La ‘didattica per competenze’ non ha alcun fondamento teorico, scientifico, epistemologico. Orienta lo scenario educativo internazionale perché alimentata da una spinta politico-economica tesa all’omologazione globale dei processi formativi funzionale ai processi produttivi del terzo millennio e dunque alla creazione di un nuovo idealtipo di studente, futuro cittadino e lavoratore. Per questo serviva una nuova pedagogia, che non esito a definire capitalista: una pedagogia che si fonda sulla naturalizzazione di questa nuova ontologia imprenditoriale, immanente e contingente. Sdradicate dalla scuola e dalla società, storia, memoria, ermeneutica, interpretazione vengono spazzate via dall’orizzonte mentale delle nuove generazioni. In questa “confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà” non sono più possibili processi di soggettivizzazione che non siano adattivi al mercato del lavoro e, in quanto tali, spietatamente selettivi e mortiferi. Possono le istituzioni politiche, che sull’istruzione si muovono di concerto con organizzazioni economiche internazionali, sostituirsi alla scienza e imporre processi di formazione e di valutazione, modalità di insegnamento/apprendimento, prassi didattiche standardizzate su scala nazionale e sovranazionale, addirittura una nuova teoria della conoscenza? E noi, noi docenti, della scuola e dell’università, possiamo accettare senza reagire l’imposizione autoritaria di un paradigma indimostrato, ma di cui è dimostrata la funzionalità economicistica, l’imposizione di dispositivi ideologici che impongono un regime veritativo che mina alle fondamenta la nostra libertà di insegnamento, la libertà di apprendimento dei nostri studenti, e che, soprattutto, pone una drammatica ipoteca sul mondo?
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Sono un’insegnante di lingua e letteratura, dunque permettetemi di partire con una citazione letteraria, tratta dal romanzo di Lewis Carroll “Alice attraverso lo specchio”:
“Non capisco che cosa lei voglia dire con ‘gloria’” disse Alice. Coccobello sorrise sprezzante:
“Naturale che non puoi capirlo finché non te lo spiego. Volevo dire: ‘ecco un argomento che taglia la testa al toro’”
“Ma ‘gloria’ non significa ‘un argomento che taglia la testa al toro’” fece osservare Alice
“Quando io mi servo di una parola” rispose con tono piuttosto sprezzante Coccobello “quella parola significa quello che pare e piace a me, né più né meno”
“Il problema è” insisté Alice “ se lei può dare alla parola dei significati così differenti”
“Il problema è” tagliò corto Coccobello “chi è il PADRONE? Ecco tutto.”
Mi pare che questo dialogo fotografi piuttosto bene una situazione storicamente ricorrente: i rapporti di potere che si instaurano tra chi possiede – gestendola – e chi utilizza – spesso subendola – la lingua e i suoi significati così come essi si radicano e si diffondono nel senso comune. Tra chi esercita l’egemonia linguistica (coniando nuove parole d’ordine, manomettendo significati consolidati dei termini, trasferendo lemmi da ambiti diversi con valori semantici nuovi) e chi ne è fruitore passivo, perché inconsapevole, perché distratto, perché manipolato dall’informazione o, non di rado, da una ricerca scientifica e da un’accademia condizionate da interessi economici o omologate da spinte culturali, dunque politiche, acriticamente accettate.
Questo, a mio avviso, è esattamente ciò che è accaduto e sta ancora accadendo con la diffusione nel mondo della scuola, sotto il profilo della riflessione teorica ma anche della gestione, del governo delle pratiche didattiche, del termine ‘competenze’ e della ‘didattica per competenze’: ovvero, la risemantizzazione in chiave pedagogica (e vedremo nel prosieguo del mio ragionamento di quale pedagogia si tratti) di una parola d’importazione, fatta oggetto di una risignificazione eteronoma rispetto al suo significato originale e pervasivamente imposta a milioni tra insegnanti e studenti con una finalità del tutto estranea alla tradizionale dimensione formativa educativa che in Occidente si attribuisce ai processi di insegnamento/apprendimento secondo i modelli dell’eredità classica configurati dal principio socratico e dalla paideia.
Un cambio di paradigma epocale, dunque, che, voglio dirlo subito, si fonda non solo su un processo top down di progressiva modifica dall’alto delle condizioni e delle prestazioni del nostro lavoro in classe (attraverso le leggi di riforma, le loro norme applicative, le circolari ministeriali, le pressioni dei dirigenti scolastici e dei responsabili dei dipartimenti, finanche dei colleghi più solerti, con l’introduzione coatta dei test di misurazione e dei certificati di valutazione delle competenze, fino all’ultima modifica degli esami di Stato al termine del primo e del secondo ciclo della scuola secondaria che va radicalmente in questa direzione) ma anche e soprattutto attraverso un processo bottom up di capillare e pervasiva diffusione dal basso del termine ‘competenze’ e delle pratiche didattiche, psicologiche e pedagogiche ad esso collegate, teso a indurre una vera e propria autoregolazione delle condotte, degli insegnanti e degli studenti. Un processo di colonizzazione biopolitica che mira ad una spontanea conformazione acritica delle condotte dei comportamenti verso le forme, le pratiche previste dal sistema e dai nuovi paradigmi pedagogici cui, purtroppo, quotidianamente assistiamo in tante, troppe scuole.
Se è vero, come notava Gramsci, che ogni questione della lingua pone un più ampio problema politico, ovvero un problema di egemonia e dominio sociale, dobbiamo comprendere fino in fondo perché e come il termine ‘competenze’ non sia affatto neutro e non ideologico, da quali ambiti disciplinari extrascolastici giunga, da chi e perché sia stato importato nel mondo della scuola e imposto con una tenacia, un’insistenza e, oserei dire, con una violenza pari, nella nostra storia, solo alle imposizioni culturali e politiche, alle leggi messe in atto nella società e nella scuola dal regime fascista nel ventennio tra le due guerre. Arrivando, e qui mi spingo ancora oltre nella mia provocazione, a intaccare gli anticorpi democratici della nostra Costituzione, che, non a caso, dichiara con forza all’articolo 33 che ‘l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento’. Sottolineo, ‘l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento’.
