Nelle ultime settimane il Referendum consultivo sul finanziamento pubblico alle scuole paritarie private previsto a Bologna per il 26 Maggio ha aperto a un confronto serrato tra i genitori e i cittadini che lo hanno promosso (il Nuovo Comitato Articolo 33) e le autorità politiche cittadine. Più dei 400 cittadini che hanno promosso il Referendum, chi ha fatto parlar di sé sono gli intellettuali cattolici del PD, che, riunitisi nel “Comitato per il B”, hanno prodotto testi, eventi e videoclip a sostegno delle scuole paritarie coadiuvati dal Sindaco Merola, arbitro super partes che ha deciso di scendere attivamente in campo con la maglia della loro squadra. Gli accademici, i docenti e gli intellettuali del Comitato per il B non fanno segreto della loro determinazione. Sanno bene che oltre alla consultazione cittadina il caso bolognese tocca dei punti nevralgici. Se vince il B si consolida il diritto a finanziare con denaro pubblico la scuola paritaria privata, pratica questa che negli ultimi trent’anni ha consentito di conciliare, dentro il PD e il PDL, gli interessi privati e quelli della Curia, compensando le politiche di privatizzazione, definanziamento e taglio alla scuola pubblica con la reintroduzione della scuola confessionale come modello di formazione per tutti. Se vince il quesito A, invece, si mette in discussione uno degli assi portanti della politica recente, la relazione tra scuola privata, Curia e mercato, offrendo a tutte le città un’arma per ripensare la scuola e la sua organizzazione dopo anni di tagli e di privatizzazione. A Bologna, dunque, è in corso una campagna importante, non a caso i politici del PD l’hanno presa assai seriamente, approfittandone per ridefinire, con un’interpretazione opinabile del dettato costituzionale, il sistema dell’istruzione e i principi che lo regolano.
Il Manifesto in 10 punti del “Comitato per il B”
Il Manifesto in dieci punti “a favore del sistema pubblico integrato” va letto con grande attenzione. Leggiamo al punto 1. del Manifesto che “l’educazione e la formazione della persona, dall’infanzia e lungo tutto l’arco della vita, sono l’investimento più significativo per il futuro”. La frase, a una prima lettura innocente, mina alla base l’idea di istruzione come diritto universale. Dobbiamo tornare al concetto di diritto, perchè gli estensori del manifesto paiono farsi promotori di un’interpretazione della legge che poco ha a che vedere con i diritti, la Costituzione o perfino il buon senso.
Nel Manifesto a favore del sistema pubblico integrato la parola diritto non compare neanche una volta. L’istruzione è un investimento in buona sostanza privato il cui fine non è il pieno sviluppo della personalità umana ma “lo sviluppo umano integrale”. “Investimento” vs. “diritto”, dunque, e “pieno sviluppo della persona umana” vs. “sviluppo umano integrale”: pare una questione terminologica, ma le differenze sono dirimenti.
Il concetto di istruzione come investimento può essere fatto risalire agli anni Sessanta quando la American Economics Association tiene la prima conferenza di Education Economics, destinata a mutare il lessico e le finalità dell’istruzione negli anni a venire. Inaugurata da T.W. Schultz e G. Becker, allievo di Milton Friedman e teorico del concetto di capitale umano, la Economics of education inserisce l’istruzione all’interno di uno schema neoclassico di costi e benefici ponendo le basi teoriche affinché essa venisse considerata non più come una spesa sociale derivante dalla responsabilità collettiva, bensì come un investimento razionale che dipende da una valutazione di opportunità. La Economics of education rompe con la tradizione illuminista fino ad allora dominante. Era stato Condorcet a definire l’istruzione come una responsabilità pubblica. Il potere pubblico deve assicurare l’universalità e la gratuità dell’istruzione a ogni suo livello, scriveva Condorcet, in quanto essa rappresenta il fondamento del vivere collettivo. In quanto tale, essa non può essere affidata all’interesse individuale né a una valutazione di opportunità contingente.
La Economics of education introduce una nuova ratio con cui pensare l’istruzione. L’istruzione non è più un diritto universale inalienabile, come sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, o finalizzato alla sovranità collettiva e al perfezionamento dell’umanità. E’ un investimento che dipende da una valutazione razionale di costi e benefici. È in questo contesto che va letto il Manifesto per il B.
Scrive il Manifesto che “L’educazione e la formazione della persona, dall’infanzia e lungo tutto l’arco della vita, sono l’investimento più significativo per il futuro, specialmente in un tempo connotato da radicali cambiamenti sociali ed economici”. Non stiamo parlando dell’istruzione come diritto come voleva Condorcet, o, volendo, come vuole Amartya Sen, per citare un autore formalmente vicino agli autori del Manifesto. Di fatto, nel Manifesto per il B, la parola diritto non compare mai. Nel Manifesto l’istruzione è un investimento la cui erogazione dipende da una valutazione di costi e benefici. L’importanza del punto 1. non sta, dunque, nell’entità dell’investimento ma nella sua non inalienabilità e dipendenza da valutazioni contingenti di opportunità.
Per addolcire la prospettiva privatistica del punto 1, il punto 2 introduce il concetto di comunità. E dice: “la comunità bolognese ha sempre riconosciuto nell’educazione uno dei fattori fondamentali per lo sviluppo umano integrale. Per questo le politiche per la scuola, per l’educazione dei bambini e delle bambine e per il sostegno alle famiglie hanno sempre visto l’impegno e il coinvolgimento della città nelle sue varie articolazioni”. Ci sono due questioni in gioco, in questa frase. Primo, “lo sviluppo umano integrale”. Secondo, la sussidiarietà.
Andiamo con ordine. C’è da capire, infatti, che cos’è questo “sviluppo umano integrale”. Lungi dall’essere assimilabile al principio costituzionale di “pieno sviluppo della persona umana” citato dalla Costituzione (art. 3), lo “sviluppo umano integrale” è il tema dell’Enciclica Caritas in Veritate di Benedetto XVI, alla cui stesura Zamagni, economista cattolico in prima linea nel Comitato per il B, ha collaborato, e che a sua volta si rifà all’Enciclica di Paolo VI Populorum progressio. La differenza tra “sviluppo umano integrale” e il “pieno sviluppo della personalità umana” è radicale. Lo sviluppo umano integrale rimanda, infatti, a un percorso formativo confessionale. La “fedeltà alla verità” è un prerequisito per lo sviluppo umano integrale: “la fedeltà all’uomo esige la fedeltà alla verità che, sola, è garanzia di libertà (cfr Gv 8,32) e della possibilità di uno sviluppo umano integrale”, recita l’Enciclica. In sostanza, il Manifesto spaccia per universale un’idea di scuola profondamente cattolica, e tenta di estenderlo a tutto il sistema scolastico.
