Quando racconto che, oltre ad aver insegnato all’Università (esattamente per 40 anni), ho fatto (e faccio) il ricercatore in Biologia e Biomedicina le persone, anche di cultura, che non mi conoscono bene mi chiedono se questo vuol dire che lavoro in, o almeno per un’industria. Nel nostro paese la ricerca scientifica sperimentale (da qui in poi, la ricerca), un’attività che si basa sull’ impegno, l’originalità del pensiero, l’eccellenza del metodo, la profondità delle conoscenze e la capacità di sviluppare idee anche in base alle idee di altri, è quasi completamente sconosciuta. E’ vero, si sa che c’è; si intervistano gli autori di scoperte (purchè siano, o almeno sembrino, mirabolanti); se ne discutono gli aspetti etici; si apprezzano iniziative (benemerite) di divulgazione ecc. Sotto sotto, però, molti pensano che della ricerca si possa fare a meno. Quella che invece tutti conoscono, e in genere considerano fondamentale per il progresso, è la tecnologia, un settore del sapere che coincide solo in parte con la scienza e che invece dalla scienza prende origine sia per la formazione dei suoi “operatori”, sia per molte scoperte, i metodi sperimentali e le idee “di base” da cui hanno preso e prendono inizio sviluppi e successi applicativi anche di uso comune.
Se questa è la situazione generale del paese, perché sorprendersi se molti politici italiani sanno poco o niente di ricerca scientifica? Nel momento in cui si parla di nuovi programmi, tutti citano sempre la ricerca, comunque senza approfondire il problema, non si sa mai. Poi, però, nel momento dell’azione, tornano i soliti stereotipi: la cultura (e quindi anche la scienza) non si mangia; la scienza la devono fare i paesi come gli USA e la Germania, noi non ce lo possiamo permettere e così via. L’interesse del settore pubblico resta quindi basso e l’impegno anche economico è del tutto marginale. Soltanto a livello di alcune Regioni, in particolare (ma non solo) la Lombardia, sono stati realizzati alcuni progetti, soprattutto tecnologici che includono anche aspetti scientifici. Nel complesso comunque si può concludere che finora l’esperienza dei nostri scienziati viene utilizzata poco (o niente); il fall-out tecnologico dei nostri ricercatori emigrati (quello dei cervelli in fuga, per intendersi) si realizza altrove; le industrie avanzate (per esempio quelle farmaceutiche) emigrano o chiudono; la tecnologia senza scienza non cresce e quindi non è, come si dice, un volano importante dell’economia. Di conseguenza, la crescita economica si affida in gran parte ad imprese piccole o medie a basso contenuto tecnologico, molte delle quali sempre meno competitive nel mondo globale.
Questa è la situazione che si è sedimentata negli anni. Ma ora, con la crisi, c’è stato qualche sviluppo positivo? Alcuni paesi, come la Germania e la Francia, consapevoli dell’importanza della scienza come motore essenziale dello sviluppo, non hanno diminuito, ma anzi hanno aumentato gli investimenti in campo scientifico. In Italia, dove la ricerca è da sempre finanziata molto meno che nei paesi competitori, i tagli trasversali della gestione Tremonti non la hanno certo risparmiata. Reazioni significative dalla comunità scientifica non ce ne sono state. Siamo abituati ad arrangiarci e continuiamo a farlo.
