovamento furono, però, presto vanificati dalle guerre accademiche e ideologiche, sollevate da chi, come ha ricordato Gilberto Corbellini[8], non voleva che il Laboratorio di Buzzati divenisse un centro europeo sganciato dalle locali logiche di potere. Il fronte dei professori conservatori, saldandosi in una inquietante alleanza con gli studenti, riuscì a far dimettere Buzzati Traverso dalla direzione del Laboratorio di genetica e biofisica – divenuto nel frattempo uno dei maggiori centri europei di biologia – a seguito dell’occupazione nella primavera del 1969 di circa una ottantina di persone che protestavano affinché le borse di studio fossero trasformate in impieghi statali e si sciogliessero i legami che nel frattempo il laboratorio aveva intessuto con gli Stati Uniti. Successivamente, all’Istituto furono tagliati anche i fondi di ricerca e Buzzati Traverso si risolse a partire per Parigi, chiamato a lavorare presso l’Unesco[9]. Fu, questo, un caso eclatante e tuttora irrisolto di “cervello messo in fuga” per motivazioni che attendono ancora di essere indagate a fondo e che forse potrebbero gettare luce sulle possibili vie d’uscita dalla crisi dell’educazione.



[1] La politica è nemica della ricerca, di S. Haroche, «Il Sole 24 Ore», 9 dicembre 2012.

[2] Vedi Il vero spread è quello della conoscenza, «La Repubblica», 27 agosto 2012.

[3] U. Eco, Allarme Università. Riflessioni sparse su presente e futuro, «Alfabeta2», anno I, n. 3 (ottobre 2010), p. 27.

[4] M. Domenichelli, Università e crisi della cultura, «Alfabeta2», cit., p. 33.

[5] A. Buzzati-Traverso, Il fossile denutrito. L’università italiana, Il Saggiatore, Alberto Mondadori, Milano 1969.

[6] Ibidem, p. 68.

[7] Ibidem, p. 125.

[8] Ligb, modello dimenticato, di G. Corbellini, «Il Sole 24 Ore», 9 dicembre 2012.

[9] La vicenda è narrata sia in E. Bellone, La scienza negata, Codice edizioni, Torino 2005, sia in L. Russo, E. Santoni, Ingegni minuti. Una storia della scienza in Italia, Feltrinelli, Milano 2010.

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12 Commenti

  1. Noto di passaggio che c’è un nesso storico molto solido tra ‘nepotismi’ e scarsità di risorse, un nesso che non si risolve con la pretesa, apparentemente ragionevole, di mettere PRIMA fine alle pratiche ‘nepotistiche’, ‘baronali’, amicali’, ecc. e POI di erogare finanziamenti dignitosi.
    .
    Il problema è dato dal fatto che in una situazione di risorse perennemente scarse, è inevitabile che persone e progetti meritevoli vengano di necessità ogni volta cassati. Ma se così avviene sistematicamente, diventa ovvio che, anche per i meritevoli, un aiutino che non passi attraverso il semplice merito risulti imprescindibile. Ma una volta dato corso ad una pratica per cui l’aiutino è conditio sine qua non, il fatto che esso sia applicato ad una short list ideale dei migliori diviene opzionale, tanto i passaggi cruciali delle decisioni devono seguire motivazioni che non possono essere rese trasparenti.
    .
    Per questo motivo un ordinamento di ricerca che sia sistematicamente sottofinanziato alimenta costantemente forme di ‘aggiramento’ del merito.

  2. Il fronte dei professori conservatori, saldandosi in una inquietante alleanza con gli studenti, riuscì a far dimettere Buzzati Traverso dalla direzione del Laboratorio di genetica e biofisica – divenuto nel frattempo uno dei maggiori centri europei di biologia – a seguito dell’occupazione nella primavera del 1969 di circa una ottantina di persone che protestavano affinché le borse di studio fossero trasformate in impieghi statali e si sciogliessero i legami che nel frattempo il laboratorio aveva intessuto con gli Stati Uniti.

    Queste parole mi hanno molto colpito: la demagogia sessantottesca quanto è costata in termini di qualità all’Università italiana? E quanti di quelli che allora protestavano occupano ora le posizioni di potere e sono zelanti esecutori di tagli e “riforme”?