Ma è ancora così? Siamo ancora liberi di insegnare quelli che Franco Fortini, in una straordinaria antologia per il biennio degli istituti tecnici del 1969, chiamava ‘gli argomenti umani’? Siamo ancora liberi di procedere, lentamente e gradualmente, con i necessari tempi lunghi, insieme ai nostri studenti, in percorsi di conoscenza condivisi, significativi, formativi sul piano della riflessione, del ragionamento e dell’analisi di noi stessi e del mondo? Siamo ancora liberi di pensare in modo ‘disinteressato’, senza il giogo dell’utilitarismo, della spendibilità, della trasferibilità, del ricatto di un mercato del lavoro che inganna i nostri studenti due volte: quando impone a scuola una formazione al lavoro che spesso è fasulla e che però sempre li depriva del diritto allo studio, e quando nasconde che la repentinità dei suoi cambiamenti richiederebbe, esattamente al contrario di quanto accade, una formazione assai più astratta e speculativa, assai più tarata su quei saperi logici e filosofico-critici che proprio la dimensione teorica delle discipline – letterarie, artistiche e scientifiche – permette di attivare e stimolare.
Conoscenze ampie, non competenze minimalistiche. Dimensione simbolica, non concretismo. Percorsi di astrazione, non compiti di realtà, dove poi la realtà nel cui recinto si pretende di chiudere i nostri studenti è sempre quella economica, produttivistica e consumistica: è quella che ci vuole tutti ‘soggetti di prestazione’, attraverso le forme di un disciplinamento in cui ciascuno di noi sfrutta sé stesso perché chiamato ad essere imprenditore di sé stesso, trasformandosi in soggetto d’obbedienza.
Siamo ancora liberi di immaginare una scuola umanistica, nel senso etimologico del termine e quindi senza distinzione tra le due culture, in cui il profitto, in termini culturali e economici, non abbia diritto di cittadinanza, in cui non ci siano contabilità di debiti e crediti, in cui gli studenti prima ancora che come lavoratori, prima ancora che come cittadini, siano considerati persone, una scuola in cui si possa insegnare e imparare a vivere, come diceva Spinoza, “una vita propriamente umana”?
Perché dico questo? Perché, a mio avviso, lo spostamento forzoso del baricentro delle attività didattiche verso il concetto di ‘competenza’ sta mettendo profondamente in discussione una certa idea di scuola, una buona idea di scuola, ancorché antica o forse proprio perché antica, cancellandola per sempre. E con conseguenze, a mio avviso, devastanti, per ciascuno di noi. Perché la scuola non è un’agenzia educativa, non è un servizio messo a disposizione dalla comunità, è un’istituzione dello Stato e tutti noi, 60 milioni di italiani, ne siamo, ma non come si intende oggi nella neolingua economicistica che domina il discorso pubblico, portatori d’interesse
Vorrei innanzi tutto sgombrare il campo da una serie di equivoci con cui, volutamente, i fautori delle competenze e della neopedagogia cui alludevo all’inizio del mio ragionamento (e cioè, burocrati, legislatori, pedagogisti, accademici, intellettuali, esperti e varia umanità, addetti istituzionali nazionali e sovranazionali) legittimano le loro posizioni innovative: a scuola si fa una didattica trasmissiva, tutta incentrata sul docente e non sul discente, basata su presupposti superati, quali l’ora di lezione, la lezione frontale, la classe, l’aula. A questo, considerato vecchiume da rottamare (e teniamo presente che la migliore tradizione della rottamazione viene, in Italia, da sinistra ma si sovrappone perfettamente alle finalità anticulturali della destra) contrappongono una serie di misure moderne, spacciate come più efficaci (badate bene, spacciate come più efficaci, altra mistificazione culturale e basterebbe leggere l’ultimo libro di Susan Greenfield “Cambiamento mentale. Come le nuove tecnologie digitali stanno lasciando un’impronta sui nostri cervelli” per assumere un altro punto di vista, questo sì scientificamente fondato): la flipped classroom, il CLIL, la scomposizione del gruppo classe, il DADA, la Lim, lo smartphone e in generale le nuove tecnologie informatiche, il libro digitale autoprodotto, la didattica laboratoriale, il debate, l’insegnante come mediatore, accompagnatore, animatore digitale, attivatore di competenze attraverso appunto esperienze e compiti di realtà che nulla abbiano a che fare con la tradizione culturale, con la memoria storica e col libro.
E’ qui che si incardina, a mio avviso, l’operazione di mistificazione lessicale, concettuale, culturale e politica che sta minando la scuola italiana fin dalle fondamenta. A dispetto di un mondo che sempre più privilegia istintività, immediatezza, disintermediazione, spontaneità acritica, superficialità (e che ha trovato nei social network la perfetta espressione di questa nuova, pervasiva, dimensione dell’esistenza) la scuola italiana ha mantenuto nel tempo e con tenacia il valore della conoscenza, della cultura, del pensiero, della ricerca, dell’indagine, della speculazione e dell’esplorazione della complessità. Ma in un mondo sempre più piegato alle logiche del mercato e del profitto, di un capitalismo ferocemente estrattivo che dopo aver depredato la natura e le sue risorse attraverso lo sfruttamento della forza lavoro dei corpi umani oggi trova nelle nostre menti, nei nostri sentimenti, nelle nostre attitudini trasformate in big data nuovi pascoli da desertificare, ecco in un mondo così configurato oggi anche la scuola deve piegarsi alle logiche economiche che permeano scelte politiche scellerate. Non è, a onor del vero, una novità assoluta: la scuola ha sempre anche riprodotto l’ordine sociale vigente (basta leggere Bourdieu e Passeron o, in Italia, le ricerche degli anni Settanta sulle vestali della classe media) ma con un margine fondamentale che oggi sembra essere scomparso dall’orizzonte del nostro sguardo: l’accesso ai saperi implicava anche la critica dei saperi, la messa in discussione dell’esistente, la possibilità della scelta ideologica, che è sempre una scelta di campo, per i docenti e per gli studenti. E’ancora praticabile oggi questa scelta di campo? E’ ancora possibile oggi scegliere un proprio metodo tra i tanti? Quali sono i nostri margini? E quali le condizioni, le implicazioni, le limitazioni? Quali spazi di autonomia ci lascia a scuola il giogo delle competenze, impostoci in questi termini e con tale, diffusa, penetrante, insistenza?
