Reclutare coppie accademiche è un bene o un male? Prendendo spunto da un articolo di Ilaria Capua evocante la strategia, perseguita in molti atenei statunitensi e non ignota all’esperienza di alcuni sistemi universitari europei, di incentivare le c.d. “dual career academic couples”, Giovanni Pascuzzi si interroga sui pro e i contra legati alla scelta – peraltro già perseguita in alcune esperienze pilota nel nostro sistema – di emulare questo modello nell’attuale contesto normativo italiano, ove (in generale e a prescindere dal dibattito sulle “coppie accademiche”) è stata grandemente ridotta la possibilità che le carriere si sviluppino all’insegna della mobilità fra sedi universitarie come poteva accadere in un ancor non lontano passato.
Su Corriere Innovazione del 1° dicembre 2017 Ilaria Capua richiama un istituto in auge oltreoceano denominato «dual career couples»: le Università interessate a reclutare un docente o una docente particolarmente bravo/brava offrono una posizione accademica anche al coniuge. In questo si favorisce un maggiore benessere della famiglia che si traduce in una maggiore produttività sul luogo di lavoro, a propria volta volano di una maggiore competitività dell’Ateneo.
Ilaria Capua sostiene che proporre una cosa del genere in Italia farebbe gridare allo scandalo. Questo non è del tutto vero. Il Dipartimento della conoscenza della Provincia di Trento, nel vigente piano della ricerca (pag. 66), ha esplicitamente previsto quanto segue: «Nell’ottica di favorire la mobilità e attrarre ricercatrici e ricercatori di punta ma anche di contribuire ad una gestione di qualità delle risorse umane, tra le azioni favorite, verrà anche considerata la possibilità di attivare iniziative volte all’accoglienza delle coppie “a carriera duale” (Dual Career Couples), cioè a quelle coppie dove entrambi i partner seguono un percorso di carriera nel mondo accademico».
Nel piano strategico dell’Università di Trento 2017-2021 si legge testualmente: «L’Ateneo si propone di continuare sulla strada intrapresa nell’eliminare le asimmetrie di genere, rafforzare le politiche di conciliazione e genitorialità, anche con forme di dual career couples compatibili con l’ordinamento legislativo nazionale».
Non sempre, quindi, il meccanismo in parola desta scandalo, ma, a volte, esiste la convinta volontà di esplorarne le potenzialità.
Sotto questo profilo occorre innanzitutto valutare alcuni ostacoli di natura giuridica.
Nel nostro paese vige il principio secondo il quale ad un impiego pubblico si accede per concorso. Certo, si possono mettere a bando due posizioni (per il marito e per la moglie). Ma ammesso che si riesca a dimostrare che l’Ateneo abbia effettivamente bisogno anche della posizione del coniuge, non si può essere certi che entrambi i coniugi vincano il concorso né tantomeno si potrebbe bypassare il sospetto che si tratti di bandi ad personam. Si ricordi, per inciso, che a seguito della riforma Gelmini due coniugi non possono essere chiamati in uno stesso Dipartimento.
L’attivazione dell’istituto del Dual Career è favorita quando le Università possono negoziare il trattamento economico di ciascun docente. Chi ha potere contrattuale può chiedere uno stipendio maggiore, ovvero benefits come la casa o l’automobile, o, appunto, l’assunzione del coniuge. In Italia questo è molto più complicato perché lo statuto giuridico ed economico dei docenti è stabilito dalla legge ed è uguale per tutti.
Ma oltre ai profili giuridici, occorre svolgere anche considerazioni di opportunità ed efficacia.
Al di là dell’assunzione non è detto che nel tempo l’Ateneo possa e tanto meno debba garantire la progressione ad entrambi. A tacere del fatto che la carriera della coppia può ostacolare la mobilità dei docenti che è, invece, un obiettivo da perseguire con priorità nel nostro paese.
Più di tutto, però, andrebbe approfondito l’impatto sulla comunità universitaria: l’esistenza di coppie sposate (che possono assumere anche ruoli di vertice nell’Ateneo) crea ricadute virtuose sulla vita della comunità o innesca meccanismi deteriori facendo sì che l’interesse della famiglia venga anteposto a quello della istituzione?
In conclusione: ben venga la proposta di valutare ciò che accade in altri paesi. Sempre a patto di verificare la percorribilità e la reale efficacia di tali proposte.
L’unico argomento che vorrei si abbandonasse è quello, pure usato da Ilaria Capua, secondo il quale «un’alta professionalità raramente si accompagna con un partner inetto». Fa venire alla mente quel professore italiano che giustifica il fatto che il proprio figlio sia diventato professore nel suo stesso Dipartimento perché (essendo suo figlio) «è bravo avendo respirato l’aria dell’Università sin da bambino».
Originariamente pubblicato su http://www.giovannipascuzzi.it/
Si tratta di una trovata civile ed essenziale, vista la particolarità del lavoro di ricerca. Attualmente, tra chi si dedica alla ricerca, si sa che il “two-body problem” è “il problema”. Noi dobbiamo fare ancora molta strada. Comunque ottimo intervento. Era ora se ne cominciasse a parlare.
