Riceviamo e volentieri pubblichiamo il seguente documento promosso da Gabriele Anzellotti (Univ. Trento), Luciano Benadusi (Univ. Roma La Sapienza), Stefano Boffo (Univ. Napoli Federico II), Giliberto Capano (Univ. Bologna), Alessandro Cavalli (Univ. Pavia), Fulvio Esposito (Univ. Camerino), Alessandro Figà Talamanca (Univ. Roma La Sapienza), Giunio Luzzatto (Univ. Genova), Guido Martinotti (Univ. Milano Bicocca), Roberto Moscati (Univ. Milano Bicocca), Dino Rizzi (Univ. Venezia), Michele Rostan (Univ. Pavia), Andrea Stella (Univ. Padova), Massimiliano Vaira (Univ. Pavia)
Politici e editorialisti che propagandavano l’esigenza di “abolire il valore legale del titolo di studio” non hanno mai chiarito di che cosa stessero effettivamente parlando. Per quanto riguarda i politici, di ciò vi è una prova istituzionale: i disegni di legge sul tema presentati in Parlamento, nella passata e nella presente legislatura, non dicono che cosa si dovrebbe abolire e sono tutti formulati come mera delega al governo, il quale dovrebbe scoprire che cosa deve essere fatto per realizzare l’obiettivo, che i testi presentano solo come slogan. Va comunque rilevato che i presentatori, forse consapevoli della vacuità dei testi stessi, non ne hanno mai chiesto la discussione.
Vi è ora la possibilità di porre la discussione su un terreno più concreto. A tal fine, un primo strumento prezioso è stato fornito dal Senato della Repubblica, con una indagine conoscitiva svolta dalla VII Commissione, conclusa dal documento approvato il 1°/2/2012, e con l’ampio e puntuale Dossier di documentazione (anche comparata) elaborato dagli Uffici del Senato stesso.
Una seconda opportunità è offerta dalla consultazione ministeriale attualmente aperta in rete. Vi sono alcune imperfezioni metodologiche nell’organizzazione del questionario, ma le polemiche a questo proposito ci paiono eccessive. Nelle premesse al questionario il MIUR indica l’uso che verrà fatto dei risultati, che rappresentano non certo un referendum (a differenza di quanto hanno scritto alcuni giornali), ma una acquisizione di opinioni; queste verranno tutte rese pubbliche, ad eccezione di quelle di chi chieda il contrario.
Proprio perché questa consultazione dà a tutti la possibilità di esprimersi, riteniamo perciò utile intervenire sul tema con qualche considerazione generale e con alcune osservazioni specifiche sui 15 quesiti; in queste ultime, oltre a individuare quali risposte appaiano coerenti con le considerazioni generali, segnaliamo qualche punto discutibile in formulazioni presenti nel questionario o nelle motivazioni che in esso accompagnano alcune risposte. E’ utile precisare che ci riferiremo ai titoli universitari.
Qualche considerazione generale
Il punto di partenza per le nostre considerazioni è estremamente semplice: il valore legale di un titolo di studio non è altro che l’indicazione di esso come condizione necessaria per l’accesso a un concorso pubblico o agli esami di Stato per una abilitazione professionale.
Una condizione necessaria non va confusa con una sufficiente; e, nel nostro caso, il certificato di laurea non assicura la vincita del concorso o il conferimento dell’abilitazione. Chi lancia lo slogan dell’abolizione ignora questa differenza, e non propone perciò soluzioni vere a problemi e insufficienze talora giustamente evidenziati. Ricordiamo alcuni tra questi: – vi è molta difformità tra la qualità dell’offerta universitaria da parte di università diverse, e anche all’interno dello stesso Ateneo; – sono state istituite e autorizzate, soprattutto (ma non solo) quali università telematiche o quali poli decentrati di Atenei esistenti, sedi meramente didattiche, prive della consistenza scientifica che una università deve avere; – i voti conferiti in atenei diversi non sono comparabili; – competere in una logica di mercato spinge all’impegno, mentre il “valore legale” porta all’appiattimento. Si tratta di trovare risposte concrete a queste e ad altre domande; cerchiamo qui di indicare, attraverso punti schematicamente enunciati, una linea direttrice, sulla cui traccia ci muoveremo nelle risposte ai 15 quesiti ministeriali.