La “lunga marcia delle competenze”[1] nella politica scolastica italiana parte da molto lontano, nello spazio, metaforico e geografico, e nel tempo. Il processo di colonizzazione di questo dispositivo normativo parte nel mondo anglosassone dal campo dell’organizzazione del lavoro. In Italia, il costrutto emerge “a partire dagli anni ’70 del secolo scorso soprattutto in due sfere della società – il lavoro e la formazione – e in tre campi scientifici: le scienze del lavoro, dell’organizzazione e del management; le scienze dell’educazione e dell’apprendimento; le scienze linguistiche”.[2] In un volume del 2002, Annamaria Ajello, attuale presidente dell’Invalsi, presentava il concetto di ‘competenza’ “come un cambiamento di prospettiva culturale, con il passaggio del primato delle conoscenze e della dimensione trasmissiva dell’insegnamento, delle mansioni e dei compiti predefiniti (in senso fordista e taylorista) a regimi teorici e d’azione in cui il primato è della sfera del sapere pratico in situazione e dei processi di apprendimento sociale”.[3]
Liquidato immediatamente l’unico ambito in cui ha senso parlare di competenza, quello linguistico, che è quello che tutti noi a scuola condividiamo e su cui ha senso ragionare anche nelle pratiche didattiche, accanto all’esplorazione delle competenze in ambito psicologico se ne diffonde contemporaneamente lo studio nell’ambito dei sistemi organizzativi e manageriali, investendo potentemente la sfera del lavoro, della sua organizzazione e della sua governance, anche in virtù delle nuove esigenze di figure professionali flessibili, trasferibili e non rigidamente specializzate del mondo globalizzato del terzo millennio. Dall’impresa e dal mondo produttivo è partita dunque la richiesta al mondo dell’istruzione e della formazione di un profondo adeguamento culturale e politico e la gran parte dell’accademia e della ricerca scientifica insieme a tutte le istituzioni nazionali e sovranazionali non si è sottratta (anzi vi ha trovato spazi, progetti di ricerca, rivendicazioni, ruoli, cattedre, ambiti di potere) La prima fondando su presupposti sociocostruttivisti e attivisti questo nuovo filone di ricerca teorica e empirica, peraltro oggi ampiamente superati in molti ambiti delle neuroscienze, le seconde trovando una cornice di riferimento normativo nelle raccomandazioni dell’Unione Europea e nelle indagini OCSE, di cui non è peregrino ricordare il mandato esclusivamente economico (Ocse è l’acronimo di Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico).
Insomma, che il re è nudo è sotto gli occhi di tutti. Il capitalismo contemporaneo, alle soglie di quella che viene definita la quarta rivoluzione industriale o industria 4.0, prima ha chiesto e ottenuto che la scuola diventasse una fetta di mercato come le altre (e, in Italia, questo è stato reso possibile dall’autonomia scolastica che ha trasformato la scuola in un’azienda e il preside nel suo amministratore delegato) poi ha preteso che la scuola concorresse alla realizzazione di un unico sistema sociale, fortemente modellizzato a livello globale attraverso tassonomie prescrittive (cfr. Competenze chiave di cittadinanza europee, 2006; Global Competence Model, 2006; Documento sulle competenze di cittadinanza planetaria dell’Unesco, 2016); insomma che la smettesse di perdere tempo con la cultura, con la filosofia, con la letteratura, con la scienza o con l’arte, e promuovesse competenze (per definizione trasversali e generiche) come “asset competitivi per le organizzazioni e per gli stessi individui nel passaggio attuale all’economia dell’immateriale, del digitale, dell’informazione”.[4]
Eccoci a noi: la ‘didattica per competenze’ così come la intendono Confindustria, Fondazione Agnelli, tanta università e ricerca, Invalsi e Anp non è altro che questo. Non è il ‘saper fare’ coerente con lo specifico orizzonte disciplinare che ciascuno di noi persegue quotidianamente con i propri studenti. Non è il sapere procedurale che accompagna nelle nostre attività didattiche l’approccio teorico e speculativo, fondamento induttivo o deduttivo di ogni esperienza culturale, laboratoriale e non, cognitiva e metacognitiva. E’, piuttosto, il ‘saper essere’ esecutori acritici, lavoratori addestrati a competenze basiche elementari (quali sono esattamente le 8 competenze chiave di cittadinanza prescritte dall’UE), flessibili e manipolabili, disponibili alla riconversione continua in una condizione estrema di precarietà (questo, e non altro, è il life long learning, una giostra impazzita che obbliga i giovani al business della riqualificazione continua ), lesti in un ‘problem solving’ che esclude la possibilità di rappresentare autonomamente qualunque possibile problematicità e complessità delle situazioni di vita e di lavoro, quello che Rossella Latempa mi ha insegnato a chiamare il ‘problem setting’, il ‘farsi domande’, l’unica cosa significativa e davvero interdisciplinare che possiamo insegnare ai nostri studenti per la vita.