    • Se non altro c’è una sorprendente coincidenza di date. I nativi intorno al 1945 si sono laureati intorno al 1968 e hanno beneficiato della 382/1980. I loro figli in un qualche modo si sono venuti a trovare nel periodo giusto della legge 210/1998 (Berlinguer) e ora della ASN figlia della legge 240/2010 (Gelmini).

  3. E’ solo un problema economico: un assegno biennale di 1600 Euro netti al mese e’ considerato NON competitivo.

    All’estero (Francia, Germania, Austria, Inghilterra) i postdoc prendono da 2200 a 2800 EURO al mese, e con contributi previdenziali seri.

    Se si vuole essere competitivi, i ricercatori (anche se precari) devono guadagnare MOLTO MOLTO di piu’.

    Per farlo a costo zero bisogna togliere risorse ad altri apparati, ed ad altre categorie di lavoratori, dello Stato.

  4. Onestamente le parole del prof. Haroche non mi sorprendono affatto; venendo dall’ estero ed avendovi naturalmente conservato i contatti, sono ben consapevole che il sistema italiano – soprattutto dopo l’ introduzione da parte della legge 240/2010 dei due tipi di contratti di ricercatore a tempo determinato, dell’ abilitazione nazionale e di un modello verticistico di governance – viene spesso additato, nei consessi internazionali, proprio come il modello da evitare. Miei ex colleghi esteri sono estrefatti da ciò che è stato introdotto in Italia. Personalmente, credo che un sistema perfetto non esista in nessun Paese, ma ritengo anche che un tentativo serio di rilancio della ricerca dovrebbe partire da una riflessione sulla figura del ricercatore e sulle sue necessità per svolgere al meglio il suo ruolo. Credo che un “ricercatore”, nell’ accezione corretta del termine, dovrebbe essere tale per vocazione ed essere definito come colui che spinge in avanti la conoscenza nel suo settore, scoprendo nuove soluzioni, adottando approcci innovativi nell’ analisi di tematriche già affrontate per giungere a conclusioni originali, aprendo nuove linee di ricerca magari anche interdisciplinari, etc..in altre parole, il “ricercatore” dovrebbe essere percepito come un “creatore di conoscenza”, naturalmente di una “conoscenza” che, in qualunque campo e dovunque venga prodotta (Università o Ente di ricerca), abbia effetti positivi sul progresso economico e sociale. Quando tre anni fà andai a Stoccolma per una Conferenza internazionale nel mio settore, rimasi impressionato notando come, sul treno “Arlanda Express” (dall’ aeroporto alla città), vi erano depliants che, al visitatore estero, presentavano il Paese sottolineando tutti i traguardi raggiunti dai suoi ricercatori. Evidentemente, ciò sottolinea quanto sia elevata, da quelle parti, la valutazione sociale del ricercatore. La Svezia (nell’ esempio che sto citando) è anche uno dei Paesi la cui situazione complessiva é molto migliore di quella italiana. Ora, se la figura del “ricercatore” venisse (correttamente) intesa in questo significato, sarebbe facile dedurne di quali condizioni di lavoro il ricercatore avrebbe bisogno: libertà accademica (per poter lavorare in autonomia applicandosi al meglio della propria creatività intellettuale-scientifica), stabilità (raccomandazioni UNESCO: la “tenure” come necessario complemento della libertà accademica) e naturalmente stipendi che riflettano l’ importanza del suo ruolo….una concezione della figura del ricercatore, e delle sue necessarie condizioni di lavoro, distante anni luce dall’ idea sottostante alle figure di ricercatore precario introdotte in Italia.

  5. E’ proprio così: un ricercatore deve avere uno stipendio elevato e adeguate strutture che lo invoglino alla mobilità. Ma le scelte sono state altre, p. es. finanziare a fondo perduto l’Alitalia o varie cricche di potere politico-amministrativo etc. etc.. Mancano sia l’etica sia la cultura per capire che Università e ricerca sono una grande chance di miglioramento della società a tutti i livelli. E’ davvero una situazione grave accuratamente occultata da un’opera di stordimento mediatico continuo.

