Sono aumentate le tasse universitarie, sono diminuiti gli iscritti e dal 2008 al 2014 il numero di professori universitari è calato drasticamente, oggi è il 25% in meno della media europea, come segnalato dal CUN. I finanziamenti per la ricerca di base hanno toccato il fondo. Il caso paradigmatico è quello dei Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale (Prin), il principale supporto per la ricerca pubblica: il governo Letta ha cancellato il bando Prin 2013 e da allora non se n’è più sentito parlare. Ora è giusto dare ai bravi la possibilità di rientrare in Italia, ma degli altri, quelli che sono rimasti in Italia a mandare avanti la baracca sottopagati e in condizioni avverse, che ne facciamo? Una nota finale: mentre da noi i governi tagliano la ricerca, in USA il budget del National Institutes of Health, che finanzia vari settori della ricerca, è passato dai 28 miliardi di dollari del 2008 ai 32 del 2013! Che in Italia la soluzione per uscire dal guado non sia quella di reclutare una nuova classe politica dall’estero?
La settimana scorsa Matteo Renzi in diretta televisiva ha promesso “una misura ad hoc per portare in Italia cinquecento professori universitari anche italiani che insegnano all’estero”. Un inatteso coup de téâtre che merita alcune doverose considerazioni.
Molti stati europei programmano in anticipo piani di spesa dettagliati e investono percentuali significative del PIL in ricerca perché essa rappresenta un elemento cardine per la crescita di un paese. In Italia, al contrario, la ricerca pubblica vive da anni in assenza di risorse e di programmazione. A fronte di uno dei più bassi investimenti mondiali in rapporto al PIL, dal 1996 al 2010 l’Italia è comunque all’ottavo posto nel mondo per produzione scientifica. Una sorta di miracolo definito “italian paradox”. Immaginiamo quali risultati potremmo ottenere, se avessimo dei finanziamenti adeguati.
Nel 2008, Renato Dulbecco, premio Nobel per la Medicina, ammoniva: “Un paese che investe lo 0,9% del PIL in ricerca, contro la media del 2% degli altri, non può essere scientificamente competitivo, né attirare a sé o trattenere i suoi ricercatori migliori” e da allora è andata sempre peggio.
I tagli sempre più pesanti e indiscriminati, inflitti da tutti i recenti governi ai fondi di finanziamento ordinario degli atenei e il blocco del turn over deciso dalla premiata ditta Gelmini & Co, hanno portato al collasso definitivo del sistema universitario e della ricerca. Sono aumentate le tasse universitarie, sono diminuiti gli studenti iscritti e si è verificata un’emorragia di professori. Basti pensare che dal 2008 al 2014 gli ordinari sono calati del 30% e gli associati del 17%: nel complesso si assiste a una riduzione del 25% rispetto media europea, come segnalato dal CUN
I finanziamenti per la ricerca di base hanno toccato il fondo. Il caso paradigmatico è quello dei Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale (Prin) istituiti nel 1996 dal governo Prodi, che rappresentavano il principale supporto per la ricerca pubblica. Da un budget di 137 milioni di euro destinati nel 2003 alle 14 aeree disciplinari, dopo nove anni, grazie alla spending review del governo Monti, si è arrivati al minimo storico di 38 milioni di euro! Un’elemosina e un insulto alla professionalità di migliaia di ricercatori che nei casi migliori hanno racimolato solo briciole. Infine, il governo Letta, invece di rimediare a tale scempio, ha addirittura cancellato il bando Prin 2013. In questi giorni si vocifera che un nuovo bando Prin stia per essere pubblicato con un budget di circa 90 milioni di euro, una somma che, a causa dello stop di tre anni, sarà comunque insufficiente per garantire risorse adeguate alle valanghe di ricercatori che presenteranno domande di finanziamento.
In tali frangenti “di doman non c’è certezza” e molti giovani e non, sono stati spinti a cercar fortuna presso università e centri di ricerca esteri. Se da una parte è più che giusto dare ai “cervelli fuggiti” la possibilità di rientrare in Italia, dall’altra non dobbiamo dimenticare i “cervelli nostrani”, quelli che sono rimasti e mandano avanti la baracca da anni, sottopagati e in condizioni ambientali che definire avverse è un eufemismo. Il problema, quindi, non è solo far rientrare i cervelli meritevoli o attirare quelli stranieri (ci chiediamo quali saranno mai questi temerari), ma soprattutto arrestare o ridurre la fuga di talenti dal nostro paese: dobbiamo trattenerli con azioni concrete e investimenti degni di questo nome, non con proclami spesso disattesi dalla realtà dei fatti e dall’instabilità dei governi.
Caro Renzi, per risollevare Università e Ricerca italiana non servono azioni occasionali, ma interventi incisivi e di ampio respiro. Nell’imminente legge di stabilità è necessario prevedere un programma di investimenti sostanziosi e duraturi per il reclutamento dei giovani, la progressione delle carriere e il finanziamento della ricerca pubblica. Solo così, garantendo nuove risorse e certezze a tutti, giovani e meno giovani, si potrà diventare ancora più competitivi nel panorama internazionale. Per tornare finalmente “a riveder le stelle” e uscire da questo inferno quotidiano, vedendo riconosciute qualità e competenze, senza dover più improvvisare, senza più vivere alla giornata.