La ‘didattica per competenze’ ministeriale e burocratica, che traduce in praxis l’ideologia neoliberista – che oggi ha bisogno dello Stato per garantire al mercato la sua libera concorrenza, la sua competitività, il suo irrefrenabile sviluppo – e non prevede quella che con Gramsci chiamiamo “la dura fatica del concetto” da cui, lentamente, nascono i saperi e la critica dei saperi, a partire dai banchi di scuola dove, in primis, quei saperi si formano, si custodiscono e si tramandano. La ‘didattica per competenze’ risponde a un’“economia pedagogica di guerra”[5], come ha recentemente affermato lo psichiatra Michel Benasayag proprio parlando di questi temi, che prevede bambini e adolescenti attrezzati con le ‘competenze’ utili per ‘competere’ in un mondo in cui ognuno è solo e la concorrenza è spietata. Bambini e adolescenti non più ‘educati’ alla convivenza, alla coabitazione, alla condivisione, attraverso percorsi di conoscenza di ampio respiro, bensì individualmente ‘armati’ per compiti specifici: le competenze servono “to perform a specific task”[6] come si conviene ai soldati di una guerra globale, centrata sulla sfida, sull’azione, sulla performance, sul risultato, sul controllo, sul traguardo, sul dominio, sull’affermazione attiva di sé sull’altro. Alla centralità del pensare, viene sostituita la centralità dell’agire. Le competenze sono comportamenti da apprendersi a scuola, sono un insieme di esecuzioni, di prestazioni, sono pratiche, individuali e sociali, tutte orientate al lavoro e all’occupabilità, intesi come finalità fondamentali dell’istruzione. “Le competenze sono disposizioni nell’agire delle persone”.[7] Dunque sono un modo di essere, che deve corrispondere all’individuo del terzo millennio: flessibile, disponibile, fungibile, trasferibile, dematerializzabile (ricordiamo che legge che ha istituito il registro elettronico a scuola si chiama “Dematerializzazione dei rapporti scuola-famiglia”). I riferimenti pedagogici all’attivismo, al cognitivismo, al sociocostruttivismo cui alludevo precedentemente sono totalmente ingannevoli, funzionali a garantire un’accettabile patina di copertura ad un inaccettabile progetto di manipolazione culturale e sociale.
E’ interessante, a questo punto e per comprendere le ulteriori implicazioni di questo processo di trasformazione epistemologica, leggere quanto sostiene l’ANP, a proposito dei nuovi esami di Stato, appena riformati come previsto dalla legge 107: “Si tratta di un cambiamento radicale che presuppone un diverso approccio didattico e culturale da parte delle scuole e che ANP considera ormai ineludibile. Apprezziamo la nuova visione, volta a superare la rigida e ormai antiquata impostazione delle discipline scolastiche, auspicando che si tratti di un effettivo preludio al complessivo rinnovamento della scuola tradizionale. Il nuovo esame rappresenta l’occasione per misurarsi con quella didattica per competenze verso la quale lo scenario educativo internazionale si orienta da molto tempo, utile ad affrontare un contesto sociale sempre più complesso”. [8]
La dichiarazione si configura come una professione di fede, l’accettazione di un dogma: nella letteratura internazionale (neurobiologica, psicologica e pedagogica) non esiste alcuna dimostrazione scientifica della necessità di conferire alle “competenze una posizione logicamente sovraordinata rispetto a conoscenze, abilità e atteggiamenti” come chiede la Fondazione Agnelli.[9] E infatti, nella stessa pagina, poche righe dopo, si ammette che “all’assenza di un robusto impianto teorico sopperisce evidentemente l’autorevolezza dell’istituzione”.
La didattica per competenze non ha alcun fondamento teorico, scientifico, epistemologico. Orienta lo scenario educativo internazionale perché alimentata da una spinta politico-economica tesa all’omologazione globale dei processi formativi funzionale ai processi produttivi del terzo millennio e dunque alla creazione di un nuovo idealtipo di studente, futuro cittadino e lavoratore. Per questo serviva una nuova pedagogia, che non esito a definire capitalista: una pedagogia che si fonda sulla naturalizzazione di questa nuova ontologia imprenditoriale, immanente e contingente. Sdradicate dalla scuola e dalla società, storia, memoria, ermeneutica, interpretazione vengono spazzate via dall’orizzonte mentale delle nuove generazioni. In questa “confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà”[10] non sono più possibili processi di soggettivizzazione che non siano adattivi al mercato del lavoro e, in quanto tali, spietatamente selettivi e mortiferi.
Concludo ponendo due domande, che vorrei fossero due interrogative retoriche ma che purtroppo non lo sono: possono le istituzioni politiche, che sull’istruzione si muovono di concerto con organizzazioni economiche internazionali, sostituirsi alla scienza e imporre processi di formazione e di valutazione, modalità di insegnamento/apprendimento, prassi didattiche standardizzate su scala nazionale e sovranazionale, addirittura una nuova teoria della conoscenza? E noi, noi docenti, della scuola e dell’università, possiamo accettare senza reagire l’imposizione autoritaria di un paradigma indimostrato, ma di cui è dimostrata la funzionalità economicistica, l’imposizione di dispositivi ideologici che impongono un regime veritativo che mina alle fondamenta la nostra libertà di insegnamento, la libertà di apprendimento dei nostri studenti, e che, soprattutto, pone una drammatica ipoteca sul mondo?
Anna Angelucci
Intervento al convegno nazionale “A scuola di competenze: verso un nuovo modello didattico. Quale?”