Qui entiamo nel cuore della questione. Tra le righe, infatti, il Manifesto accetta l’austerità come volano per il privato e il privato come volano per la reintroduzione della scuola confessionale come percorso formativo per tutti. Nel Manifesto il responsabile della scuola non è mai, infatti, il settore pubblico. Ne è responsabile “la città nelle sue varie articolazioni”, scrive il punto 2. “Una pluralità di gestori di scuole”, scrive il punto 7, “che insieme formano il sistema pubblico delle scuole dell’infanzia bolognesi”, e costituiscono “una grande risorsa per la città”.
Ora, l’articolo 33 della Costituzione dice che “enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. “La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali”.
Dire, come al punto 7, che “la presenza di una pluralità di gestori di scuole, che insieme formano il sistema pubblico delle scuole dell’infanzia bolognesi, è sicuramente una grande risorsa per la città, oltre che espressione alta del principio di laicità”, significa dunque deformare la realtà due volte. Primo, perchè un servizio privato equipollente al pubblico non sostituisce né diviene il pubblico. Secondo, perché, venendo al caso di specie, a Bologna 25 su 27 scuole paritarie private sono di ispirazione cattolica, e come tali è ben difficile considerarle come espressione alta del principio di laicità.
Ma il bello deve ancora venire. All’art. 8 il Manifesto scrive che “con il Referendum comunale, i promotori del Nuovo Comitato Articolo 33 negano di fatto la peculiarità del nostro ‘sistema scolastico pubblico’, spingendo il Comune ad abbandonare l’esperienza consolidatasi negli ultimi vent’anni”. Ciò lederebbe “il principio costituzionale della libertà di scelta in materia educativa da parte dei genitori, ma soprattutto porrebbe a repentaglio la possibilità di assicurare a molti bambini la frequenza della scuola dell’Infanzia e le grandi opportunità formative che la connotano”.
Ora, la libertà di scelta è il principio cardine della teoria economica della scuola di Chicago, l’idea per cui la sovranità del consumatore è principio inviolabile. Qui però non stiamo parlando di consumatori, né gli estensori sulla carta si rifanno alla scuola di Chicago. Il Manifesto, infatti, evoca il principio della libertà di scelta intendendo il principio di sussidiarietà, ed essendo la sussidiarietà prevista dalla Costituzione trasforma questo mix cattolico-neoliberale in un principio costituzionale che consentirebbe di compensare la minaccia di esclusione derivante dai tagli alla scuola con la parità scolastica, finendo con un casché che impone la scuola confessionale per tutti. Insomma, così facendo il Manifesto gioca sulle ambiguità e utilizza la scure dell’austerità come legittimazione per la sostituzione del pubblico con il privato, e della scuola laica con la scuola confessionale, individuando per questa tesi un solido fondamento giuridico-costituzionale che per il vero è controverso, specie nei termini in cui esso viene configurato. Il problema di questo ragionamento, dunque, è non solo che nega la stessa libertà di scelta che vorrebbe affermare, ma che nel sostenere tali forzature il Manifesto scorda la realtà.
Torniamo al Referendum
Più che porre “a repentaglio la possibilità di assicurare a molti bambini la frequenza della scuola dell’Infanzia”, infatti, il Referendum nasce proprio per risolvere questo problema. Il Referendum è nato dall’incapacità del sistema integrato della scuola per l’infanzia di garantire un posto a scuola a tutti i bambini di Bologna. Nel 2012, 423 bambini sono rimasti senza possibilità d’accesso a scuola, e nonostante il Comune abbia improvvisato soluzioni d’emergenza 103 di loro sono rimasti a casa. Ora, questo “dettaglio” è ciò che il Comitato per il B ignora, dimentica o ritiene irrilevante. In questo contesto, dire che il Referendum pone “a repentaglio la possibilità di assicurare a molti bambini la frequenza della scuola dell’Infanzia”, significa negare l’evidenza. Il quesito referendario nasce proprio per rispondere all’incapacità del sistema pubblico integrato di far fronte alle esigenze di tutte le famiglie, ragione per la quale chiede alla cittadinanza dove preferisca allocare le risorse comunali. Nonché per rispondere alle esigenze di quelle famiglie che sono state obbligate volenti o nolenti a iscrivere i loro figli a una scuola confessionale, e che ora sentono spiegare quest’obbligo proprio con il concetto di libertà di scelta.
Devo fare una puntualizzazione. A chi critichi la scuola confessionale come modello formativo universale, infatti, Zamagni risponde che dietro alla difesa della laicità vive “l’astio nei confronti della Chiesa”. Ora, aldilà del fatto che questa risposta non nega la compiacenza verso l’eventuale estensione a tutti della scuola confessionale, essa ci dice anche che siamo di fronte a semplificazioni storiche inammissibili. Forse giova ricordare che il concetto di laicità nell’istruzione ha alle sue spalle un dibattito largo sette continenti e lungo due millenni. In Italia, per esempio, sono state le stesse Comunità Cristiane di Base a rifiutare la scuola confessionale come modello formativo universale. In un documento del 1998 (Rivista “Il Tetto”, n. 208/1998), le CdB sostenevano che: “le spettacolari mobilitazioni a favore dei finanziamenti alle scuole confessionali, incitano a violare ripetutamente la Costituzione e ostacolano il radicale rinnovamento della scuola che tutti auspichiamo”. “Una scuola chiamata a partecipare alla missione evangelizzatrice della chiesa, come sostiene il Cardinale Pio Laghi, non può essere pari alla scuola pubblica”. “Non può neppure configurarsi come una battaglia di libertà” . Vogliamo parlare anche nel loro caso di “astio nei confronti della chiesa”?
Ma veniamo ai numeri. Al punto 9 il Manifesto spiega che “con le risorse attualmente destinate alle scuole dell’infanzia paritarie a gestione privata (un milione di euro all’anno), il Comune potrebbe garantire nelle scuole gestite direttamente meno del 10% del numero di posti convenzionati”, cioè “145 posti (dato che il costo per bambino nelle scuole comunali è di 6.900 euro all’anno), contro i 1.736 posti assicurati dalle paritarie convenzionate”. Ancora una volta non è corretto. Il bilancio consuntivo del 2011 riporta 38 milioni di spesa totale per la scuola dell’infanzia con un costo medio per bambino di 6.900 euro. I 6.900 a bambino derivano dai costi fissi (bilancio di 36 milioni diviso per 5137 bambini che vanno alle comunali) dentro cui ci però sono gli ammortamenti, le spese generali caricate su ciascun settore, le spese per i pedagogisti e il personale amministrativo e burocratico. Per far fronte alle esigenze di tutte le famiglie e eliminare le liste d’attesa servirebbero invece 12 nuove sezioni a un costo di 90 mila euro a sezione, come dimostra le Delibera comunale del 9 ottobre 2012. Questa cifra corrisponde quasi esattamente alla cifra che al momento viene data alle scuole private: 90 mila euro per 12 sezioni corrisponde a 1 milione e 80 mila euro, ossia la cifra che viene assegnata attualmente alle scuole paritarie. Quando il Manifesto sostiene che il Referendum mette “a repentaglio la possibilità di assicurare a molti bambini la frequenza della scuola dell’Infanzia”, pertanto, dice il contrario di ciò che è, in quanto recuperando le risorse assegnate ogni anno alle scuole paritarie la scuola pubblica potrebbe accogliere tutti i bambini che hanno diritto di accedervi, senza costringerci a riesumare nel terzo millennio argomentazioni retrograde sulla scuola confessionale.
