[la vicenda è stata poi ridimensionata dal Viceministro Fioramonti, ma le considerazioni che seguono mantengono tutta la loro attualità N.d.R.]

Il “pancismo” che ha rapito una buona parte dell’ambiente sociale italiano, per fortuna non tutto, ha partorito l’ultimo prodotto, davvero inquietante: una sorta di “commissario del popolo” o “degli Italiani”, secondo l’attuale vezzo linguistico.  Suo compito è vigilare sui concorsi universitari, controllarne la regolarità, purificandoli da quel “male” che, anche quando non ha il carattere della illegalità (in questo caso ovviamente viene interessata l’autorità giudiziaria), tuttavia è manifestazione di prevaricazione e ingiustizia perpetrata dalla classe dei docenti universitari ai danni dei giovani ricercatori. Questo è quanto dice Dino Giarrusso, nominato dal governo in carica “commissario” ai concorsi universitari, ripreso sulle pagine de “La Sicilia” di mercoledì 5 settembre.

Non v’è dubbio che le parole di Giarrusso suscitino il plauso di quanti ritengano che l’Università italiana sia animata da istanze familistiche, amicali, lobbistiche ed erotico-affettive; come dire: si deve far parte del giro per andare avanti. Probabilmente ha ragione Sandro Corbino quando riconosce alla classe docente una buona dose di responsabilità.

Questo mio intervento, pur tenendo conto delle parole di Corbino, sulla cui estensione tornerò brevemente alla fine di questo pezzo, intende soffermarsi sulla figura del “commissario”.

Dico cosa ovvia se ricordo che la figura ordinaria del “commissario” è quella di uno specifico organo dello Stato di diritto, preposto al perseguimento dei reati ed alla tutela dell’ordine pubblico: il “commissario di polizia”, appunto. Vi è poi la previsione di una più ampia funzione commissariale in tutti quei casi nei quali occorra intervenire rapidamente, e con specifica delega governativa, per far fronte a situazioni di grave danno pubblico e sociale, dal governo temporaneo di comuni sciolti per mafia alla gestione straordinaria conseguente a disastri naturali. In ogni caso si tratta della delega di una funzione temporanea, con la finalità di far fronte ad una situazione grave e soprattutto eccezionale; tale funzione viene meno quando le condizioni ordinarie del governo della situazione vengano ripristinate. Per esempio, la elezione di una nuova amministrazione comunale dopo lo scioglimento della precedente. Si tratta, in più, di un organo dotato di quelle competenze che sono specificamente legate alla materia nella quale deve intervenire.

Nulla di tutto questo nel caso del “commissario” ai concorsi universitari, salvo a ritenere che il sistema concorsuale universitario, in sé, costituisca un perenne attentato all’ordine pubblico ed alla sicurezza sociale. Il che contraddice con la realtà dell’università italiana, la quale continua a reclutare in grande misura, pur nella estrema scarsità di risorse, giovani così ben formati da trovare riconoscimenti scientifici in Italia e all’estero. Torno quindi al “commissario” come antidoto al “male” universitario. La storia, nel suo passato, ha sperimentato una idea analoga, quando ha interpretato come un “male” da estirpare l’esistenza, in quanto tale, di interi ceti sociali, indipendentemente da specifici atti di illegalità. Pensiamo al giacobinismo della Rivoluzione francese o alla istituzione dei commissari del popolo in epoca sovietica. Da questi esempi emerge come si tratti di una figura effettivamente “di sistema”, pensata come a-tecnica e, proprio in virtù di ciò, da ritenere diretta espressione di quel giudizio popolare, che va dritto alla “sostanza” delle cose, al di là di una qualsiasi forma di legalismo. Quando Dino Giarrusso fa riferimento ad un “male” che scorre dentro il meccanismo dei concorsi universitari, anche quando non si registrino vizi di legalità, sembra far riferimento proprio ad una figura di commissario del popolo, di stampo giacobino-sovietico. Quella di Giarrusso, infatti, è una figura scelta ad hoc, proprio perché priva, cioè, di specifica competenza (“scientifica”, in questo caso) ma dotata, invece, di una ben particolare competenza “mediatica”, formatasi in una famosa trasmissione televisiva di rete Mediaset. Una figura, dunque, che è, per definizione, giudice e portavoce di quell’abito mentale popolare, che è la finalità principe dello strumento mediatico televisivo.