Gilda degli insegnanti di Vicenza e associazione docenti Articolo 33
Vicenza, 18 marzo 2019
[1] Prendo in prestito il titolo di un capitolo del libro “Le competenze. Una mappa per orientarsi” della Fondazione Agnelli, a cura di L. Benadusi e S. Molina, pubblicato da Il Mulino nel 2018
[2] L. Benadusi, S. Molina, op. cit., p. 11
[3] L. Benadusi, S. Molina, op. cit., p. 14
[4] L. Benadusi, S. Molina, op. cit., p. 31
[5] la Repubblica, 21 gennaio 2019
[6] L. Benadusi, S. Molina, op. cit., p. 38
[7] L. Benadusi, S. Molina, op. cit., p. 44
[8] https://www.anp.it/il-miur-pubblica-le-materie-della-seconda-prova-per-lesame-di-stato/
[9] L. Benadusi, S. Molina, op. cit., p. 18
[10] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia nella società industriale avanzata, Einaudi, 1968, p. 21
Sì dottoressa Angelucci possono, possono e come. È lo stesso sistema democratico che lo permette e lo desidera. Allargamento, appiattimento, controllo. La scuola come tale non è libera di fare un bel nulla, e il crollo del sistema universitario mi pare fondato sul suo slittamento su posizioni di scuola terziaria superiore, a integrare il percorso standard indifferenziato: tranne il liceo classico gli altri istituti sono varianti brutte della high school americana; luoghi dove si impara a integrare l’emoticon con il discorso diretto. Ci si infarina. Non serve niente di più dopo tre anni di parcheggio in quella non scuola che sono le medie. Si può girare in torno ad ogni questione, mostrare e dimostrare, ma mi pare che le cose siano degenerate al punto che chiudere le scuole sarebbe la migliore delle soluzioni al rapporto tra potere politico delegato e scuola. Peraltro la scuola, lei lo sa, è terreno d’invasione di altri poteri, in Italia quello della chiesa cattolica e del cattolicesimo immanente. Oggi anche di cavallette genitori, associazioni, gruppi, balorderie, ribalderie. Glielo dico da insegnante in pensione. Tiri avanti come può, finchè può, accumulando tempo e punti per andarsene. Cerchi di tener duro in aula; io ho fatto così, neglii ultimi anni, osservadno il bradisismo del mio istituto, oh una scuola d’eccellenza dicono, un conservatorio; ma non si illuda. Per due allievi che la seguiranno ce ne saranno cento che della scuola centro commerciale saranno soddisfatti. I cento li lasci perdere, la scuola non è un campo di evangelizzazione. I cinesi sostituiranno tutti. La loro scuola è per tutti a patto di accettarne la durezza. So di che parlo. Cordialità D’Ascola
Ho trovato molto faticoso seguire l’approccio ideologizzato di questo articolo, laddove è invece necessario entrare nel merito delle teorie usate e proposte. Se ci sono descrizioni e interpretazioni inadeguate dei modelli pedagogici da parte dello stesso Ministero o dell’INVALSI non per questo si deve adottare una logica complottista: si studino e si propagandino gli approcci corretti, invece.
Stiamo parlando di educazione, formazione, è ovvio che debba parlare di conoscenze, abilità, attitudini e competenze, e non di lunghezza, massa, carica elettrica, ecc. Va bene, non ho letto il libro della Fondazione Agnelli ma ho letto dell’altra letteratura internazionale ben comprensibile e accettabile.
Condivido pienamente l’analisi di Anna Angelucci.
Una didattica incentrata sulle cosiddette competenze è funzionale alla trasformazione della scuola da spazio di elaborazione critica a luogo di utilizzo di strumenti pensati da altri. Ciò che è in gioco non è un qualche consolidato metodo didattico; è in gioco – né più né meno – la libertà intellettuale e la capacità progettuale delle nuove generazioni. Mediante il proliferare della miriade di “educazioni”; mediante l’enorme perdita di tempo costituita dall’alternanza scuola-lavoro; attraverso l’abitudine da quest’ultima instillata a offrire gratuitamente il proprio lavoro, la scuola diventa la cinghia di trasmissione dei programmi confindustriali, volti a creare soltanto quadri esecutivi, incapaci di quella critica dell’esistente che è il portato più fecondo della storia europea.
Forse ho studiato in scuole già distrutte dall’inarrestabile avanzata del capitalismo, ma non ho grandi ricordi di scuole come ‘spazi di elaborazione critica’.
Non ricordo sia mai stata chiesta (nè a me, nè ai miei compagni) la mia idea sulle cause dell’ascesa di Napoleone, dell’indipendenza degli Stati Uniti o del crollo del Muro di Berlino (che d’altronde veniva a malapena menzionato nei testi).
Addirittura materie come storia dell’arte non prevedevano commenti personali sul quadro o sull’artista, ma solo ripetere quello che generazioni di critici e accademici avevano già scolpito nella pietra.
Dove sarebbe l’enorme successo del liceo dei bei tempi andati, che a me ha insegnato solo che avrei fatto molto meglio a cercare altrove le nozioni che mi interessavano?
In cosa consisterebbe, di grazia, la famosa “elasticità mentale” acquisita attraverso lo studio del greco e del latino*? E perchè gli studenti, compresi quei postadolescenti ancora ferrati nelle arti arcane dell’aoristo, del più che perfetto e delle formule di prostaferesi si trovano (e si sono forse sempre trovati) in difficoltà nel decidere come analizzare (dal punto di vista statistico, s’intende) dei dati sperimentali?
No, la scuola italiana non è probabilmente mai stata “spazio di elaborazione critica”, ed è triste che questo mito venga ripetuto qui, e che si parli di un’età d’oro dell’educazione italiana ormai persa.
*Avessero studiato russo ed ebraico avrebbero potuto aggiungerlo al CV. E avrebbero (forse) i vantaggi dovuti all’esercizio e sforzo mentale necessari per far convivere sotto lo stesso cranio lingue con storie, sintassi, morfologie così diverse
Premetto che non sono pienamente d’accordo con l’autrice dell’articolo. Mi pare che sia eccessivamente chiusa su se stessa
Mi rendo perfettamente conto però che la propria esperienza personale sia estremamente limitante se usata per considerazioni di carattere generale sul sistema scolastico-educativo (lo spiega bene Elio e le Storie tese con “mio cuggggino”).