Morale della favola
In conclusione, Zamagni scrive che: “l’alleanza strategica a Bologna tra istituzioni pubbliche e società civile organizzata è una conquista di civiltà e un punto di forza cui non si può rinunciare, se si vuole che il sistema di welfare – […] – continui a restare di tipo universalistico”. A molti di noi pare l’opposto. Come evidenziato sin qui, utilizzare il ricatto dell’esclusione scolastica per legittimare l’irrinunciabilità dei finanziamenti al privato è inefficace, per quanto riguarda i problemi esistenti, e poco etico, su tutti gli altri piani. Glisso sul retrogusto evangelico e quasi coloniale del concetto di civiltà in questo contesto. È triste ripeterlo ancora ma tant’è: tanto più in tempi d’austerità l’unica azione sensata è affermare il diritto inalienabile e di tutti all’istruzione, riconoscere alla scuola pubblica le risorse necessarie per garantirlo, e trasformare la scuola in uno spazio comune di proliferazione e contaminazione delle differenze. Ogni altra scelta è un giro di parole strumentale che non risolve i problemi, ma ne crea.
Per chi vive a Bologna l’appuntamento è per il 26 maggio.
Lo slogan del Nuovo Comitato Articolo 33 è VotiAmo A.
Nell’articolo i link non funzionano. Inoltre il font è diverso da quello usato in tutto il resto del sito.
Dovrebbe far leggere questo suo interessante articolo in Francia, Germania, Gran Bretagna, o Svezia (tanto per fare un esempio: tutti gli altri principali paesi europei, in un modo in un altro, agiscono come scriverò tra poco) e spiegar loro che da loro son proprio tutti dei rimbecilliti baciapile. Infatti ivi il principio di puro buon senso secondo il quale un servizio pubblico non è necessariamente fornito direttamente dallo stato, ma da esso è invece finanziato e controllato, è pacifico: dunque, in quegli arretrati paesi, la scuola paritaria è direttamente finanziata dallo stato, che tra l’altro pure risparmia e, spesso, ottiene una formazione migliore (le potrei raccontare alcuni aneddoti su maestri e professori delle scuole, statali, dei miei figli). Forse ricorderà cosa è successo in Francia quando hanno provato a toccare questo principio: una mezza rivoluzione dei suddetti baciapile (ma, sa, non sembravano proprio tali, anche perchè in Francia non ce ne sarebbero proprio abbastanza), e la faccenda è precipitosamente rientrata. In Svezia, paese in precedenza radicalmente statalista anche nell’istruzione, la decisione è più recente (mi pare un po’ più di dieci anni, ma potrei sbagliare) e per esperienza diretta le posso assicurare che son tutti contenti. Che vengan tutti da noi a leggere i suoi articoli, e capiranno quanto si sbagliano.
Poi, vede, aspetti che tutte le scuole paritarie, salvo quelle per ricchi, chiudano in Italia, come succederà in pochi anni vista la situazione, e capirà (forse) che quando lo stato dovrà trovare i 6-7 miliardi annui che gli costerebbe assorbire tutti gli studenti delle paritarie be’, verrà fuori un problemuccio.
Il nostro è proprio un paese che merita di andare in malora.
Art. 33 Cost.: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.”
O si cambia la Costituzione, o si tagliano immediatamente tutti i fondi alle scuole private. Tertium non datur: altrimenti si vive nell’illegalità.
Falso. Se fosse così, sarebbero ad esempio stati dichiarati incostituzionali i contributi erogati in Lombardia alle famiglie con figli alle scuole non statali. Non è successo e, a quanto ne so, nessun ricorso è stato mai nemmeno presentato probabilmente perché chiaramente indifendibile.
Se l’istruzione è obbligatoria, lo stato deve garantire che essa sia impartita agli aventi diritto, indipendentemente dal fatto che chi la impartisce sia o meno un suo dipendente. Finanziando in modo cosi’ ridicolmente basso le scuole private, lo stato non ha quindi oneri, ma guadagni.
L’interpretazione dell’articolo 33 è tutt’altro che priva di controversie. A questo riguardo vale la pena ricordare quanto scritto due giorni fa dall’associazione Salviamo la Costituzione, fondata da Oscar Luigi Scalfaro, per la quale il referendum “interpreta fedelmente il dettato costituzionale”:
“Il referendum che chiede la sospensione del finanziamento alle scuole dell’infanzia private interpreta fedelmente il dettato costituzionale ove nell’art.33 si dice chiaramente che La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.
Resta tuttavia il problema della carenza di posti nella scuola statale e ciò giustificherebbe la presenza di scuole private con il compito-sussidiario di allargare l’offerta. Tale situazione non giustifica tuttavia il finanziamento pubblico per diverse ragioni.
La prima è che l’istituzione di scuole private è frutto di decisioni che afferiscono spesso a questioni ideologiche e religiose altrettanto e più importanti rispetto all’aumento dell’offerta formativa.
La seconda è che eventuali spese da parte dell’ente locale dovrebbero servire a sostenere le famiglie che non trovando risposta nelle scuole statali si rivolgono alle scuole private, ma non hanno un reddito sufficiente ad affrontarne i costi e non direttamente alle proprietà delle scuole private.
La terza ragione è che sono necessari maggiori investimenti nella scuola statale di tutti i gradi a partire da quella dell’infanzia ponendo l’Italia allo stesso livello degli altri paesi europei che individuano nell’istruzione una dei fattori principali dello sviluppo e dell’occupazione.
Per queste ragioni sosteniamo il referendum con il si il cui effetto, nel caso di vittoria non sarà di togliere immediatamente bambini dalla scuola, ma fungerà da stimolo per metter la scuola pubblica e il suo finanziamento al centro delle politiche governative e per realizzare compiutamente i dettami della nostra Costituzione.
Che il finanziamento di scuole non statali (ricordo che si tratta, a norma di legge, di scuole pubbliche come quelle statali) non leda affatto la costituzione lo mostra un fatto estremamente semplice, al di la’ degli auspici dell’Autrice: un minimo finanziamento statale c’e’ sempre stato, e nessuno ha nemmeno provato a fare un ricorso costituzionale contro tale pratica. In un paese dove l’ideologia e’ fortissima, e si cavilla contro ogni cosa, e’ evidente che il motivo sia uno solo: se un ricorso fosse stato fatto, sarebbe stato certamente perdente, e gli alibi dei ricorrenti si sarebbero sciolti come neve al sole.