Tutto molto bello. Il problema è che, in Italia, le cosiddette ‘coppie accademiche’ sono di ben altro genere: padre-figlio o anziano professore-ex giovane allieva. Non credo che a Trento abbiano in mente questo.
Qui su ROARS siamo tutti persone di una certa cultura e, si suppone, con uso di mondo eppure stiamo a raccontarcela che se una cosa si fa in America è cosa buona e giusta. Regà, stiamo parlando di un paese il cui presidente faceva firmare contratti di riservatezza a pornostar neanche di primissimo piano. Secondo me il dual career academic couples in America se lo giocano esattamente come ce lo giocheremmo qui in Italia.
Le osservazioni dell’Autore sono puntualissime e degne di essere accolte in qualsiasi Paese civile che voglia rilanciare l’Università dando spazio a quanti lavorano in essa con profonda passione e dedizione. L’articolo tocca le vicende personali mie e di mio marito, coppia accademica divisa tra due Atenei, uno del Nord ed uno del Sud. Ci siamo conosciuti dopo il dottorato, le nostre carriere non si sono mai incrociate né influenzate reciprocamente, né esiste possibilità che l’uno dei due favorisca la carriera dell’altro. Malgrado tutto ciò……la famiglia rimane divisa e dilaniata dalla cospicua distanza geografica delle due sedi universitarie. Ovviamente la riunione della coppia produrrebbe un significativo aumento del benessere della famiglia nel suo complesso, ed un inevitabile riscontro positivo in termini di entusiasmo e produttività accademica, poiché le energie ed il tempo ora destinati ai viaggi potrebbero essere molto più fruttuosamente dedicati alla didattica ed alla scienza. Last but not least, aggiungo che, nel mio modo di vedere la questione, il problema di base non è tanto che si debba riservare un posto al coniuge, ma che si dovrebbe assicurare una vera mobilità universitaria, in modo che il coniuge possa affrontare limpidamente i concorsi nella stessa sede del coniuge, o perlomeno nelle sedi vicine, senza doversi imbattere ogni volta nella costante e consolidata preclusione di ogni possibilità per la presenza di candidati interni privilegiati. Prima del Dual Carrer penso che vada affrontato il ‘localismo’ e la progressione verticale che stanno uccidendo lo spirito dell’Università italiana e, insieme ad essa, la vita familiare stessa delle coppie accademiche.
“L’attivazione dell’istituto del Dual Career è favorita quando le Università possono negoziare il trattamento economico di ciascun docente.”
Giuridicamente non mi pare sia il caso italiano, quindi non vedo la possibilità di applicazione del DCC.
Per attuarla bisognerebbe stravolgere la giurisdizione vigente, non la vedo molto facile né tantomeno esente da problemi rilevanti nella nostra italietta con vocazione postmoderna ma non troppo.
E poi manca sempre da questi discorsi sul sesso degli angeli la questione etica professionale e pubblica (chissà perché…mah!), dimenticandosi che è l’unica base sulla quale l’autonomia accademica può funzionare.
Chiaro che per realizzare una cosa del genere l’Università dovrebbe uscire dalla PA, o almeno avere regole diverse, cosa che almeno personalmente comincio a ritenere inevitabile (salvaguardando ovviamente alcuni aspetti di base dello status del docente e del ricercatore). Però mi fanno sorridere certe considerazioni moralistiche. Che cosa succede adesso? Adesso, nell’università reale, accade che se un potente strutturato (barone), manco tanto bravo, vuole importare pezzi di famiglia e manco tanto bravi, ci riesce. Ovviamente non gli succede proprio nulla. Invece se uno da fuori, senza contatti ma bravo, vuole venire e ha questo problema, gli si chiudono le porte in faccia. Se si vuol parlare di mobilità e rientro dei cervelli seriamente certe questioni si devono affrontare con senso di realtà.
Caro prof Vader,
Partendo dal presupposto che l’esempio degli altri paesi non è sempre il migliore argomento ( Chlestakov docet), è proprio il senso di realtà che serve per poter affermare che in altri paesi ciò può accadere perché esiste un’etica pubblica che impedisce largamente il verificarsi di situazioni baronali mentre da noi succede più spesso quello che lei descrive.
Purtroppo non c’è nulla da sorridere nel deserto etico che abbiamo generato;
L’unico sorriso triste viene pensando ai molti che proprio con l’intento di mettere fine all’ Impero dei baroni hanno partecipato inconsapevolmente alla realizzazione del Primo Ordine Anvur.
Cordialmente
The Rebellion
Accade anche che soggetti molto abili riescano a sottrarre ai legittimi proprietari cose mobili di loro proprietà. Se scoperti, sono puniti. Molti restano impuniti, per varie ragioni. Non per questo, realisticamente, è opportuno legalizzare il furto
Come mai invece negli altri paesi si fa?