Quello che si può trarre dalla sua esperienza purtroppo è solo, come dice lei, che forse avrebbe fatto molto meglio a cercare altrove le nozioni che la interessavano.
Elasticità mentale dal latino? È utile almeno per capire quali termini utilizzare con cognizione di causa, per fare bella figura oppure, per rimanere inchiodati al suo orizzonte, che può tornare estremamente utile se non si vuole restare a vita un semplice schiavetto che esegue gli ordini del capo a 7€/ora.
Infatti nel suo commento si intravede, ad esempio con la storiella del CV, tutto il successo di quella logica neoliberista che si è affermata nella scuola e finanche nell’università, ridefinendo questi spazi culturali, dove dovrebbero moltiplicarsi le domande, in funzione di semplice collocamento di manodopera del terzo millennio, possibilmente a basso costo.
Cordialmente
Condivido lo spirito dell’analisi ma anche il commento di Renzo Rubele.
E difficile non esser critici con certe tendenze preoccupanti travestite da modernismo pedagogico. Tuttavia non ritengo che si faccia un buon servizio alla causa del miglioramento del sistema educativo se si sta sempre a guardare indietro ad un mitico passato che poi, a ben guardare è stato l’ incubatoio del presente.
Occore invece, in modo laico, guardare ai micro e macro problemi. Comprendendo che certe esagerazioni degli “evangelizzatori” di turno sono puro fumo, ma anche che molte cose non possono essere uguali a quanto si faceva 50 o 100 anni fa. Una flipped classroom, una LIM, uno smartphone, possonon essere slogan ideologici vuoti e funzionali al depotenziamento del sistema educativo, ma possono anche essere strumenti diversi per una didattica di qualità. Non sono gli strumenti buoni o cattivi, ma l’ uso che se ne fa. Rifiutare a priori tutto in blocco, non vedere che in qualsiasi sistema educativo si concorda su certi standard minimi, aiuta soltanto i veri nemici dell’ istruzione universale di qualità (che ci sono e non è complottismo, basta leggere documenti pubblici) a liquidare qualsiasi critica come ideologica, senza entrare nel merito.
Su questi temi segnalo il libro ”L’agonia della scuola italiana” di Massimo Bontempelli, pubblicato nel 2000 dalla Editrice C.R.T. © 2000 by Editrice C.R.T.
Il capitolo sesto è riprodotto in questo sito:
telegra.ph/Lagonia-della-scuola-italiana-10-26
Sono d’accordo che e’ importante ragionare sulla scuola italiana ma mi sembra che ci siano pochi riferimenti a pensatori di pesi italiani (a parte Gramsci).
Io, pur con la mia limitatissima conoscenza (e competenza) nel campo della pedagogia, penso sarebbe stato utile ricordare almeno Aristide Gabelli per il periodo risorgimentale – che lavoro’ per incentivare il pensiero critico da parte degli studenti – Croce e Gentile – autori della riforma della scuola, che in buona misura e’ ancora in auge – Beniamino Brocca – che fu fautore di una ricchissima sperimentazione, poi abolita – Giuseppe Bertagna – che imposto’ la riforma Moratti.
Insomma non sono solo delle ideologie ma anche delle persone (autori di libri) quelle che hanno dato contributi importanti alla scuola come e’ adesso, e penso che sarebbe auspicabile che il dibattito esaminasse le idee di quelle persone, e desse poi loro una risposta adeguata, invece di muovere da categorie troppo generali o astratte.
Includo qui in seguito una riflessione sul liceo scientifico, proposta agli studenti e ai docenti di una scuola italiana,
https://www.slideshare.net/FrancescoVissani/sulleducazione-scientifica-nella-scuola-superiore-dallunita-ditalia-in-poi-di-francesco-vissani-136334162?qid=347e4d6c-16a0-4db1-83b0-a0e0ba0f69ce&v=&b=&from_search=3
dalla quale vorrei trarre il seguente auspicio di uno dei piu’ grandi dei nostri scienziati,
“I padri ce li affidano perché noi ne formiamo degli uomini atti a comprendere la vita di cui oggi vivono le nazioni e a parteciparvi. Se noi non teniamo conto di queste esigenze, se noi per amore della cultura soffochiamo in questi discepoli il senso pratico e lo spirito d’iniziativa, noi manchiamo al maggiore dei nostri doveri.”
Guido Castelnuovo 1912, intervento nella conferenza “La scuola nei suoi rapporti con la vita e la scienza moderna”.
S T U P E N D O intervento. Sarebbe da proporre come nuovo manifesto dell’istruzione in Italia. Grazie!
Gentilissima Autrice,
è chiaro che lei non possa conoscere la letteratura scientifica sulle competenze, considerato che non è una pedagogista e che sbaglia a reperire fonti ed evidenze, oltre che tutti i repertori di meta-analisi a cui riferirsi. La letteratura da richiamare infatti è quella sulla padronanza, che ha una ampia e lunga tradizione internazionale e nazionale. Come studiosa di pedagogia sperimentale le consiglio letture maggiormente approfondite e fondate su prove, come ogni scienza che si rispetti richiede. Non amo esprimermi di solito su questi teme e non in senso così generale, lasciando messaggi di questo tipo, ma, in questo caso, preferisco farlo per evitare che il senso comune continui a pervadere anche il sentimento di coloro che si definiscono scienziati. Il problema è che la scienza richiede robustezza metodologica e rigore, nonché limpidezza di pensiero e di azione.
Un caro saluto
Ma siamo sicuri che i vari attori che hanno sponsorizzato la didattica per competenze siano tanto più robusti metodologicamente e più rigorosi di Anna Angelucci?
Lo scienziato non può , secondo me, non vedere, oltre a riferimenti sbagliati alle fonti, anche l’uso politico del “suo” sapere. Poi, da fisico alquanto teorico, osservo che oltre alle letture approfondite, talvolta il contatto con la realtà può riservare interessanti sorprese.