Per cui aspetto con ansia che la benemerita associazione “Salviamo la Costituzione”, o l’Autrice stesas, presenti finalmente un tale ricorso, in modo che esso la si finisca di dire che il cielo e’ giallo a pallini verdi, e ci si rende conto che con l’esistenza della scuola non statale lo stato vede egualmente garantito il diritto all’istruzione, e oltretutto risparmia.
Suggerirei inoltre di trasmettere l’articolo ai genitori dei bambini che rimarranno a casa l’anno prossimo, spiegando loro che e’ per il loro bene, cosi’ quei malefici preti non li indottrineranno.
caro Gigi, evidentemente non sa che ricorsi di incostituzionalità ce ne sono stati eccome. A partire dalla sentenza della Corte Costituzionale n.50 del 2008 che boccia il decreto ministeriale 8 agosto 2007, che finanziava tutte le scuole paritarie di ogni ordine e grado.
Piacerebbe anche a me che il dettato costituzionale fosse nero e bianco ma così non è. Il tema in questione in modo particolare è oggetto di controversie da sessant’anni. Così è per l’articolo 33, ove le interpretazioni – molteplici – oscillano tra un’interpretazione radicale dell’articolo 33, il divieto di finanziare le scuole private, e una tesi soft, il rispetto di un ordine di priorità nell’allocazione dei finanziamenti.
In questo senso, se anche volessimo accantonare l’opinione di illustri Costituenti – tra cui Calamandrei – per i quali “la scuola pubblica è il prius, quella privata è il posterius”,
e sposare la tesi soft, si configura alquanto problematica la possibilità che i fondi alla scuola paritaria vengano assegnati a detrimento della scuola pubblica. Vale ancora, infatti, quanto detto nel 1947, ovvero che «(s)arebbe un paradosso che lo Stato, che non ha nemmeno abbastanza denaro per le proprie scuole, dovesse in qualche modo finanziare delle scuole non statali»: parole, queste, che conservano una forte attualità sebbene fossero pronunciate dall’on. Preti in Assemblea Costituente.
[Seduta del 17 aprile 1947, in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Camera dei deputati, Roma, 1970, vol. II, 952].
La invito a leggere Alessandro Pace, secondo il quale “Pur non tacendo le difficoltà pratiche e politiche, non nutro dubbi sull’ impugnabilità in sede di giustizia amministrativa del provvedimento amministrativo ministeriale che in tempi di crisi, quali quelli in cui viviamo, erogasse finanziamenti alla scuola privata sottraendoli alla disponibilità della scuola pubblica. Argomento che è rafforzato, con specifico riferimento alle direttive di cui all’art. 2 lett. a) l. n. 440 del 1997, da ciò che con esse si definiscono «gli interventi prioritari». E poiché gli obblighi vengono sempre prima delle facoltà, la direttiva che non rispettasse la priorità logica delle esigenze della scuola pubblica rispetto a quelle della scuola privata, dovrebbe ritenersi illegittima per eccesso di potere per illogicità, errore nei presupposti, manifesta ingiustizia”.
Cit. Alessandro Pace, Il diritto all’istruzione nel tempo di crisi, 2013.
Detto tutto questo, e resa evidente la complessità della materia in questione, vorrei specificare che qui non stiamo parlando di ricorsi. Sebbene la situazione bolognese descriva precisamente questo problema, il problema per cui l’erogazione di finanziamenti alla scuola privata avviene a detrimento della disponibilità della scuola pubblica al punto da sancire l’impossibilità di beneficiare di un diritto, qui non stiamo parlando di un ricorso bensì di un referendum che peraltro non ha alcun valore abrogativo ma solo consultivo.
La inviterei, pertanto, a toni più rispettosi di interpretazioni differenti, specie alla luce della sua difesa strenua di pensiero e opinioni plurali.
La sentenza citata si trova, ad esempio, su
http://www.giurcost.org/decisioni/2008/0050s-08.html
In essa, come si vedra’, l’articolo 33 della costituzione non e’ neanche nominato, perche’ si tratta di tutt’altro. Alla luce di quanto sopra, trovo il suo invito a toni piu’ rispettosi (gentilmente, mi segnala in quale passo sarei stato poco rispettoso?) un poco singolare.
Restano, a parer mio, i seguenti fatti.
1) Nel merito della questione tratta nel post qui commentato, sembra fuori discussione che, se il referendum in questione avra’ l’esito auspicato dall’Autrice, un numero presumibilmente non piccolo di bambini l’anno prossimo non avra’ la possibilita’ di iscriversi a una scuola materna
2) I sistemi dei maggiori paesi europei (ho citato Francia, Gran Bretagna, Germania, e come ulteriore esempio di paese con popolazione e struttura sociale diversa la Svezia, visto che
e’ stata citata la Finlandia), sono tutti (sebbene con modalita’ diverse) sistemi misti. Sarebbe interessante capire perche’ gli argomenti proposti, che sembrano voler essere generali, non si applichino in tali paesi, che non sembrano confessionali.
@GiGì
Un sistema misto può esistere ma i finanziamenti a scuole (di qualsiasi grado) non devono essere sostenuti dallo stato, tanto meno se non laici!
Lo stato deve garantire a tutti i cittadini uguaglianza, pari opportunità, integrazione, livello qualitativo della scuola adeguati e questo deve essere sempre un principio prioritario. Non distruggiamo ciò che abbiamo/avevamo di elevato per avvicinarci a livelli e sistemi scolastici che sono qualitativamente inferiori.
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Riporto come esempio un articolo relativamente alla situazione “DA SOOOOGNO!” tedesca! Super dotati di buon senso i nostri vicini.
Riporto una parte di quanto scritto sotto, tradotto “liberamente” dall´articolo (riferito alla Germania):
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“che “PACCHETTI DI SALVATAGGIO” NON sono da aspettarsi da parte dello stato. NESSUN POLITICO si rende disponibile a farsi dire che getta i soldi nelle casse di scuole private quando si devono chiudere quelle statali a causa della carenza di alunni.”
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DER SPIGEL 23/1/2012:
“Pleite statt Elite“ – „AL verde invece che Elite“
Von Becker, Sven; Friedmann, Jan; Heckel, Manuel; Verbeet, Markus
http://www.spiegel.de/spiegel/print/d-83679107.html
In Germania nonostante il numero degli studenti sia costantemente in calo vengono MESSE SUL MERCATO nuove scuole private „azienda“ (che non sono necessariamente cattoliche, quindi giá siamo in un situazione di mercato più “normale”). Si veda il grafico a sinistra riportato nell´articolo linkato!