Con questa descrizione ho cercato di mostrare come la figura del “commissario ai concorsi” assomigli più a quella di ascendenza giacobina che non a quella figura temporanea ed eccezionale prevista dall’ordinamento giuridico italiano e come sia fuori di qualsiasi previsione normativa di sistema. Ne segue che essa è fuori dei principi e dei canoni dello stato di diritto. In particolare, nel caso in questione, violare il principio di competenza implica violare il principio di responsabilità istituzionale: in base a quali parametri, oggettivamente conosciuti, si identifica un “male” anche in assenza di una figura di reato? Quale difesa è lasciata al soggetto imputato del “male”? A chi si ricorre? Infine: come essere sicuri che il giudizio del commissario sia più oggettivo e imparziale di quello al quale pretende di sostituirsi?

Concludo, tralasciando di intervenire sul malcostume dei concorsi universitari, perché, con i tempi che corrono, le mie parole sarebbero tacciate di difesa corporativa. Dico solo due cose. La prima: non è vero che tutte le vacche sono grigie: no! esistono quelle bianche e quelle nere. Intendo dire che esistono persone che svolgono il proprio lavoro con onestà intellettuale e pratica e altre che preferiscono soddisfare interessi privati. La figura del “commissario”, scelta con i criteri che ho provato ad esporre, non garantisce affatto i primi e non è detto che ridimensioni i secondi; mette invece in discussione un aspetto più generale e che più dovrebbe interessare a tutti: quello della dignità sociale della Istituzione, della libertà di ricerca e di insegnamento e (ma solo di conseguenza) dell’autonomia, costituzionalmente affermata (art. 33 cost.), delle università e degli enti di ricerca.  La seconda: l’esigenza di distinguere “il grano dalla pula” vale, come è ovvio, in tutti i campi delle pratiche sociali (e non solo in Italia, e lo dico con cognizione di causa), anche se a questo “mondo” più ampio si fa riferimento con minore acredine rispetto a quello che viene praticato, per l’Università, dall’ambiente mediatico-giornalistico. Perché? Preferisco rimandare la risposta ad altra occasione.

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3 Commenti

  1. “Giarrusso, l’esperienza delle Iene mi servirà per i controlli dei concorsi …”
    https://www.corriere.it/…/giarrusso-l-esperienza-iene-mi-servira-controlli-concorsi-6deed…
    4 set 2018 – L’ex giornalista di Italia Uno: «Faccio questo perché ci credo davvero, fossi rimasto in televisione avrei guadagnato molto di più»
    Ora c’è anche il caso Toffa, con le dichiarazioni sugli studi universitari e sulla medicina oncologica. Il circo è completo.
    Però, concordo, “la classe docente [ha] una buona dose di responsabilità” e non “probabilmente”. Perché attenuare sempre? E perché non aggredire il problema alle radici generali sociali, economiche (risparmio mascherato con la meritocrazia), politiche (supponenza, ipocrisia, inadeguatezza delle élites), relazionali (sfiducia nelle istituzioni di qualsiasi tipo). Sono generalizzazioni di carattere induttivo, dettate dalle prassi sociali effettive.

  2. è ciò che avviene in Italia in questo momento: tutto così confuso che si pensa per ogni cosa ad un commissario. Da qualche parte ho sentito che Giarrusso avrebbe detto che i poveri giovani verrebbero discriminati… Ahimè vi è evidenza del contrario!!!
    Informarsi, non giudicare per voci e stereotipi: sarebbe la prima cosa da fare. Poi, fermate questa politica del reclutamento che hanno dato modo a pochi di fare le loro misere vendette.
    Per le vittime, ma anche per l’Università.

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