  6. Accanto al caso dell’istituto di biologia molecolare di Napoli, c’è quello dell’Istituto Superiore di Sanità, che era diventato un importante centro di ricerca in biologia. Il suo direttore Domenico Marotta fu accusato di peculato per distrazione (morì prima del processo) perché tra l’altro aveva assunto un premio Nobel, Bovet, privo di una laurea italiana in una posizione riservata ai laureati. Un terzo caso fu quello del CNEN, con il processo Ippolito. In quest’ultimo caso la fisica nucleare si salvò comunque con l’uscita dal CNEN dello INFN, e l’adesione dell’Italia al CERN. Sarebbe interessante riesaminare gli eventi degli anni sessanta che hanno determinato l’abbandono quasi totale del sostegno alla ricerca da parte del governo e della grande industria. Bisognerebbe ricordare anche la posizione di punta della Olivetti nel campo dei calcolatori, la posizione della Montecatini (poi Montedison) che deteneva i brevetti frutto del lavoro di Natta premio Nobel per la Chimica (1963). I primi tentativi di sfruttamento dell’energia nucleare. Insomma il quadro è complesso e meriterebbe l’attenzione di uno storico competente anche di scienza.

  7. Anche se le difficolta’ della situazione della ricerca e dell’Universita’ sono palpabili si puo’ ancora fare qualcosa. Ad esempio: disinnescare gli effetti piu’ deleteri della 240/2010 (in particolare, ripristinare l’assunzione a tempo indeterminato per i ricercatori), investire nella ricerca teorica di base (qui i costi sono piu’ bassi), insomma “governare davvero l’Universita’, non riformarla”.

  8. Puo’ essere che la “demagogia sessantottesca” sia costata qualcosa, ma quanto costava l’imbalsamatura conservatrice e classista che c’era fin li’? Va confrontata l’una e l’altra cosa, se no e’ come dire che si stava tanto bene nell’antico regime, non ci fossero stati quei cattivi della Rivoluzione francese.
    Cronologicamente, non c’e’ una coincidenza, anzi se vogliamo il contrario: fino a tutto il ’68 gli studenti univ. erano una piccola minoranza estremamente selezionata (erano di meno del periodo fascista), la grossa crescita delle iscrizioni c’e’ stata solo dopo
    (subito dopo). L’apertura del ’69 e sgg. – sacrosanta se si voleva avere un paese civile e non troppo arretrato rispetto al resto dell’Europa – e’ stata forse gestita male, ma da quelli che allora la gestivano (non dai ’68ini, che allora si laureavano).
    E che i ’68ini, una volta arrivati a qualche posizione, siano stati peggiori degli altri, non direi proprio: di solito i migliori, che stanno andando in pensione in questi anni, venivano da li’. (Anche qualcuno dei peggiori, ma quantitativamente, per chi ha frequentato consigli di facolta’ degli ultimi 10-20 anni, mi pare difficile giudicare diversamente). Non e’ Ferrara a cambiare i conti di una generazione, considerata sui suoi numeri reali. Basta guardare tutte le statistiche culturali (Istat), o quelle sul voto politico. (Detto da un post-68ino, non avevo l’eta’).

  9. Concordo interamente con il commento precedente. Comunque credo che in Italia sia piu’ corretto parlare del periodo del sessantotto e riferirsi al grande impulso del biennio ’68-’69. Questo perche’ i momenti della contestazione studentesca e della contestazione sociale sono stati piu’ nettamente distinti che altrove, poi la seconda ha dato fiato e sviluppo alla prima. Purtroppo l’Italia, e il mondo accademico in particolare, sono riuscite a sfruttar poco la ventata rinnovatrice di quel periodo. Bisognera’ pur riflettere sul fatto che in un quarantennio, l’Universita’ e’ passata dal medioevo baronale al medioevo delle mediane. Non mi e’ per niente chiaro se in risposta a questo nuovo “medioevo delle mediane” si ripropongono forme di potere ancora peggiori di quelle passate. Rimane il dato di fatto amaro che lo studio e la ricerca sono concepite ancora come privilegi e non come le forze portanti dello sviluppo economico e sociale. Si accusa compulsivamente la scuola e l’Universita’ di essere troppo lontane dalle esigenze del “mercato”, ma è proprio su quest’ultimo che bisogna spostare l’attenzione e l’accusa. In cio’ il periodo del ’68 ci da’ l’importante indicazione di ritornare a una critica piu’ serrata e vigorosa della societa’. In Italia ce n’è particolarmente bisogno se non si vuol morire asfissiati da tecnicismi astrusi e reazioni altrettanto astruse perché tutte interne all’accademia.

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