Il problema quì presentato, è che sembra esserci una saturazione di mercato in Germania delle scuole private che sta evidenziando un sistema che è tutt´altro che brillante ! Sorry! Il problema finanziario di queste scuole si evidenzia fortemente nel momento in cui esse fanno di tutto per procurarsi il denaro per sopravvivere (cosa che accade attualmente). Non solo ma queste scuole, come le aziende possono andare in concorso, risparmiano sulla qualità, possono arrivare a non pagare in modo adeguato gli insegnati, scioccando i poveri genitori che hanno dato “fondo alle loro finanze” per dare ai figli un´educazione “elitaria”. Alcune di esse sono arrivate alla bancarotta! (Mercato difficile a quanto pare quello delle scuole private tedesche!). Le benestanti famiglie si trovano così ad affrontare degli aumenti delle rette scolastiche di notevole entità. Nell´esempio dell´articolo si riporta:
“A dicembre sono stati mandati i contratti per l´anno successivo con dei cambiamenti sorprendenti: le rette scolastiche devono – per i benestanti genitori – passare a 450 Euro dai 350 Euro, a questi si aggiungono 1350 Euro come pre pagamento, insieme ai 600 Euro di tassa di iscrizione e 250 Euro per la cancelleria e strumenti scolastici“
“…quando i mezzi finanziari non sono sufficienti, si risparmia sulla qualità oppure si gira la vite alle rette scolastiche; nel caso peggiore si minaccia la bancarotta – un dramma per quei genitori, che solo il meglio vogliono per i loro figli ed erano pronti a grattare nelle tasche più profonde“
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Ma che cosa fa lo stato (tedesco)?
E ancora si può legge in una parte dell´articolo che “PACCHETTI DI SALVATAGGIO” NON sono da aspettarsi da parte dello stato. NESSUN POLITICO si rende disponibile a farsi dire che getta i soldi nelle casse di scuole private quando si devono chiudere quelle statali a causa della carenza di alunni. Per questi motivi Brandenburg, Sachsen, Mecklenburg-Vorpommern e Thüringen hanno giá deliberato la riduzione degli aiuti (già molto oculati in base a controlli severi) alle scuole private!
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Come dire non è oro tutto quello che luccica nemmeno per l`èlite tedesca!
Un esempio questo che non va a favore della liberalizzazione dell´istruzione, essa non produce come si vorrebbe far credere maggiore qualità ma semmai disparità. Con la beffa all´”èlite” sulla qualità del servizio ricevuto per i figli. Produce certamente maggiore concorrenza insieme a un sacco di problemi anche di controllo di qualità dell´educazione impartita!
Credo che l´Italia dovrebbe guardarsi bene da seguire esempi che nascondono molte cose poco trasparenti e forti disuguaglianze!
„Ein anderer (Vater) schreibt selbstkritisch in einer E-Mail: “Wir haben über so vieles geschwiegen“. ——- Un´altro padre scrive autocritico in una Mail „abbiamo taciuto sopra tante cose“”
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Ma deve proprio ridursi tutto a mercato anche IL DIRITTO ALLO STUDIO?
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Senza polemica…
1) il miglior sistema scolastico d’europa è quello finlandese ed è per quanto ne so totalmente pubblico, addirittura è studiato in america, ma senza riuscire a capire nemmeno perché funziona così bene tanto che sono annebbiati dalle idee di Friedmann & Co.;
2) il sistema francese non è certo confessionale, ed è questo il difetto principale di quello che si sta attuando qui;
3) ogni sistema che include una rilevante quota di istruzione non pubblica finisce per relegare la scuola pubblica agli ultimi posti per livelli raggiunti (non è una novità che negli USA chi proviene dalle scuole pubbliche ha difficoltà persino a leggere il giornale);
4) se fossero davvero 6/7 miliardi sarebbe la metà di quello che uno stato serio investirebbe nell’istruzione pubblica (6 miliardi sono 4 millesimi di PIL).
1) i sistemi di paesi diversissimi quali Francia, Germania, Gran Bretagna, Svezia, Spagna (ne cito solo alcuni) sono misti e alcuni di essi sono tra i migliori al mondo. Lei cita un solo caso differente: e allora?
2) il sistema francese e’ misto. Che non sia confessionale e’ in parte falso (le scuole cattoliche sono moltissime), in parte mostra come lei, mi pare, scambi le cause con gli effetti: se sostituissimo le nostre regole con quelle francesi, stia pur certo che sorgerebbero anche scuole non statali non confessionali, mentre ora il pesantissimo costo che ricade sulle famiglie puo’ essere sostenuto solo da chi ha forti motivazioni ideali per farlo.
3) Falso. Le ho citato poco sopra gli esempi cioe’, mi creda, tutta Europa tranne noi e la Grecia, davvero. Siamo noi l’eccezione, gli altri sono la regola. L’esempio statunitense e’ ovviamente inappropriato, si tratta di una societa’ completamente diversa
4) Mi sfugge quel che dice. 6-7 miliardi sono quanto si ottiene moltiplicando (posso sbagliare di un po’, ma l’ordine di grandezza e’ quello) circa seimila euro annui a studente per un po’ piu’ di un milione di studenti. Questo dovrebbe pagare IN PIU’ lo stato oggi, ogni anno, se le scuole non statali scomparissero. Lo stato investe oggi una cifra enormemente superiore a questa, spesso con esiti disastrosi (di alcuni dei quali sono diretto spettatore), quindi il senso del suo discorso mi e’ oscuro. Il costo del finanziamento totale delle attuali scuole paritarie sarebbe probabilmente circa la meta’ du quanto sopra, quindi se stiamo parlando di bruscolini, be’, facciamo mezzo bruscolino e che si paghi tutto, uno stato serio questo certo lo farebbe.
“ora il pesantissimo costo che ricade sulle famiglie puo’ essere sostenuto solo da chi ha forti motivazioni ideali per farlo”
Quando parla di motivazioni ideali si riferisce al plagio delle giovani menti perché diventino brave pecorelle da grandi pronte a fare tutto ciò che si dice loro di fare, soprattutto destinare parte dei propri denari alla gloria della Chiesa Cattolica?
O forse voleva dire “ideologiche”?
Ha tratto il suo commento da una seduta di partito del PCUS degli anni ’50?
http://it.wikipedia.org/wiki/Istruzione_in_Finlandia
Ma non è che la stiamo mitizzando un po’ troppo, questa scuola finlandese?
indrani maitravaruni: “ma non è che la stiamo mitizzando un po’ troppo, questa scuola finlandese?”
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Il motivo per cui la scuola finlandesa attira tanta attenzione è ben spiegato dall’articolo:
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What Americans Keep Ignoring About Finland’s School Success
by Anu Partanen
http://www.theatlantic.com/national/archive/2011/12/what-americans-keep-ignoring-about-finlands-school-success/250564/
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Riporto alcuni passi che spiegano bene il paradosso di una nazione ai primi posti dei test PISA, ma che si muove controcorrente per quanto riguarda i test sull’apprendimento, la valutazione quantitativa degli insegnanti, gli incentivi alla competitività e la concorrenza pubblico-privato.