@Giuseppe Mingione: “Chiaro che per realizzare una cosa del genere l’Università dovrebbe uscire dalla PA”
E’ vero, anche se una soluzione ci sarebbe: commissione (per qualsiasi concorso) esclusivamente interna all’ateneo o alla facoltà. Si rimarrebbe all’interno della PA e l’Ateneo o la Facoltà ne sarebbero responsabili. Io Ateneo o Io facoltà devo essere giudicato sulla base della VQR o altri parametri relativi al “mio materiale interno?”, bene, allora “il materiale me lo scelgo io!”.
Così si farebbero fuori scuole e baroni! o perlomeno sarebbe un tentativo, e non ci sarebbero le telefonate simili alo scandalo di diritto tributario dello scorso settembre, che coinvolgevano professori di diverse città, atenei, “Scuole” o “Cordate” di Italia.
Non conosco la legislazione degli altri paesi, sul punto. In Italia ci sono ostacoli, anche di ordine costituzionale. Per fortuna. L’argomento basato sul quel che si fa all’estero, poi principalmente negli USA, è sempre molto delicato (tanto per dirne una, negli USA, fra le tante cose che si fanno, si eseguono sentenze capitali). In termini molto pratici, poi, penso che la soluzione sarebbe un disastro. Tanto per dirne una, si introduce formalmente un rapporto di coniugio in quello di lavoro. Questo per aumentare il benessere degli studiosi. E se poi il rapporto fra coniugi entra in crisi, cosa accade? Si risolve anche il rapporto di lavoro? E in caso di violazione dei doveri coniugali? Provvedimenti disciplinari? Per carità, non scherziamo,
Il punto cruciale della questione va ravvisato a mio avviso non tanto nel tentativo di “aumentare il benessere” degli studiosi quanto nel dovere di non “determinare il malessere” degli stessi: è quanto accade a quanti che, pur avendone titoli e competenze, non possono accedere ai concorsi banditi nel Dipartimento del coniuge, in ragione del limite posto dal divieto di coniugio, portatore tra l’altro di una profonda disparità di trattamento in relazione alle “coppie di fatto” o, ancor peggio, alle “relazioni more uxorio”.
Il giorno che le mogli o i mariti verranno giudicati solo nel merito della loro attività accademica e non sulla base dei loro rapporti di coniugio sarà sempre troppo tardi. La selezione negativa o positiva basata sul coniugio è una aberrazione che peraltro trovo in parte anche anticostituzionale. Ogni individuo vale solo per quello che è non per i rapporti di amicizia o parentela o altro. Mentre chiaramente è sbagliato spianare la strada ai coniugi solo perchè tali, trovo veramente ingiusto sbarrare la strada a chicchessia solo per i suoi rapporti di coniugio.
A quando la valutazione solo del merito?
Ma non siamo già nel meraviglioso mondo meritocratico anvuriano? Cosa dovremmo chiedere di più e di meglio?
Qualsiasi intervento legislativo volto a modificare in senso più permissivo o più restrittivo l’attuale normativa avrebbe, a mio avviso, un’importanza marginale. Quasi tutte le richieste di ruoli sono condotte come procedure “ad personam”, che la legge italiana evidentemente permette. Non mi pare faccia una grande differenza se il cooptato è il singolo, la coppia di coniugi o il figlio di un accademico. Per un caso di vero nepotismo ce ne sono cento di favoritismo altrettanto dubbio dal punto di vista etico.
Condivido. Ormai il concorso pubblico è diventata una modalità del tutto marginale di reclutamento. La legge ordinaria consente di accedere al pubblico impiego senza concorso, con procedure, di fatto, ad personam. Cosa preveda la Costituzione non interessa a nessuno. Tanto c’è l’ASN. Il coniuge non può essere commissario ASN se l’altro coniuge è candidato. Poi tutto procede in automatico, in base ad algoritmi e a conseguenti assunzioni o progressioni riservate. Poi ci penserà la VQR a rendere giustizia al merito e a punire il demerito, come bene osserva Baccini. Dunque: di cosa stiamo parlando?
Sì, esiste un familismo morale. Ma io nei dipartimenti che ho conosciuto non ne ho mai visto. Affinché sia morale i coniugi – o conviventi – dovrebbero svolgere ricerca indipendente e avere gruppi autonomi, votare ed esprimersi in modo indipendente nei consigli di dipartimento o di facoltà. Più comune è invece il caso di due coniugi/conviventi dei quali uno/una e’ il vero group leader e l’altro/a al massimo aiuta nella gestione del laboratorio; stesse pubblicazioni con i nomi di entrambi, progressione di carriera per l’uno/una seguita da progressione dell’altro/a. Il risultato è di avere uno dei componenti la coppia che vale poco nella ricerca e ancor meno nella didattica. Questo per la carriera. Per l’autonomia di voto e quindi di giudizio nei Consigli di Dipartimento casi ancora più gravi : mai una volta ho osservato interventi in autonomia.
Finora ho visto purtroppo solo la trasposizione della gestione familiare in un contesto accademico, con risultati per lo più negativi.