Una nota finale: mentre da noi i governi tagliano la ricerca, in USA il budget del National Institutes of Health, che finanzia vari settori della ricerca, è passato dai 28 miliardi di dollari del 2008 ai 32 del 2013! Che in Italia la soluzione per uscire dal guado non sia quella di reclutare una nuova classe politica dall’estero?
pubblicato il 17.10.2015 su l’Unità.TV con il titolo Università e Ricerca: “Servono investimenti, non azioni occasionali”
Ma quello che bolle in pentola, forse, è ancora più interessante: si vuole portare l’università fuori dalla pubblica amministrazione. Con le conseguenze che è facile immaginare. Allora vedremo se il sistema sarà più o meno efficiente, più o meno attrattivo nei confronti dei migliori cervelli.
Quello che nell’eccellente articolo non mi sembra messo in evidenza è un fatto primario: gli stipendi dei docenti italiani sono tra i più bassi d’Europa!
La legge Gelmini, come è noto, ha posto fine alle ricostruzioni di carriera. Così oggi (a parte i casi di chiamata diretta) un docente, tipicamente sulla cinquantina, con famiglia a carico, prende 2400 euri per svolgere il ruolo di professore associato. Cioè la metà circa del suo collega tedesco…E quindi: pochi fondi per la ricerca, poche strutture, pochi strumenti; stipendi bassi e dalla dinamica incerta…Questi, per me, sono i temi sui quali si dovrebbe confrontare la politica. Invece, mi sa, nei prossimi mesi dovremo sorbirci il grandioso tema dell’uscita dell’università dalla pubblica amministrazione come salvazione finale…
Portare l’universita fuori dalla pubblica amministrazione è qualcosa che può servire per creare piu flessibilità. Ma credo che il doppio canale che Renzi vuole aprire sia la sua vera leva e serva per sperimentare un nuovo sistema di reclutamento piu internazionale bypassando i concorsi locali. A questo punto punto è logico pensare che Renzi abbia capito che è stato un grande errore togliere dall’ASN i commissari stranieri.
Io se rinasco faccio il commissario OCSE dell’ASN: 16.000 Euro + spese. A parte le mie aspirazioni per un’eventuale metempsicosi, quella dei commissari OCSE è stata una delle trovate più disfunzionali degli ultimi anni, al punto da essere stata abolita in un contesto in cui qualsiasi follia ha corso libero. Ma questa era eccessiva persino per chi governa l’università capendoci poco o nulla. Un piccolo assaggio delle cose che non hanno funzionato (e non funzioneranno) c’è stata la selezione da parte di Anvur che ha portato alla telenovela di diritto privato: https://www.roars.it/i-dieci-gradini-della-scalata-al-successo-dello-start-up-di-anvur/
Concordo con lei. Renzi ha capito tutto: togliere dall’ASN i commissari stranieri. Che errore è stato! Per porvi rimedio nientepopodimenoche: uno punti qualificanti del patto di #stabilità2016.
Non c’e altra spiegazione, credo. Se i commissari stranieri escono dalla porta e tientrano dalla finestra….
Intando da Udine trapelano alcune novità su queste 500 cattedre, così come riporta Repubblica (ma perché non hanno mandato in streaming il convegno??):
“Il concorso per le cattedre del merito sarà previsto solo per alcune discipline, fortemente richieste nel paese: ambiente, energia, sanità”.
“Chi” decide quali sono le discipline “fortemente richieste nel Paese” ??? La Giannini ? Con quali criteri ? Ci saranno studi riguardanti la distribuzione nelle varie discipline dei docenti universitari in Italia rispetto ad altri Paesi europei? Ci sarà una analisi del rapporto studenti / docenti nei vari settori concorsuali? Verrà esaminato il tasso di pensionamenti negli ultimi anni nelle varie Aree Scientifiche?
Oppure … come l’articolo di Repubblica lascia presagire, qualche burocrate ministeriale o un politico di passaggio per le stanze del MIUR deciderà che le discipline prioritarie per il Paese sono queste o quelle ????!!
Se così fosse sarebbe un fatto molto grave.
Direi senz’altro la seconda (cioè quello che “l’articolo di Repubblica lascia presagire”).
Ma credo ancor più forte un altro pronostico: che del sidereo programma non venga realizzato assolutamente niente, o tutt’al più qualche sparso e confuso brandello (il che, s’intende, è molto probabilmente anche quello che ci dovremmo augurare).
E per far passare tanto tempo fino appunto a non concretizzare alcunché, a chigi-trastevere potrebbe in effetti tornare utile avviare qualcuno dei tre accertamenti seri cui allude Cappelletti Montano (o magari, meglio ancora, tutti e tre)