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quanto segue è tratto da
“What Americans Keep Ignoring About Finland’s School Success”
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Finland’s schools owe their newfound fame primarily to one study: the PISA survey, conducted every three years by the Organization for Economic Co-operation and Development (OECD). The survey compares 15-year-olds in different countries in reading, math, and science. Finland has ranked at or near the top in all three competencies on every survey since 2000, neck and neck with superachievers such as South Korea and Singapore. In the most recent survey in 2009 Finland slipped slightly, with students in Shanghai, China, taking the best scores, but the Finns are still near the very top. Throughout the same period, the PISA performance of the United States has been middling, at best.
[..]
From his point of view, Americans are consistently obsessed with certain questions:
1) How can you keep track of students’ performance if you don’t test them constantly?
2) How can you improve teaching if you have no accountability for bad teachers or merit pay for good teachers?
3) How do you foster competition and engage the private sector?
4) How do you provide school choice?
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Ecco le risposte finlandesi:
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1) For starters, Finland has no standardized tests. The only exception is what’s called the National Matriculation Exam, which everyone takes at the end of a voluntary upper-secondary school, roughly the equivalent of American high school.
Instead, the public school system’s teachers are trained to assess children in classrooms using independent tests they create themselves. All children receive a report card at the end of each semester, but these reports are based on individualized grading by each teacher. Periodically, the Ministry of Education tracks national progress by testing a few sample groups across a range of different schools.
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2) As for accountability of teachers and administrators, Sahlberg shrugs. “There’s no word for accountability in Finnish,” he later told an audience at the Teachers College of Columbia University. “Accountability is something that is left when responsibility has been subtracted.”
For Sahlberg what matters is that in Finland all teachers and administrators are given prestige, decent pay, and a lot of responsibility. A master’s degree is required to enter the profession, and teacher training programs are among the most selective professional schools in the country. If a teacher is bad, it is the principal’s responsibility to notice and deal with it.
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3) And while Americans love to talk about competition, Sahlberg points out that nothing makes Finns more uncomfortable. In his book Sahlberg quotes a line from Finnish writer named Samuli Paronen: “Real winners do not compete.” It’s hard to think of a more un-American idea, but when it comes to education, Finland’s success shows that the Finnish attitude might have merits. There are no lists of best schools or teachers in Finland. The main driver of education policy is not competition between teachers and between schools, but cooperation.
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4) Finally, in Finland, school choice is noticeably not a priority, nor is engaging the private sector at all. […]
“Here in America,” Sahlberg said at the Teachers College, “parents can choose to take their kids to private schools. It’s the same idea of a marketplace that applies to, say, shops. Schools are a shop and parents can buy what ever they want. In Finland parents can also choose. But the options are all the same.”
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* * * EQUITY IS THE GOAL* * *
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Decades ago, when the Finnish school system was badly in need of reform, the goal of the program that Finland instituted, resulting in so much success today, was never excellence. It was equity.
[…]
In fact, since academic excellence wasn’t a particular priority on the Finnish to-do list, when Finland’s students scored so high on the first PISA survey in 2001, many Finns thought the results must be a mistake. But subsequent PISA tests confirmed that Finland — unlike, say, very similar countries such as Norway — was producing academic excellence through its particular policy focus on equity.
That this point is almost always ignored or brushed aside in the U.S. seems especially poignant at the moment, after the financial crisis and Occupy Wall Street movement have brought the problems of inequality in America into such sharp focus. The chasm between those who can afford $35,000 in tuition per child per year — or even just the price of a house in a good public school district — and the other “99 percent” is painfully plain to see.
Trovo assordante il silenzio riguardo, che so, al fatto che la scuola svedese, di livello del tutto paragonabile a quella finlandese, sia un sistema integrato statale-non statale, oppure al fatto che siano sistemi integrati statale-non statale, con ingenti finanziamenti statali alla scuola non statale, quello di nazioni tra loro diversissime (ma tutte dotate di un po’ di buon senso in materia, qui evidentemente assente) come Germania, Gran Bretagna, Francia. Agli scriventi, non avendo UN SOLO esempio di dimensioni significative, tocca aggrapparsi a un paese come la Finlandia di tre milioni di abitanti, tra l’altro un poco diverso dal nostro.
Io aspetto i commenti di Gigi & co. quando, capito come gira, inizieranno a chiedere fondi statali scuole musulmane…
Le scuole musulmane mi vanno benissimo, purche’ seguano i programmi ministeriali.
Dipende da chi c’e’ al ministero.
In Russia ai tempi di baffone i fisici piu’ bravi che seguivano la meccanica quantistica (considerata non materialista) non li hanno tutti fucilati solo perche’ servivano a fare la bomba.
Sfortunatamente a molti biologi russi del tempo non e’ andata altrettanto bene.
non so, io più che altro aspetto che Gigi ci fornisca un po’ di bibliografia sulla scuola svedese. Poi che ci dimostri per benino che il sistema francese sarebbe “integrato” in modo paragonabile a quello auspicato dagli antireferendari. Non perché io conosca a fondo il sistema francese, ma a istinto, avendo letto qualcosina sul sistema universitario, ho qualche dubbio. Mi pare anche di ricordare una polemica sui simboli religiosi in Francia, corredata da espulsioni di studenti, che non depone proprio a favore dell’integrazione con la scuola confessionale.
Guardi, nel caso improbabile io abbia i giorni liberi necessari potrei anche provare a scrivere qualcosa di strutturato, ma mi creda, e’ la pura verita’: gli unici paesi europei in cui NON esiste un sistema integrato di istruzione pubblico privato finanziato, in maniera diretta o indiretta, dallo stato, sono l’Italia e la Grecia, non a caso due dei paesi piu’ ideologici (e devastati) del continente (potrei sbagliarmi solo su paesi piu’ piccoli, non conosco ad esempio la situazione dei paesi baltici). E che si propone? Di togliere anche le briciole che lo stato attualmente da’, di fatto risparmiando un sacco di soldi (quelli che gli costerebbe prendere coloro che non frequentano le scuole statali). Mi sembra di essere ai tempi del crollo dell’Urss: i geriatrici governanti di allora pensavano che ci volesse piu’ socialismo, mentre invece venne fuori che ce n’era stato troppo.
Caro Gigi,
ma che c’entra l’URSS? Peraltro trovo divertente che lei citi la Grecia, uno stato in certo modo confessionale (suggerisco di leggere l’art.3 del Syntagma). In ogni caso, osservo che mentre qui si cerca di argomentare citando delle fonti o sollevando dubbi lei risponde con affermazioni apodittiche fondate sulla sua personale (anonima) autorità e sulla sua mancanza di tempo. Ce ne faremo una ragione. Peccato, avrei voluto vedere soddisfatta la mia curiosità circa le fonti di finanziamento pubblico alla scuola confessionale in Francia.