Avendo noi l’anello al naso saremmo curiosi di sapere:
1. un po’ di riferimenti sulla letteratura scientifica sulle competenze che l’autrice ignora
2. quali sono le fonti ed evidenze sbagliate
3. quali sono i repertori di meta-analisi a cui riferisi.
4. quali sono le ” letture maggiormente approfondite e fondate su prove” della “pedagogia sperimentale”.
Grazie del disturbo eh !
Per correttezza mi firmo per esteso
Antonella Nuzzaci
Gentilissimo,
come ho già scritto, questo modo alquanto ironico non fa parte del mio stile accademico, ma comprendo che, in questo clima, si senta sempre più il bisogno di esprimersi in modo tale da portare dalla propria parte i lettori, anziché scegliere di affidarsi a forme di testo argomentativo. Non mi interessa in questa sede né fornire evidenze né consigliare letture, ma limitarmi solo a darle qualche indizio per avviare il suo studio, che sarà certamente molto proficuo: J. B. Carroll. Per il resto ognuno si occupi del proprio settore e prima di parlare si documenti. Rimango a disposizione per qualunque forma di confronto scientifico, che non sia di questo genere. Le comunico che non intendo continuare la conversazione.
Ringraziandola per l’attenzione, le porgo un caro saluto e le auguro una buona domenica
Antonella Nuzzaci
Antone
Non c’era assolutamente nulla di ironico nel mio commento: prendo atto che lei non sa rispondere ai punti 1-4. Buono a sapersi, anche se non ne sono affatto sorpreso. Buon proseguimento nella bolla.
ps davvero notevole da parte di una pedagogista venire a dire “è tutto sbagliato non sapete niente andate a studiare”: potrebbe essere una battuta del tipo “Sai qual è il colmo di un pedagogista?”
“Per il resto ognuno si occupi del proprio settore e prima di parlare si documenti.”
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Non disturbiamo il manovratore pedagogico, insomma. Solo che non stiamo parlando dei dettagli tecnici per costruire un acquedotto, ma della direzione che si vuole dare al sistema educativo che istruisce e forma i futuri cittadini. Un po’ difficile pensare che sia una questione settoriale da lasciare ai soli “esperti” che, se chiamati in causa, ti dicono che ognuno deve occuparsi del suo proprio settore senza immischiarsi in cose che non lo riguardano. In effetti, che diritto abbiamo a occuparci della visione a cui è improntata l’istruzione dei cittadini e dei nostri figli? La risposta di Antnuz sembra la miglior testimonianza possibile della deriva in atto e della correttezza della diagnosi contenuta nell’articolo.
Gentile Antonella Nuzzaci
l’ironia può ferire, ma ferite più profonde sono causate proprio dal pedagogismo, che ha conquistato il ministero della pubblica istruzione, e non solo in Italia.
Un albero si riconosce dai suoi frutti, ha scritto più o meno Matteo.
Guardiamoci un momento intorno, per vedere quali sono i frutti del pedagogismo.
Nelle scuole assistiamo a una epidemia di “dislessie”, ”discalculie”, ”disgrafie”, ”disortografie” e altri strani disturbi moderni di cui, guarda caso, un tempo non si sentiva parlare. Tutte queste “malattia inventate” richiedono, guarda caso, l’intervento di nutrite squadre di specialisti in pedagogia o, peggio, di farmaci.
Qui si trova una interessenta discussione.
http://www.ccdu.org/comunicati/inventore-adhd-malattia-fittizia
Se si vuole eliminare il sintomo, bisogna eliminare la sua causa, non ribadirla.
Ad esempio, la grafia degli studenti e` diventata incomprensibile, perché, come è stato documentato da Giorgio Israel, e come può essere verificato da chiunque sia a contatto con giovani studenti, nelle scuole non fanno più fare le ”paginette” di calligrafia.
Cito da una lettera, firmata anche da me, pubblicata pochi giorni fa su questo sito:
”Il timore pedagogico dell’astratto ha creato disastri irreparabili perfino nelle scuole elementari: molti imputano al metodo globale di apprendimento della scrittura la maggior parte delle attuali dislessie. Cfr. per esempio http://www.orizzontescuola.it/dsa-lorigine-sarebbe-colpa-dal-metodo-insegnamento-nei-primi-anni-scuola/, oppure le testimonianze contenute in http://www.pensareoltre.org/index.php/it/approfondire/206-disturbi-pensareoltre-intorno-al-metodo-globale.
Eccetera.
Mi permetto di dire ”eccetera” perché numerosi e ben documentati libri hanno trattato e illustrato questi fatti: G. Israel ”Chi sono i nemici della scienza?”; L. Russo ”Segmenti e bastoncini”; M. Bontempelli ”L’agonia della scuola italiana” e ”Un pensiero presente” e alcuni volumi monografici di ”Koiné”, rivista pubblicata da C.R.T., ora La Petite Plaisance, a cura di Carmine Fiorillo. Qualche giorno fa roars ha pubblicato una lettera, firmata anche da me, su questi temi.
In breve: se il pedagogismo ha prodotto questi risultati, non è forse il caso di fermare tutto e chiedersi se forse, visto che produce questi effetti, non ci sia qualcosa che non funziona nella sua impalcatura e nei suoi metodi? se il pedagogismo, dopo aver conquistato i ministeri della pubblica istruzione, non solo in Italia, ha prodotto i risultati che sono evidenti a tutti coloro che hanno a cuore la scuola, non è forse il caso che faccia qualche passo indietro?
Comprendo che l’ironia possa averLa ferita, ma le ferite sociali prodotte dal pedagogismo sono molto più dannose.
Se qualcuno chiedesse conto a un matematico della utilità sociale degli astrusi simboli che scrive sul quaderno, la risposta sarebbe semplice: basta guardarsi intorno. Con il pedagogismo la situazione è simile, quasi un mutatis mutandis, ma bisogna cambiare una parola: basta cambiare ”utilità” con ”dannosità”.