Nell’interesse dell’utenza, lo Stato deve verificare che ciò che viene presentato come titolo universitario abbia un livello adeguato. L’obiettivo è perciò una valida procedura di accreditamento. Questa strada è comune a quasi tutti i Paesi europei; nel ricordato documento della VII Commissione del Senato si rileva addirittura che, attraverso le procedure di assicurazione della qualità sviluppate nell’ambito del “processo di Bologna”, «tale processo di armonizzazione dei sistemi di istruzione … potrebbe portare in un futuro non lontano ad una sorta di formale riconoscimento europeo dei titoli di studio nazionali, ovviamente basato sugli accreditamenti e sulle valutazioni delle Agenzie nazionali di valutazione, coordinate dall’ENQA». E’ un “valore legale” europeo. Nel caso delle professioni regolamentate in sede europea tale valore esiste già, e una eventuale “abolizione” violerebbe precise Direttive dell’Unione.
Nel sistema italiano, l’accreditamento equivale all’autorizzazione all’attivazione del Corso di studio; e non avrebbe senso che lo Stato da un lato autorizzasse lo svolgimento di un Corso, ma d’altro lato ne negasse il valore. Da poche settimane è ora in vigore il DLgs. 19 (27/1/2012), che affida all’ANVUR il compito non solo dell’accreditamento iniziale, ma anche di quello periodico e di pregnanti procedure di valutazione; un esercizio puntuale di queste funzioni rappresenta lo strumento principale per giungere alla qualificazione complessiva dell’offerta formativa delle università e non alla distinzione tra Corsi validi e altri invalidi ma autorizzati anch’essi.
L’accreditamento, cioè la garanzia di uno standard di base, non determina ovviamente identità delle caratteristiche dell’offerta formativa, anche perché la normativa sulle Classi dei Corsi di studio lascia giustamente congrui margini all’autonomia didattica degli Atenei. E’ perciò normale che, in aggiunta al titolo di ammissione, vengano previste prove: nei concorsi della Pubblica Amministrazione (P.A.) per selezionare i candidati migliori, nel conferimento dell’abilitazione per verificare la presenza di quelle competenze che sono specificamente necessarie ai fini di una determinata professione. E’ necessario che alla qualità di tali prove venga destinata una attenzione che finora è spesso mancata.
Fino a quando non sarà consolidato un convincente sistema di accreditamento e di valutazione, ai firmatari di questo scritto appare ragionevole che nei concorsi pubblici il peso delle prove sia nettamente prevalente rispetto alla utilizzazione di risultati connessi alla carriera universitaria. Alcuni tra noi ritengono che questa utilizzazione, pur ridotta, non deve essere soppressa, sia perché ciò darebbe un potere assoluto alla Commissione esaminatrice, sia perché anche nell’ipotesi di prove ben strutturate i risultati di una valutazione episodica non possono avere una affidabilità tale da far ignorare l’ampio insieme di valutazioni acquisite lungo anni di studi; vanno però corretti i vizi connessi all’attribuzione di un punteggio al voto riportato nella laurea e/o negli esami (attribuzione che spesso induce le università ad una specie di dumping valutativo), e viene quindi proposto di utilizzare sistematicamente, come in molti Paesi, il sistema dei decili, che certifica per ogni studente in quale fascia egli si colloca all’interno della coorte di appartenenza (nel 10% più alto, nel secondo, etc.). Altri tra noi ritengono invece che alla carriera universitaria non dovrebbe essere attribuita alcuna valutazione, poiché le votazioni universitarie devono avere solo un valore “accademico” e non anche uno “civile”; la maggiore validità del sistema dei decili rispetto a quello dei voti viene riconosciuta, ma si ritiene che esso non sia sufficiente per evitare l’uso improprio dei risultati della carriera universitaria, e che comunque esso andrebbe adeguatamente studiato prima di implementarlo. Su questa esigenza di attenta elaborazione siamo tutti concordi.
Quanto più all’interno delle procedure di selezione hanno peso prove ad hoc, tanto meno si giustificano immotivate restrizioni circa il titolo di accesso,in termini sia verticali (laurea di 1° o di 2° livello) sia orizzontali (“classe” di appartenenza); occorre perciò un netto ribaltamento rispetto alle scelte restrittive attualmente adottate sotto la pressione di forti spinte corporative. Queste (situazione verticale) hanno indotto a imporre il requisito della Laurea Magistrale (LM) anche quando non necessario (Quando per l’accesso alla P.A. si richiede una laurea, precise Direttive del Ministero della Funzione Pubblica stabiliscono che questa debba essere quella di 1° livello, salvo che nel caso della dirigenza; la maggior parte dei bandi ignora tali Direttive e pretende la LM. Nella stessa logica, si è imposta la LM quale requisito per l’accesso al percorso di formazione degli insegnanti secondari, che risultava perciò di ben sette anni in presenza della SSIS e risulterà di sei quando sarà attivato il nuovo corso TFA.) e a limitare drasticamente, negli Ordini professionali, le funzioni esercitabili da parte degli iscritti “junior”; hanno altresì teso (situazione orizzontale) a riservare in esclusiva determinate carriere ai laureati di una sola Classe, anche quando le competenze necessarie possono essere ampiamente presenti in laureati di altre.