Vede, di apodittico c’e’, a mio parere, la tesi dell’Autrice. Che i sistemi dei principali paesi europei paragonabili al nostro come ampiezza della popolazione siano plurali e’ un fatto ben noto, e il fatto che se ne debba discutere e’, a mio parere, un esempio del provincialismo di questo paese. Sarei semmai grato io a lei se mi fornisse dei riferimenti relativi all’eventuale assenza di finanziamenti alle scuole non statali nei paesi che ho indicato. Se e’ meno impegnato di me non avra’ difficolta’ a fornirmeli.
Cito la Grecia, e sono un po’ sorpreso del suo stupore, come esempio negativo: e’ un paese in cui le contrapposizione ideologiche sono molto forti, ed e’ di fatto l’unico (non conosco, come gia’ detto, la situazione di paesi piu’ piccoli) che agisce nei confronti della scuola non statale in termini paragonabili a quelli italiani. Dunque suppongo che si tratti di un modello positivo per chi sostiene la sua tesi.
Le discussioni comparative, se si vogliono fare, vanno accettate con tutte le loro specifiche caratteristiche. L’esempio della Finlandia è semplicemente un controesempio relativo alla presunta necessità che una scuola esclusivamente pubblica debba essere scadente o meno efficiente di un modello misto.
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Se però vogliamo discutere nel dettaglio, come di solito è più produttivo fare, allora bisogna essere consapevoli che parlare di scuola o università privata finanziata dallo Stato in Italia o farlo invece in Germania, Francia o Svezia ha tratti irriducibili che non si possono tacere come irrilevanti.
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Il primo tratto è dato dal ruolo incomparabilmente dominante, sia sul piano culturale che di potere, che la Chiesa cattolica romana ha in Italia e non ha in altri paesi.
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Il secondo tratto è dato dal livello di finanziamento pubblico dell’istruzione, nettamente inferiore e con tendenza decrescente in Italia rispetto agli altri paesi menzionati.
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Non è in questione una modellistica astratta. Ad esempio, in Francia e Germania la natura vincolante delle condizioni che garantiscono la funzione pubblica di una scuola privata è estremamente rigorosa ed è fatta rispettare in modo draconiano (non solo con riferimento ai programmi, ma ad esempio quanto all’accoglimento di studenti di ogni etnia, confessione e retroterra economico). In Italia ciò non accade (in verità neppure la scuola pubblica riesce ad operare in modo sufficientemente uniforme a questo proposito).
Discutere a colpi ad effetto sull’URSS e i cosacchi in Piazza San Pietro serve appunto ad ideologizzare una discussione che di ciò non ha alcun bisogno.
In Italia ogni finanziamento all’istruzione pubblica è di fatto, non nel mondo delle idee, una genuflessione all’influenza formativa della Chiesa ed un indice di ulteriore disimpegno dello Stato nell’istruzione pubblica. Di questo si parla. Che in un mondo ideale, o semplicemente in paesi più pluralisti e consapevoli del ruolo sociale dell’educazione, una cooperazione pubblico privato possa rappresentare una soluzione funzionale è ben possibile. In Italia, dove relazioni privatistiche ricattatorie funestano i contratti di lavoro (insegnamento incluso), dove l’influenza capillare di istanze confessionali e politiche è normale, dove la compravendita di titoli di studio è pratica tutt’altro che rara, e dove lo stato è da sempre latitante rispetto al suo impegno formativo laico, parlare di finanziamento pubblico della scuola privata è semplicemente uno schiaffo alla Costituzione ed al buon senso.
ERRATA CORRIGE: al posto di
“in Italia ogni finanziamento all’istruzione pubblica è di fatto, non nel mondo delle idee, una genuflessione…”
leggi
“in Italia ogni finanziamento pubblico all’istruzione privata è di fatto, non nel mondo delle idee, una genuflessione…”
Sorry.
Concordo pienamentee con Andrea Zhok la finlandia è un controesempio ed i veri motivi del perché la scuola privata in Italia è quel che è lui gli ha esposti molto bene. Ad ogni modo un sistema pubblico può includere scuole private pubblicamente finanziate ma il controllo deve essere rigoroso, non deve essere confessionale e deve avere fondi sufficienti.
Riguardo all’economia sono io ora a non capire. Lo stato italiano spende attualmente il 4.4% del PIL per l’istruzione ovvero assumendo un PIL di 1500 Miliardi poco più di 65 Miliardi di Euro. Solo nel 2000 questo rapporto era del 4.5% e nel 1995 del 4.7% basterebbe tornare al 4.5% per avere 1.5 Miliardi di Euro in più. Col 4.8% c’è ne sarebbero giusto 6 in più. Gli sprechi? Riduciamoli sono d’accordo, ma usiamo quello che si ricava per pagare degnamente gli insegnanti (e selezionarli meglio). Del resto gli stati Europei comparabili a noi che lei cita hanno percentuali simili 4.5% la Germania 5.5% la Francia. Specialmente spendiamo troppo poco e la spesa cala da molti anni indipendentemente se poi vogliamo un sistema misto “fatto bene” o un sistema puramente pubblico.
Ma la storia parte da molto lontano!
Vediamo che cosa scriveva la Moratti nel 2001.
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SCUOLA STATALE O PRIVATA, PURCHE’ PRODUTTIVA
di Letizia Moratti, Il Sole 24 ore, Mercoledì, 26 settembre 2001
http://www.ecn.org/filirossi/morattisole.html
„Un bell’articolo da cui ricaviamo : a) che in un paese democratico pubblico e privato devono collaborare; b) che la nostra Costituzione sarebbe stata modificata di fatto con l’ingresso nella UE; c) che la competizione è fra sistemi; d) che la riforma dell’istruzione mirerà ad un sistema duale; e) che si istituiranno, fra i tanti consorzi ipotizzati nell’articolo, anche consorzi di presidi e che aziende private potranno gestire le strutture scolastiche ed altro; f) che le spese per il personale, nel bilancio del Ministero, devono essere ridotte del 15% in 5 anni (circa 10.000 miliardi in meno).