A proposito di epidemie, recentemente Burioni, in un altro contesto, ha scritto “crescita logaritmica”, quando voleva dire proprio l’opposto! in risposta ha chi gli ha fatto notare l’errore, ha risposto che gli interessava la parola, non la matematica. A me non interessano le parole, come a Burioni, ma l’educazione dei giovani. Ecco: il pedagogismo ha prodotto disastri. Se l’albero si riconosce dal frutto, è arrivato il momento di tagliarlo. Una volta la pedagogia in Italia annoverava tra i suoi esponenti uomini in grado di tradurre Kant nella nostra lingua. Oggi il pedagogismo ha prodotto un disastro educativo che è sotto gli occhi di coloro che vogliono tenerli aperti.
Mi ritrovo spesso nelle discussioni sull’ argomento, nella difficile posizione di chi, nelle periodiche riedizioni delle querelles des anciens et des modernes vede sì le derive e le esagerazioni dei “modernes” ma anche l’insostenibilità delle posizioni degli “anciens”. Se i “modernes” in campo del pedagogismo (che è ormai sinonimo di degenerazione della pedagodia) suscitano perplessità, soprattutto quando cadono nella più cieca autoreferenzialità, deresponsabilizzandosi rispetto all’uso politico dei propri saperi, non è che la soluzione degli anciens sia tanto più convincente. Il compianto Israel e Lucio Russo di “Segmenti e bastoncini”, oltre a dire diverse cose condivisibili, ignorano alcuni aspetti di ciò di cui parlano e soprattutto non riescono a cogliere l’insostenibilità, nel mondo attuale di quel modello aristocratico che rimpiangono.
Banalizzare i problemi di grafia al non fare più paginette di calligrafia, o parlare di “strani disturbi moderni” non convincerà nessun esperto di pedagogia di avere davanti un interlocutore serio e soprattutto non serve a correggere di un pelo i problemi che si denunciano.
A chi si scaglia contro il pedagogismo ritenendolo unica causa dell’ emergenza educativa chiedo: siamo proprio sicuri di affrontare il problema prioritario? Prima delle mode pedagogiche, non vengono la “struttura” e gli “investimenti” nel sistema educativo? Questi, con le diverse scuole pedagogiche hanno poco a che fare. Nella pratica scolastica, un dirigente che ha sposato la visione aziendalistica della propria posizione, le famiglie che hanno assorbito l’idea del diritto alla promozione a prescindere, la difficoltà strutturale di far emergere le vere carenze nelle situazioni concrete, fanno molti più danni. Per non parlare del mancato investimento ormai cinquantennale, in risorse materiali per la Scuola e metodi efficienti di formazione iniziale ed in itinere degli insegnanti. Tutto ciò ha fatto e sta facendo i veri disastri. Ma la soluzione non verrà dalle querelles sui mali del pedagogismo, anche se in molti, sia anciens, sia modernes, trovano più comodo insistervi.
Non mi sembra una situazione troppo diversa da quella dell’università. Il problema certamente sono i finanziamenti, ma certamente una valutazione malfatta non può che peggiorare le cose perchè nasconde dietro una sorta di peudoscienza decisioni politiche.
Caro Giorgio grazie per il commento che condivido completamente.
Ho l’impressione che non si facciano abbastanza sforzi per distinguere tra situazioni diverse. Per esempio, sto sfogliando il libro di J. B. Carroll — ringrazio Antonella per averlo segnalato. Da quanto capisco, si tratta di problemi principalmente relativi all’educazione alla parola ed alla lingua, che e’ un punto importantissimo (sarei contento di saperne di piu’ da lei e da chiunque fosse competente a commentarlo, mentre non capisco il bisogno di schierarsi per il combattimento). Ma comunque, non mi sembra che siano discussioni direttamente o immediatamente sovrapponibili ai bisogni e alle esigenze di un educazione alla scienza (parlo di chimica, matematica, fisica, informatica, ingegneria, geologia, metereologia…) che sono cose sempre piu’ importanti nel mondo in cui viviamo. Sono problemi diversi e rilevanti, e scusate se sposto l’attenzione a questo aspetto specifico, ma ce l’ho molto a cuore.
Sempre a proposito del mantra “competenze non conoscenze”, riporto una buffa testimonianza personale. Discutendo con un dirigente di scuola superiore mio amico, arrivammo al dunque quando mi chiese, prendendo in mano il suo telefonino: “Perche’ dovremmo appesantire inutilmente l’educazione quando abbiamo tutti uno strumento del genere in mano? Chiedimi una cosa qualsiasi, te lo voglio proprio dimostrare.” La mia domanda fu “Quant’e’ l’integrale di cos(x)?” e questo servi’ se non altro per mettere a fuoco il punto. Aggiunsi qualcosa del genere: “Mi sembra che insistere sull’opposizione conoscenze vs competenze sia creare steccati, perdersi in un falso problema, a danno di tutti.”
Insomma, credo che bisognerebbe partire da atteggiamenti come quelli di Guido Castelnuovo che ho riportato poco sopra, o quelli di sua figlia Emma, e soprattutto essere capaci di credere in una scuola che abbia un’idea alta della democrazia – rispetto e considerazione per gli studenti, per gli insegnanti, e per chi fa del suo meglio, nei modi in cui lo fa. Avere la pazienza di parlare di conoscere di alzare l’asticella della discussione.
PS Approfitto per ringraziare Fausto. Mi ero perso l’uscita di Burioni, che ho avuto il piacere di conoscere qualche anno fa, e se tante volte ci leggesse vorrei dirgli questo “Ammettere di aver detto una scemenza significa non significa perdere autorevolezza, ma testimoniare il desiderio di cercare la verita’, e quello di offrire rispetto a chi ci prova a farlo”