Va inoltre decisamente contrastata la diffusa tendenza a conferire di fatto un valore legale a titoli diversi da quelli ai quali esso è attribuito. L’esempio più evidente è quello dei Master universitari; non vi è alcuna normativa che ne regolamenta i percorsi né alcuna procedura che li accredita, e dovrebbe trattarsi perciò del tipico caso in cui il valore è esclusivamente legato all’apprezzamento, sul mercato del lavoro, delle competenze che un Master ha fornito. Si vanno invece estendendo i casi in cui al mero possesso di esso vengono attribuiti punteggi, talora consistenti.
Va rilevato, infine, che nella discussione delle questioni qui esaminate si fanno frequenti riferimenti alla valutazione dei candidati, sia dopo la laurea (prove di pubblici concorsi o di Esami di Stato), sia nel corso degli studi. Ogni affermazione sull’utilizzazione dei risultati di tale valutazione dovrebbe essere strettamente correlata a una analisi dettagliata delle procedure attraverso le quali alla valutazione si giunge, ed eventualmente a proposte sui possibili miglioramenti delle procedure stesse.
I quindici quesiti
Tematica I: Accesso alle professioni regolamentate
Il termine “professioni regolamentate” è ambiguo. Ad alcune (poche) si applicano precise Direttive europee, in molti altri casi l’Ordine professionale è introdotto solo da norme nazionali. Per alcuni quesiti, vi sono ragioni per dare risposte diverse nelle due situazioni.
1)Come giudicate la necessità di possedere uno specifico titolo di studio per poter esercitare una determinata professione?
Il titolo occorre certo, ma in relazione alla presenza dell’aggettivo “specifico” vi sono buoni motivi per rispondere “Dipende”. Dove vi è la normativa europea essa prevede il riferimento a un titolo ben determinato; per le professioni normate a livello nazionale va verificato invece caso per caso se il riferimento deve essere a una sola Classe di lauree, ovvero a una pluralità di Classi. Quanto più le prove per l’accesso alla professione sono in grado di verificare le specifiche competenze necessarie, tanto meno è motivato il restringere ad una sola Classe il diritto all’accesso.
2)Come valutate la necessità di possedere uno specifico titolo di studio per l’ammissione all’esame di abilitazione per l’esercizio di una professione?
L’ipotesi di una abilitazione senza titolo di studio sembra improponibile; circa la “specificità, v. al precedente quesito 1). La risposta “Dipende dal tipo di professione” consente inoltre di indicare eventuali casi in cui si ritenga inopportuna la richiesta, attualmente prevista, di un Ordine professionale (ad esempio, quello dei giornalisti è stato messo spesso in discussione).
3)Ritenete che vi siano professioni non regolamentate, per le quali dovrebbe essere richiesto uno specifico titolo di studio, attualmente non necessario?
Se si ritiene che si tratti di ridurre e non di incrementare non è sufficiente rispondere negativamente, poiché qui si prevedono solo nuovi Ordini, non l’eventuale soppressione di alcuni esistenti; da ciò la segnalazione richiamata nel quesito 2).
4)Ritenete che vi siano professioni per le quali il titolo di studio oggi richiesto sia eccessivo rispetto al tipo di prestazione che si è chiamati a svolgere?
Si può chiarire che è ragionevole che vi siano professioni per le quali sono previste funzioni differenziate per laureati di primo livello e di secondo livello, ma che in molti casi le funzioni attribuite ai laureati di primo livello sono state eccessivamente limitate.
Tematica II: Pubblico Impiego
5)Ritenete necessario il possesso di uno specifico titolo di studio per l’accesso al pubblico impiego?
Come per il quesito 1), il titolo occorre certo, ma in relazione alla presenza dell’aggettivo “specifico” vi sono buoni motivi per rispondere “Dipende”. E’ certo vero che l’obbligo del titolo riduce la discrezionalità, ma va anche detto che deve essere verificato caso per caso se il riferimento deve essere a una sola Classe di lauree, ovvero a una pluralità di Classi. Quanto più le prove concorsuali sono in grado di verificare le specifiche competenze necessarie, tanto meno è motivato il restringere ad una sola Classe il diritto all’accesso.
6)Ritenete necessario il conseguimento di un voto elevato, all’esito del percorso di studi svolto, per partecipare ai concorsi per l’accesso ad alcune tipologie di impiego/qualifiche nella pubblica amministrazione?
