Intervento di Pietro Greco alla presentazione del libro di M. Cuccurullo, Le ali spezzate della ricerca. L’Italia e il Mezzogiorno nell’Europa della conoscenza (La scuola di Pitagora editrice). Napoli, 24 gennaio 2013, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.
In un bel libro uscito negli Stati Uniti d’America, si dice che il più bel regalo che Hitler abbia fatto agli Stati Uniti sono state le leggi razziali, che hanno costretto una buona parte degli scienziati ad emigrare in America. Dopo il 1932, infatti, l’asse scientifico del mondo si è spostato dall’Europa all’America. Per rendersene conto basta una semplice statistica sulla provenienza dei premi Nobel tra il 1900 e il 1932: il 95 % di essi sono di origine europea; mentre se si guardano i successivi trent’anni si nota che il 60 % dei premi Nobel sono americani e il restante 20% inglesi. Una plastica dimostrazione di come l’asse scientifico del mondo si sia spostato essenzialmente tra le due sponde dell’Atlantico. Come Milena Cuccurullo spiega in questo libro, viviamo in un’epoca del tutto nuova, in cui la partita della scienza si gioca in tutto il mondo.
Si prenda a esempio la Corea del Sud, un paese più piccolo dell’Italia che trent’anni fa, nel 1980, aveva un Pil pro capite equivalente a 1/4 di quello italiano. Ebbene, trent’anni fa, a tavolino, è stato deciso di investire in alta educazione e in ricerca scientifica. Un’altra cosa che si legge nel libro di Milena Cuccurullo, infatti, è che queste trasformazioni non possono che avvenire ad opera dello Stato e che il mercato da solo non può operarle. Nel 1980, i laureati in Corea del Sud erano circa il 10% della popolazione, meno che in Italia. In trent’anni, la Corea del Sud è diventata il paese con il maggior numero di laureati nella fascia 25-34 anni. In questo momento il 63% dei giovani coreani del Sud si laurea. Se proiettiamo questi dati da qui a trent’anni, avremo che nel 2040 quella società sarà formata per i 2/3 da laureati. L’Italia, per quanto negli ultimi trent’anni sia migliorata, è passata da un 10-12% di laureati a meno del 20%, nella stessa fascia d’età. C’è da aggiungere che la Corea del Sud è solo il picco di un iceberg. Ci sono paesi che già adesso hanno oltre il 55% di laureati sull’intera popolazione: il Giappone, la Russia, il Canada. Sembra chiaro che fra trent’anni il mondo sarà diviso in due universi cognitivi: da un lato i paesi in cui la media generale della popolazione avrà 20-25 anni di studi alle spalle e, dall’altro, i paesi in cui chi avrà 20-25 anni di studi alle spalle sarà l’eccezione, una piccola minoranza. C’è da scommettere che i primi saranno avvantaggiati e non soltanto in termini economici, ma da tutti i punti di vista.
L’Italia è fuori da questo mainstream che qualcuno chiama “società della conoscenza”, cioè una società in cui una parte rilevante dell’economia reale, non di quella finanziaria, si fonda sulla produzione di beni ad alto contenuto di conoscenza aggiunto. I paesi che credono in questo tipo di economia sono i paesi che stanno andando meglio, qualsiasi sia il loro regime sociale e politico. Da questo punto di vista, la nostra Italia non si trova nella società della conoscenza. La gran parte della produzione nel nostro paese fa ancora leva sulle manifatture a bassa e media tecnologia, a basso e medio contenuto di conoscenza aggiunto, e la domanda di scienza e di cultura nel sistema produttivo è ancora bassa. Se l’analisi comparativa della spesa in università e ricerca scientifica pubblica del nostro paese rispetto a quella degli altri paesi europei mostra un gap compreso tra il 15% e il 30% – ovvero investiamo meno di altri paesi europei ed extraeuropei, meno della Francia, della Germania, della Gran Bretagna –, quando si fa una comparazione con il settore industriale che investe in ricerca questa divergenza aumenta drammaticamente: a parità di fatturato, per esempio, un’industria americana investe 5 volte in più di un’industria italiana. Ciò significa, da un lato, che si creano le basi strutturali della crisi del nostro paese, perché, essendo fuori dal mainstream dell’economia, noi paghiamo un pegno elevatissimo.
