Negli ultimi dieci anni, un pugno di grandi editori commerciali, quelli che pubblicano le riviste accademiche di maggior impatto a livello mondiale, sono riusciti a piazzarsi, attraverso imponenti acquisizioni, nei gangli strategici dell’infrastruttura della produzione e distribuzione del sapere accademico. Questi editori, attraverso il meccanismo del ranking delle università, stabiliscono anche indirettamente i criteri per valutarle. I ranking hanno uno scopo (e un effetto) simile ai tristemente noti rating delle banche internazionali, fornendo una valutazione basata su criteri fortemente discutibili. E nondimeno rettori e amministratori di grandi e piccole università di tutto il globo attendono queste “classifiche” come i governi del mondo attendono ogni anno il verdetto di Moody’s o Standard & Poor’s sui titoli sovrani. Uno sguardo alle mappe della distribuzione dei ranking universitari e a quella dei rating sovrani ci mostra che questa comparazione è molto più di una metafora. Siamo dunque a un passaggio fondamentale del lungo processo di trasformazione della scienza. La produzione e diffusione della conoscenza mainstream (non parliamo delle nicchie libere, tollerate per la loro ininfluenza), in ogni sua componente e a ogni livello è di fatto appaltata a oligopoli privati.

L’impero di GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft) è la punta dell’iceberg di un lungo processo di trasformazione e manipolazione dell’accesso alla conoscenza iniziato con la digitalizzazione di massa. Indubbiamente, il fatto che Google e Facebook insieme distribuiscano (ovvero filtrino) il 75% delle news mondiali è ragione di forti preoccupazioni. Eppure, per quanto devastante per le democrazie, la privacy e i diritti umani, GAFAM è uno strumento ancora fragile nelle mani dei cosiddetti poteri globali. Come sanno bene gli studiosi degli effetti del colonialismo, a cominciare da uno dei suoi fondatori, Frantz Fanon, qualsiasi forma di dominio e di sfruttamento non è mai veramente effettiva se prima non abbia completamente cancellato le culture e le conoscenze dei dominati. GAFAM scavalca i media tradizionali, veicola i contenuti, riprogramma e orienta le nostre azioni, ecc. ma è anche uno pericoloso “specchio” dell’esistente. E questo non va bene. La posta in gioco infatti non è solo la manipolazione delle elezioni politiche e la sorveglianza globale. Ogni potere, per realizzare e implementare il suo progetto di dominio, ha bisogno di controllare, ma soprattutto omogeneizzare le culture. E dunque il primo nemico è la diversità. Punto di partenza di questo progetto, come scrive Fanon, è delegittimare le conoscenze “indigene”, rendendole invisibili all’esterno e indesiderabili all’interno. Quando la conoscenza locale sarà divenuta irrilevante per i suoi stessi detentori, il colonizzatore offrirà un modello vincente, uno standard che i colonizzati non potranno non abbracciare. C’è un momento chiave in questo processo di autospossessamento ed è quello in cui, come nota Paulo Freire, a un certo punto l’oppresso vuole essere come l’oppressore. Nel mondo della ricerca, questo processo è già quasi totalmente compiuto. Nel senso che la possibilità di creare e diffondere conoscenze al di fuori dei circuiti e delle piattaforme anglofone (i Five Eyes della produzione scientifica, per capirci), ma soprattutto la possibilità di incidere sulla realtà è oggi vicina allo zero. Ma come è potuto accadere tutto ciò?

Negli ultimi dieci anni, un pugno di grandi editori commerciali, quelli che pubblicano le riviste accademiche di maggior impatto a livello mondiale, sono riusciti a piazzarsi, attraverso imponenti acquisizioni, nei gangli strategici dell’infrastruttura della produzione e distribuzione del sapere accademico. Una ricerca del 2015 ha mostrato che i cinque principali colossi rappresentano più del 50% di tutti gli articoli pubblicati e determinano a proprio piacimento i prezzi delle riviste, ricavando enormi profitti a danno delle università, dei centri di ricerca e (non da ultimo) dei contribuenti che sovvenzionano la ricerca pubblica. Ma questa è solo la punta dell’iceberg. Ciò che molti ignorano è che questi editori, attraverso il meccanismo del ranking delle università, stabiliscono indirettamente i criteri per valutarle. I ranking hanno uno scopo (e un effetto) simile ai tristemente noti rating delle banche internazionali, fornendo una valutazione basata su criteri fortemente discutibili. E nondimeno rettori e amministratori di grandi e piccole università di tutto il globo attendono queste “classifiche” come i governi del mondo attendono ogni anno il verdetto di Moody’s o Standard & Poor’s sui titoli sovrani. Uno sguardo alle mappe della distribuzione dei ranking universitari e a quella dei rating sovrani ci mostra che questa comparazione è molto più di una metafora. Se qualcuno crede ancora alla favola che “con la cultura non si mangia”, sovrapponga le due mappe qui sotto, quella dei ranking e quella di Standard & Poor’s: egemonia geopolitica ed egemonia culturale ed epistemica sono due facce della stessa medaglia.

Shanghai Ranking’s Academic Ranking of World Universities 2018. Le zone bianche non sono classificate (notare il continente africano).

Rating degli Stati del mondo compresi tra AAA e B secondo Standard & Poor’s. Le tonalità del verde rappresentano da AAA (Five Eyes, ovviamente) a A, giallo BBB, rosso B, ecc. Le zone grigie non hanno rating (?).

Per questa e altre ragioni le istituzioni spingono i propri ricercatori a pubblicare nelle riviste perlopiù controllate dai “big five”, i quali diventano gestori e di fatto “proprietari” di un contenuto che non hanno prodotto. Un po’ come se la FIAT producesse automobili senza pagare né la plastica né l’acciaio né lo stipendio ai lavoratori, ma anzi imponendo a questi ultimi tasse salatissime per poterle guidare: anzi, guardare.