L’istruzione è il più prezioso “bene d’investimento” di cui disponiamo per realizzare politiche economiche e sociali in grado di sostenere la crescita e lo sviluppo futuri della società italiana. Le decisioni che prenderemo nei prossimi mesi sulle politiche dell’educazione hanno perciò una rilevanza strategica. Per poter assumere decisioni politiche di tale importanza, quali quelle che l’eccezionale gravità della situazione impone, occorre tuttavia formare un campo d’opinione concorde su alcuni principi di fondo. Il primo dei quali è che, in un Paese democratico, pubblico e privato devono collaborare nella realizzazione di un sistema educativo integrato. Una visione integrata e aperta del sistema dell’istruzione risponde ai principi di sussidiarietà. Principi che il Parlamento italiano, aderendo al nuovo ordinamento della società europea, ha votato e reso principio di natura costituzionale. Dal principio di sussidiarietà discende poi un altro fondamento teorico: mi riferisco al principio di competizione che deve ispirare l’intera macchina educativa nel raggiungimento di più elevati livelli di efficienza. CONTINUA!…..“
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Scuola pubblica, il ministro dell’Istruzione vuole i privati
Il Corriere della Sera, Giovedì, 27 settembre 2001
http://www.ecn.org/filirossi/moratticorriere.html
„Riportiamo questo articolo del “Corriere”, ricordando che “Repubblica” dello stesso giorno, con il titolo Moratti: “Scuola, più privato”, scriveva: “Più privato per la scuola pubblica. E’ questo il messaggio lanciato ieri dal ministro Letizia Moratti nel corso di un incontro organizzato dal movimento Scuola Libera. Il ministro ha affermato che esiste una scuola reale nella quale i confini tra il pubblico e il privato si sono già frantumati. Il ministro spiega: «La ricerca alla collaborazione pubblicoprivato prevede la ridefinizione di ruoli e funzioni dello Stato, che lo Stato non può più assolvere per la complessità degli obiettivi da raggiungere e la grandiosità delle risorse economiche necessarie per ottenerli»”. CONTINUA!…..
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http://www.ecn.org/filirossi/mafalda.gif
Una „rete di resistenza“ morta nel 2002, scriveva.
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http://www.ecn.org/filirossi/
LETTERA APERTA DELLA “RETE DI RESISTENZA A DIFESA DELLA SCUOLA PUBBLICA”, AI GENITORI, AGLI STUDENTI E ALLE STUDENTESSE, AI LAVORATORI E ALLE LAVORATRICI DELLA SCUOLA
“…………..
LA SCUOLA DIVENTA UN’AZIENDA L’unica preoccupazione degli attuali legislatori è ridurre i costi del sistema scolastico statale (l’Italia è l’ultima in Europa negli investimenti per l’istruzione: il 5% del PIL, contro il 5,7% della media europea). La finanziaria 2002 prevede cospicui tagli che colpiranno la scuola pubblica con danni irreparabili: 34.000 docenti in meno previsti nel prossimo triennio, 8.500 già nel prossimo anno scolastico. Mentre si operano questi tagli alla scuola pubblica, si finanzia col “buono scuola” la scuola privata. C’è il rischio, a questo punto, che la scuola statale – privata di adeguate risorse – venga ridotta al rango di scuola per i ragazzi con difficoltà e per le famiglie disagiate economicamente e culturalmente. Anche la riforma degli Organi Collegiali va nella direzione della privatizzazione e della aziendalizzazione della scuola. La sparizione dei consigli di classe e la sostituzione del consiglio di istituto con il “consiglio di amministrazione” denuncia, già nel lessico utilizzato, tali intendimenti. Viene fortemente ridimensionata la partecipazione dei docenti, dei genitori e degli studenti alle scelte che interessano la vita scolastica; la presenza del personale ATA viene addirittura eliminata. La gestione della scuola viene in pratica affidata ai dirigenti scolastici coadiuvati da “esperti” esterni. Il verticismo diventa il nuovo parametro di riferimento, e chi ne fa le spese è l’idea di una scuola partecipativa e democratica, aperta al contributo di tutti.
UNA SCUOLA CHE DIVIDE La scuola dello Stato ha garantito fino ad oggi un’istruzione pubblica di qualità, seppur da migliorare, offrendo una sostanziale uguaglianza di opportunità educative per tutti i giovani, indipendentente dalla loro origine sociale e culturale. Con i “buoni scuola” verranno finanziate, con i soldi dello Stato, quindi di tutti, scuole private che potranno essere fatte su misura per studenti e famiglie in base al censo, all’ideologia, alla religione, al territorio. In questo modo la scuola non sarà più opportunità di crescita, di confronto, di formazione umana e culturale tra studenti e studentesse, ma si creeranno scuole e culture separate. Solo una scuola pluralista e laica invece è garanzia di salvaguardia della democrazia, luogo di confronto e crescita umana e culturale per tutti i giovani, indipendentemente dalle loro origini e condizioni sociali, dalle loro convinzioni politiche o religiose.
LA VERA SCUOLA LIBERA La vera scuola libera è quella che: - assicura il libero confronto delle idee, salvaguardando il pluralismo nell’insegnamento e nell’apprendimento; - recluta imparzialmente i docenti, in base ai titoli culturali, professionali e di servizio, secondo leggi e regolamenti; - garantisce la libertà e l’autonomia dell’insegnamento, esercitata anche attraverso la sua dimensione collegiale, nell’interesse dell’allievo; - accoglie tutti gli allievi, compresi i portatori di handicap; - non discrimina gli allievi in base alla loro appartenenza sociale, religiosa, nazionale, ecc., favorendone invece l’inserimento nel rispetto delle differenze. Tutto questo finora è stato ricercato e assicurato solo dalla scuola statale, nonostante i ripetuti tentativi di dequalificarla, a cominciare dalla riduzione delle risorse. Se la riforma verrà approvata nei termini in cui è stata illustrata, la scuola pubblica statale verrà ulteriormente e radicalmente ridimensionata, compromettendo la qualità dell’istruzione e della formazione culturale e professionale delle future generazioni.
Una scuola di qualità diventerà possibilità e prerogativa solo di una minoranza della popolazione italiana. Offriamo questo nostro contributo a studenti, studentesse e genitori, non solo per esprimere le nostre preoccupazioni, ma anche perché riteniamo di fondamentale importanza le loro considerazioni su un tema così importante e delicato come quello della scuola.“
[…] (pubblicato su Roar) Print PDFCONDIVIDI Questa voce è stata pubblicata in Referendum comunale e contrassegnata con referendum, scuola. Contrassegna il permalink. ← Fionde contro carri armati […]
[…] [articolo di Francesca Coin del 13 aprile 2013 su ROARS] […]
Noi vogliamo scuole che insegnino a rispettare le leggi, che insegnino a tutti che pagare le tasse è bello e che le cose statali sono nostre. Scuole che insegnino la responsbilità! Che insegnino ad mare l’arte e la cultura.
La scuola statale è mia e farò di tutto per farla funzionare al meglio.
“Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.”
Della serie: avendo il papa’ non ho bisogno del Padre.
[…] super partes che ha deciso di scendere attivamente in campo con la maglia della loro squadra… continua a leggere Share this:StampaEmailMi piace:Mi piace […]
[…] Francesca Coin, da roars.itNelle ultime settimane il Referendum consultivo sul finanziamento pubblico alle scuole paritarie […]
Uno dei principali problemi deriva dal fatto che nel corso degli anni la Corte costituzionale ha sempre evitato con cura di esprimersi con chiarezza sull’interpretazione dell’inciso costituzionale “senza oneri per lo Stato”. E’prevalsa la garanzia della libertà di scelta educativa delle famiglie. Eppure la dottrina era stata chiarissima. Senza oneri per lo Stato significa, semplicemente, senza oneri per lo Stato.
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