Nature ha lanciato in ottobre «Nature Italy» in versione bilingue (inglese/italiano). Si tratta del primo esperimento europeo di una versione in cui, finalmente, anche la lingua nazionale assume un ruolo di primo piano. Questa iniziativa assume un valore simbolico straordinario in un momento in cui le lingue nazionali sono state completamente sostituite da un inglese globalizzato, unica forma di comunicazione universale. È uno scandalo che ormai bandi e progetti di ricerca nazionali, congressi e seminari, fino all’estremo utilitarismo di alcune università che propongono insegnamenti solo in inglese per acquisire maggiori punteggi nelle valutazioni, siano sottoposti alla dittatura di un pericoloso monolinguismo. Perseverando su questa strada non solo si impoveriscono le lingue nazionali (la scienza, con le sue veloci evoluzioni, ha sempre bisogno di coniare nuovi vocaboli), ma si finirà anche per impoverire la qualità stessa del linguaggio scientifico. Studiamo bene l’inglese, per carità. Ma continuiamo a favorire lo sviluppo della scienza, degli altri saperi in generale e delle stesse lingue pensando e redigendo saggi ognuno nella propria lingua. La vera lingua dell’Europa, aveva genialmente affermato Umberto Eco, è la traduzione.
La prestigiosa rivista scientifica Nature, la più importante al mondo assieme a Science, ha lanciato in ottobre «Nature Italy» in versione bilingue (inglese/italiano). Diretta da Nicola Nosengo, si tratta del primo esperimento europeo di una versione in cui, finalmente, anche la lingua nazionale assume un ruolo di primo piano. Una scelta significativa, se si pensa che il gruppo «Nature» ha ben centocinquant’anni di storia alle spalle e una consolidata posizione apicale nella comunità scientifica internazionale.
Al di là degli stimoli che potranno venire per qualificare ancora di più il dibattito sulla scienza e la sua divulgazione nel nostro Paese, questa iniziativa assume un valore simbolico straordinario in un momento in cui le lingue nazionali sono state completamente sostituite da un inglese globalizzato, unica forma di comunicazione universale. È uno scandalo che ormai bandi e progetti di ricerca nazionali, congressi e seminari, fino all’estremo utilitarismo di alcune università che propongono insegnamenti solo in inglese per acquisire maggiori punteggi nelle valutazioni, siano sottoposti alla dittatura di un pericoloso monolinguismo.
Ora persino i PRIN (finanziati e banditi dal Ministero dell’Università e della Ricerca) considerano accessoria la versione italiana e obbligatoria quella in inglese (su questa autolesionistica decisione è recentemente intervenuto il Presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini, con una lettera di protesta indirizzata al ministro Gaetano Manfredi).
Tra le varie sette che si battono contro il volgare, Dante ne segnala una in particolare – la citazione è opportunamente riproposta nel sito dell’Accademia della Crusca – i cui argomenti sono animati da «cupiditate di vanagloria»: «Sono molti che per ritrarre cose poste in altrui lingua e commendare [lodare] quella, credono più essere ammirati che ritraendo quelle de la sua. E sanza dubbio non è sanza loda d’ingegno apprendere bene la lingua strana [straniera]; ma biasimevole è commendare quella oltre a la verità, per farsi glorioso di tale acquisto» (Convivio, I, XI, 15). Già all’epoca di Dante, insomma, circolava l’erronea convinzione che parlare in un’altra lingua possa renderci degni di maggiore ammirazione.
Perseverando su questa strada (come ha spiegato persuasivamente la scienziata Maria Luisa Villa in L’inglese non basta) non solo si impoveriscono le lingue nazionali (la scienza, con le sue veloci evoluzioni, ha sempre bisogno di coniare nuovi vocaboli), ma si finirà anche per impoverire la qualità stessa del linguaggio scientifico. Gli studiosi non di madrelingua, pur esprimendosi in un inglese corretto, non riusciranno (tranne in rari casi) a manifestare il loro pensiero con quella profondità e ricchezza che solo la propria lingua può offrire. Einstein aveva sottolineato – con una brillante battuta: «Nessun matematico pensa per formule» – l’importanza delle lingue “naturali” quando bisogna spiegare concetti e idee. Studiamo bene l’inglese, per carità. Ma continuiamo a favorire lo sviluppo della scienza, degli altri saperi in generale e delle stesse lingue pensando e redigendo saggi ognuno nella propria. La vera lingua dell’Europa, aveva genialmente affermato Umberto Eco, è la traduzione.
Concordo assolutamente! È una esigenza che ho sempre sentito e anche applicata in pratica (l’articolo mio che reputo migliore è ancora solo in italiano). Dovrebbe però esserci più energia per traduzioni che rendano accessibile il contenuto anche a chi non parla l’italiano (anche per ovviare la puzza sotto il naso dei colleghi italiani che leggono solo se è in inglese).
Plaudo. I risultati più grandi si hanno nella propria lingua, per quanto bene tu ne conosca un’altra.
Grazie.
Non credo che il problema stia nello scrivere articoli scientifici in inglese. La comunità scientifica è internazionale e serve una lingua condivisa. Adesso è l’inglese, una volta era il latino, e questo non ha impedito lo sviluppo di lingue nazionali. Il problema a mio avviso sta nelle traduzioni, in cui spesso si preferisce usare un termine della lingua da cui si traduce (specie l’inglese) invece che sforzarsi di trovarne o coniarne uno italiano, e l’uso di termini inglesi anche quando esistono i corrispettivi italiani, come avviene ad esempio con step, team, set (in un libro di autorevole accademico si legge che ogni società ha il suo set di leggi e di costumi), design (adesso ho scoperto che si presenta un design e non un progetto di ricerca) e tante altre. Il processo è avviato dall’alto (e subito vengono in mente i recenti lockdown e recovery fund, e il famigerato Jobs Act) e i siti internet delle università fanno la loro parte. E’ dall’alto che bisognerebbe invertire la tendenza.
Pensavo fosse un malcostume recente (non ho ricordo che anni fa avvenisse con tanta virulenza), ma ho pescato nell’Elogio della Follia (Erasmo da Rotterdam, 1511) una testimonianza del fatto che il fenomeno è antico, e anche una spiegazione del perché è così diffuso e tollerato. Ecco cosa dice degli “oratori moderni” nel cap. 6.
“Costoro si credono d’essere pari agli dèi se possono apparire bilingui come le sanguisughe, e giudicano gran cosa inframezzare ai loro discorsi latini qualche parola greca come ornamento, non importa se a proposito. Se poi non conoscono alcuna lingua straniera, prendono da qualche scartafaccio ammuffito quattro o cinque parole antiquate, per abbagliare il lettore, che, se capisce, gongola della propria sapienza, e se non capisce resta tanto più ammirato quanto meno comprende quel che legge; perché uno dei piaceri più eletti dei nostri seguagi [seguaci della follia] consiste nel guardare le cose tanto più a bocca aperta quanto più sono esotiche”
@anna berti. Provincialismo.
È diffuso.
Giusto far circolare le idee attraverso una lingua franca.
Ma le grandi idee le si partorisce più facilmente nella propria lingua, poi bisogna semmai tradurle per un pubblico più ampio. Quando ci daranno tempo per studiare…