E i Partiti? Nel PdL, almeno nei termini che emergono da Internet, di ricerca seria non si parla. Nel PD la situazione è più articolata e merita più attenzione. Un consigliere regionale della Sardegna, Marco Meloni, è il Responsabile del Partito per l’ Università e la Ricerca ma deve occuparsi anche della Riforma dello Stato e della Pubblica Amministrazione. Esiste inoltre un Forum Università, Saperi e Ricerca di cui è Presidente Maria Chiara Carrozza, un biotecnologo qualificato, Direttore della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Un certo numero di iniziative sono state organizzate, sia alle Feste democratiche che altrove. In Settembre, ad esempio, c’è stata la Festa Nazionale dell’Università e della Ricerca, 4 giorni a Cagliari; lo scorso 2 Dicembre una riunione del Forum a Roma. Nella prima, però, si è parlato di ricerca solo per poche ore, in un pomeriggio, limitandosi soprattutto ad aspetti divulgativi. Nel resto del tempo si è discusso di Università, soprattutto in Sardegna e in Europa, e di prospettive per i giovani. La seconda si è articolata in tre riunioni parallele: sulla riforma Gelmini, sul diritto allo studio e sul reclutamento dei docenti. Tutte cose urgenti e sacrosante ma… quando si parlerà del problema ricerca in Italia?
Il problema ricerca, per il nostro paese, è grave, ampio ed urgente. Ufficialmente riguarda un numero limitato di ricercatori, meno di 100.000, circa la metà che in Francia e un terzo che in Germania. In realtà i giovani qualificati (o qualificabili, se ci fosse un programma) sono molti, molti di più, quindi il problema sociale ed il potenziale economico (acquisizione di finanziamenti internazionali, fall-out tecnologico ed industrale avanzato ecc.) sono molto più grandi. Purtroppo gli investimenti per la ricerca sono sempre a lungo termine, non servono per le prossime elezioni o per sbraitare a Ballarò. Non interessano neanche molti studiosi di economia, abituati a realtà molto diverse, più complessive e meno complicate. Se la politica non comincia a considerare seriamente la ricerca come uno degli strumenti necessari per uscire dalla crisi finirà per perdere grandi occasioni.
Secondo me la prima cosa che la politica potrebbe (e dovrebbe) fare sarebbe conoscere lo status quo in termini di ricerca, imparare a interpretare la situazione, non per sentito dire ma direttamente. In base alla mia esperienza al MIUR, dove per 5 anni ho partecipato a Commissioni permanenti, non ci si può aspettare che questo succeda per iniziativa dei burocrati, spesso qualificati ed impegnati, ma su prospettive diverse. Né si può pensare che succeda “spontaneamente”, attraverso scienziati che interagiscono con la politica o direttamente con il MIUR. Dato che a oggi non esiste un “filtro” qualitativo, insieme a ricercatori qualificati si intrufolano anche personaggi davvero inattesi. E’necessario quindi che le forze politiche sviluppino, e poi usino quando saranno al Governo, iniziative specifiche che permettano di riconoscere la realtà, deformata finora da innumerevoli influenze extrascientifiche. Finora i tentativi fatti dalla Comunità scientifica per lavorare non su aspetti specifici o addirittura personali, ma in termini generali, per lo sviluppo del paese, sono stati pochi e hanno avuto un successo limitatissimo. Oggi il Ministro del MIUR è un Rettore, per tre mesi Presidente del CNR. Non so cosa abbia in mente ma mi aspetto che, rispetto ai suoi predecessori, sia più attento e, soprattutto, che sia al corrente dei problemi relativi alla ricerca. E’ possibile, quindi, che si possa cominciare a palarne seriamente. Se però non si troveranno strade per sviluppare prospettive concrete e strategicamente corrette, temo che lo stato della ricerca resterà come ora, al buio da tutti i punti di vista: cultura, Università ed anche economia.
Ho scritto già su Facebook: grazie Jacopo Meldolesi
La ricerca italiana avrebbe bisogno di quattro cose:
unificazione (gestione di tutta la ricerca in un soggetto unico come una Fondazione Italiana per la Ricerca – più frammentazione fra Ministeri/regioni/PON POM e soggetti vari)
programmazione (bandi certi a scadenze regolari con verifiche)
trasparenza (valutazione meritocratica con board noti e responsabilità oggettive)
investimento (una scelta coraggiosa di mettere insieme un po’ di soldi per farla ripartire)