In sostanza il meccanismo di costruzione (e manipolazione) del prestigio di una rivista e quello della valutazione del ricercatore/università che produce l’articolo/ricerca riflettono una struttura circolare perversa, un algoritmico ouroboros che possiamo semplificare così:

  1. Gli editori pubblicano le riviste.
  2. Le università le comprano.
  3. Le riviste sono indicizzate in grandi database (perlopiù dagli stessi editori che le producono: Elsevier, Thomson Reuters).
  4. Le università adottano gli indici (Scopus=Elsevier, Web of Science= già Thomson Reuters) per valutare i propri ricercatori, cioè sé stesse.
  5. E il ciclo continua…

Da questo serpente che si morde la coda sono escluse, come possiamo notare nelle immagini sopra, ampie zone “grigie”: intere regioni, geografie e culture di cui il sistema rating-ranking certifica l’invisibilità e dunque l’irrilevanza. Sono i margini della conoscenza di cui parlava il sociologo Geoffrey Bowker e il non-integrated gap descritto anni fa da un generale del Pentagono. Un Sud pericoloso, utile, sì, purché rimanga irrilevante: da circondare, sfruttare, magari usare come discarica, ma ovviamente privo di conoscenza. Il processo di autocolonizzazione porta inevitabilmente a escludere i propri stessi territori dal perimetro della ricerca – e questo riguarda tutti, anche l’Italia, ex Nord del mondo. Soltanto che mentre il Sud organizza la resistenza e crea alternative, i paesi occidentali, vittime degli stessi meccanismi che hanno contribuito a costruire, soffocano strangolati dalla loro “eccellenza”.

L’ouroboro infatti è una trappola dalle quale sembra impossibile uscire finché le università accetteranno di essere valutate da imprese private. Il nodo non può essere risolto soltanto con l’apertura della ricerca scientifica (cioè l’adozione a trecentosessanta gradi dell’open access): il problema è rifiutare il sistema di valutazione che alimenta il Leviatano e che elimina alla fonte ogni possibilità di far emergere la diversità culturale. Ovviamente uscire dalla tagliola delle riviste paywall è necessario e l’open access, possibilmente sul modello trasversale latinoamericano, va adottato il prima possibile. Ma non sarà sufficiente per liberare la scienza, giacché le grandi multinazionali dell’editoria, sulla scia di GAFAM, stanno spostando il loro modello di business dai contenuti ai dati. Questo spiega l’acquisizione di (ex) piattaforme ‘modello’ della scienza aperta, come per esempio Mendeley, acquistato nel 2013 da Elsevier. Ciò che interessa oggi a questi oligopoli infatti non è soltanto (o non è più) mantenere il controllo sui contenuti, ma raccogliere dati sull’intero processo della produzione scientifica, con lo scopo di gestirla, influenzarla e in ultima analisi indirizzarla. Il che poi vuol dire anche ingoiarsi l’ultima fetta, sebbene sempre più sottile, di denaro pubblico: il flusso dei finanziamenti per la ricerca.

Siamo dunque a un passaggio fondamentale del lungo processo di trasformazione della scienza, ma direi in generale della conoscenza, iniziato venti anni fa con la digitalizzazione e la rete. La produzione e diffusione della conoscenza mainstream (non parliamo delle nicchie libere, tollerate per la loro ininfluenza), in ogni sua componente e a ogni livello (da Google a Elsevier, da Facebook a Monsanto-Bayer), è di fatto appaltata a oligopoli privati che riflettono precisi contorni geografici, agende politiche e interessi epistemici. Sarebbe riduttivo e soprattutto ingenuo affermare che lo scopo di questi conglomerati sia quello di “fare soldi” con i nostri dati, le nostre informazioni e le nostre idee. Mi pare che l’immagine che emerge, seppure sfocata dalla pressocché totale segretezza degli algoritmi, assomigli di più a una cartolina distopica: un processo di riscrittura e riprogrammazione della memoria umana su scala pressocché universale. È uno scenario che dovrebbe spingere tutti i ricercatori e le ricercatrici delle periferie epistemiche del mondo a lottare per difendere l’unica “sovranità” che conta: quella della ricerca e della cultura.

Una versione precedente di questo testo è apparsa su: https://infolet.it/2019/07/30/lalgoritmo-che-imprigiona-la-ricerca/

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3 Commenti

  1. Strano che non abbia ancora capito come la trappola aveva ed ha un nome preciso: INTERNAZIONALIZZAZIONE.
    Che altro non era, e non è, che un processo di assimilazione culturale della quale l’inglese è il virus infettante e, da tempo, pandemico.
    Voglio ricordare che quando feci un lungo sciopero della fame davanti al MIUR nel 2014 (50 lunghi giorni) Roars rifiutò un mio articolo sullo scempio dell’alta formazione in lingua italiana al Politecnico di Milano.
    Ora spero che Roars sostenga il nostro appello per l’italiano lingua di lavoro europea.
    https://buonacausa.org/cause/italiano-lingua-di-lavoro-europea

  2. L’egemonia feroce è degli Stati Uniti. Qualcuno si è piegato con i risultati che si vedono. Quante case editrici italiane sono morte? Quante lottano per sopravvivere?
    Comunque, anche se hai pubblicato con case editrici prestigiose, puoi sentirti dire che però non hai detto nulla di nuovo e perciò non meriti. Non sei nella lista di chi deve fare carriera. Perché la verità è che ad ogni stortura ci si può opporre e così anche chi vuole imporre le proprie regole è costretto a rinunciare. Perché il mondo intellettuale è stato nella quasi totalità servo?

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