Quando la nuova globalizzazione ha fatto irrompere sui mercati mondiali una serie di paesi industrializzati con un costo del lavoro infinitamente inferiore a quello dell’Italia, non è stato più possibile fare in maniera competitiva sedie, tavoli, divani ecc., con lo stesso costo del lavoro. Nello stesso momento, entravamo nel sistema della moneta unica, l’euro, e non avevamo più una moneta svalutabile, eravamo vincolati a una moneta forte, senza la possibilità di gioco finanziario. Questa situazione avrebbe dovuto indurre, proprio negli anni ’80 e ’90, la nostra classe dirigente politica, industriale, sindacale, intellettuale in genere, a sedersi intorno a un tavolo e a fare le scelte che ha fatto sostanzialmente la Corea del Sud. È cambiato lo scenario, dobbiamo cambiare noi. E come si fa a cambiare? Il libro di Milena Cuccurullo lo dice e perciò lo trovo molto lucido. Bisogna cambiare la specializzazione produttiva del paese, non possiamo più fare solo divani, scarpe, ecc. Come ha detto qualcuno, “Se facciamo belle scarpe che bisogno abbiamo dei ricercatori?”. In realtà, noi non possiamo più fare solo scarpe, anche se le facciamo molto bene, è necessario cambiare specializzazione produttiva e come dimostra la storia, come dimostrano le analisi degli specialisti, non è possibile che il cambiamento della specializzazione produttiva del paese avvenga attraverso le forze spontanee del mercato, non è mai successo. In tutti i paesi in cui c’è stato un cambiamento di specializzazione produttiva, ciò è avvenuto a opera dello Stato, che interviene sostanzialmente in due modi: da un lato, aumentando gli investimenti in alta educazione e in ricerca scientifica e tecnologica; dall’altro, evocando una domanda di alta tecnologia.
La ricetta, non sarà semplicissima, ma è questa. Se vogliamo uscire dalla crisi non dobbiamo fare altro che quello che hanno fatto molti altri paesi, e cioè investire di più in formazione, in ricerca e proporre grandi progetti pubblici capaci di evocare un’alta domanda di tecnologia. Quali, poi, debbano essere questi grandi attrattori è oggetto di discussione.
Tutte queste idee sono ottime, ma da anni stiamo sbattendo contro una classe politica che non è all’altezza, non capisce, è animata da rivalse nei confronti dell’università e promuove l’ignoranza attraverso i media. Credo che la necessità di risparmiare e tagliare sia fondamentalmente un pretesto.
purtroppo la classe politica e gli annessi megafoni che strepitano stupidaggini dalle prime pagine dei maggiori quotidiani nazionali, sono l’espressione perfetta di una classe imprenditoriale alla deriva.
Una classe politica ignorante e un ceto imprenditoriale selvaggio hanno imposto scelte disastrose per il paese.
… e non ne usciamo perchè impediscono il ricambio.
Non so se si è mai vista una generazione così egoista.
Trovo quasi irreale l’idea che l’università chiami come contrattisti settantenni in pensione invece di far subentrare i giovani. Credono di essere eterni? Credono che dopo di loro non esista più niente? Credono che il risparmio si debba attuare sulla pelle di chi verrà mentre hanno sprecato impunemente risorse in affari e affarucci di ogni genere?
La risposta alle domande retoriche di indrani maitravaruni e’: … si’, e’ esattamente quello che credono.
Saluti
Enrico Scalas
Sarebbe utile capire come si è arrivati a questa situazione, perché a me sembra che parta da lontano e non sia il risultato delle (ovviamente) scellerate politiche dell’ultimo decennio.
Credo che sia necessario dire chiararamente e spesso che la “colpa” principale dell’Università italiana sia stata di essere andata avanti al pari di quelle degli altri paesi mentre l’Italia si è fermata agli anni ’80. Il risultato è che oggi abbiamo una Università di livello europeo innestata in un paese rimasto indietro.
Semplice buon senso vorrebbe che sia il paese a cambiare, ad andare avanti, non l’Università a tornare indietro come da più parti viene proposto.
Sembra stia prevalendo la seconda soluzione con discreto consenso sociale e la collaborazione di un buon numero di accademici. Basta trovare gli slogan giusti e il declino raccoglie anche gli applausi:
Cinquantamila universitari in meno vuol dire che i giovani non sono fessi, vedono l’università senza merito come inutile @fare2013 #fare2013
L’autore di questo tweet millantava due lauree, un master prestigioso, di aver superato gli esami per la magistratura e perfino la partecipazione allo Zecchino d’Oro. È chiaro che la soluzione ai nostri problemi è chiudere un po’ di atenei e di corsi di laurea, diminuire i professori, alzare le tasse universitarie. Per quanto riguarda il valore legale, esso verrà mantenuto solo per l’attestato di partecipazione allo Zecchino d’Oro.
Profumo: “Anticipare il diploma di un anno”.
Le priorità del ministro uscente per il 2013
http://www.repubblica.it/scuola/2013/03/03/news/profumo_ridurre_un_anno_scuola-53756527/?ref=HREC2-2
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Sono inorridito dal pensiero di cancellare un anno di scuola. Ma davvero si può migliorare qualcosa? L’unica cosa che mi viene in mente è che così lo Stato risparmia e sovraccarica l’università favorendone il declino che inevitabilmente passerà per la ripartizione in università di solo insegnamento e università di insegnamento e ricerca. Sono pericolosi questi messaggi in un momento di sbandamento totale come quello che stiamo vivendo.
Sì, l’idea fa schifo e non a caso l’avevo vista sostenuta da un passato rettore della Bocconi.
Qualche ministeriale vorrebbe spiegare perché il progresso passa attraverso l’eliminazione di anni di scuola?