Sulla base delle precedenti considerazioni generali, sembra ovvio che la risposta debba essere negativa, ma la motivazione che nel questionario viene collegata alla risposta No non appare convincente. Il motivo più forte (v. anche quesito 7) è che i voti acquisiti in università diverse non sono comparabili; inoltre, l’esistenza di una soglia nei concorsi induce spesso gli esaminatori universitari ad alzare i punteggi per “buonismo”.
7)Come giudicate le disposizioni dei bandi di concorso che prevedono l’attribuzione di punteggi aggiuntivi a coloro che abbiano conseguito un voto di laurea elevato?
Come ampiamente motivato nelle considerazioni generali, tra gli estensori delle presenti considerazioni vi sono al riguardo due diverse opinioni. Vi è chi ritiene che il punteggio aggiuntivo debba essere molto limitato e debba essere computato con riferimento non al “voto”, bensì al “decile”, cioè alla fascia di voti nella quale il candidato si era collocato all’interno della sua coorte di laureati; vi è chi ritiene che un punteggio aggiuntivo non debba esserci.
8)Ritenete che vi siano concorsi in cui, pur non essendo attualmente prevista, dovrebbe essere richiesta la laurea? Quali in particolare? E quale laurea?
Non sembra che vi siano motivi per estendere le richieste di laurea.
9)Ritenete che vi siano concorsi per i quali il titolo di studio oggi richiesto sia eccessivo rispetto al tipo di funzioni che si è chiamati a svolgere?
Il Ministero della Funzione Pubblica ha già stabilito che nei concorsi della P.A. la laurea da richiedere è quella di primo livello, salvo che per la dirigenza: occorre ottenere che i bandi rispettino tale indicazione.
10)Come giudicate la necessità che i dipendenti pubblici debbano possedere uno specifico titolo di studio ai fini delle progressioni in carriera c.d. verticali?
Per la progressione, il possesso del titolo (di una Classe o di una pluralità) richiesto per il livello più elevato deve essere una condizione necessaria ma non sufficiente: necessario perché in assenza di esso le promozioni rischierebbero l’arbitrarietà, non sufficiente perché ciò induce ad acquisire il titolo come mero “pezzo di carta”.
Tematica III: Valutazione dei titoli di studio
11)Come giudichereste una differenziazione qualitativa di titoli di studio nominalmente equivalenti?
Vi sono diverse motivazioni per esprimersi in senso negativo; tra queste, quella -già presente nel questionario in collegamento alla risposta No- secondo la quale i criteri di distinzione sarebbero necessariamente opinabili. Quanto alla difficoltà di accesso alla formazione ritenuta più qualificante, v. al quesito 15.
12)Per quali finalità ritenete possa essere utile una differenziazione tra titoli di studio nominalmente equivalenti?
Se al quesito 11 si è ritenuta negativa la differenziazione, per coerenza qui si dovrebbe omettere la risposta. Lo spazio libero consente comunque di far rilevare come alcune finalità indicate siano improponibili.
13)Ai fini di un’eventuale differenziazione di titoli di studio nominalmente equivalenti, quali valutazioni ritenete che dovrebbero rilevare?
Se al quesito 11 si è ritenuta negativa la differenziazione, per coerenza qui si dovrebbe omettere la risposta. Lo spazio libero consente comunque di far rilevare come l’utilizzazione di alcuni degli indicatori sia tecnicamente impossibile.
14)Ai fini di un’eventuale differenziazione di titoli di studio nominalmente equivalenti, chi ritenete che dovrebbe operare le relative valutazioni?
Se al quesito 11 si è ritenuta negativa la differenziazione, per coerenza qui la risposta va omessa.
Tematica IV: Questioni ulteriori
15)Avete ulteriori osservazioni o proposte sugli argomenti discussi in questo documento o su ulteriori temi o questioni che ritenete connessi alla materia del valore legale del titolo di studio?
Qui si possono collocare alcune osservazioni svolte nelle considerazioni generali. In particolare, va rilevato che il vero problema è la credibilità di una seria procedura di accreditamento, che faccia sì che al valore “legale” corrisponda un valore sostanziale. Due ulteriori osservazioni: – è fondamentale la trasparenza dell’offerta didattica, comprese le informazioni sugli esiti dei laureati di ogni Corso di studio e sulla produttività scientifica del corpo docente, perché gli interessati devono avere gli elementi per scegliere; – senza una adeguata politica di diritto allo studio (residenze, etc.), non esiste la possibilità di scelte ottimali da parte dei giovani di limitate risorse economiche.