Lettera aperta dei ricercatori del programma “Levi Montalcini” alla comunità accademica

 

 

C’è chi scappa e chi torna. Noi siamo tornati dopo essere andati via. Siamo 23 ricercatori, vincitori del prestigioso bando intitolato al Premio Nobel Rita Levi Montalcini, il vecchio ‘rientro dei cervelli’, per intenderci (Programma per Giovani Ricercatori, bando 2009), riproposto con un diverso nome dai D.M. 45/2009 e 230/2009 (nella presentazione dell’epoca, “Programma per giovani ricercatori “Rita Levi Montalcini 2009-ex Programma ‘rientro dei cervelli’). Il nostro bando venne lanciato come una versione più lunga e meglio finanziata dei precedenti programmi di ‘rientro dei cervelli’: nel presentarlo, infatti, Mariastella Gelmini sottolineava con soddisfazione come il budget fosse salito da 3 a 6 milioni di euro.

Ebbene, al momento l’investimento della collettività rischia di trasformarsi in un prestito a vuoto e la nostra esperienza in Italia rischia di giungere al capolinea. Con questa lettera desideriamo condividere con la comunità accademica il nostro percorso e i molti punti interrogativi che lo hanno accompagnato.

Nel 2010 siamo stati selezionati sulla base della qualità, originalità e competitività dei nostri progetti di ricerca e un anno dopo abbiamo ‘preso servizio’. Veniamo da tutto il mondo, abbiamo formazioni variegate, ma due cose ci accomunano: abbiamo studiato o fatto ricerca in alcune delle più prestigiose università internazionali e siamo tornati in Italia dopo  un’accurata selezione (superata da meno del 10% dei candidati) con la speranza ovvero l’illusione di poter contribuire a migliorare i nostri atenei offrendo loro la nostra  esperienza internazionale ed il nostro particolare percorso accademico.

 

Ora, invece, a quasi due anni di distanza, ci ritroviamo a non sapere che cosa ne sarà di noi alla fine del nostro contratto triennale. Secondo i termini del bando,[1] possiamo avere un rinnovo di altri tre anni, ma il problema è, come  sempre, di tipo economico. Il Ministero dovrebbe stanziare una somma minima, da indicare nel prossimo decreto riguardante il FFO, per assicurare la disponibilità delle risorse finanziarie occorrenti per un rinnovo di tutti i nostri contratti per il secondo triennio, ma, nell’incertezza circa la sua decisione, ci interroghiamo circa il nostro futuro. In teoria, le università potrebbero rinnovare i nostri contratti di tasca propria. In pratica, l’effetto congiunto della diffidenza verso l’elemento allogeno e del taglio della spesa rende quasi impossibili i rinnovi: è ovvio che, a fronte di così tanti problemi di finanze e di organico, gli atenei tendano a proteggere gli interni o i contratti imprescindibili per le loro esigenze didattiche. Tutelare i ‘piovuti dal cielo’ come noi non è di certo nelle loro priorità.

E’ per questo motivo che abbiamo più volte interpellato il MIUR affinché chiarisca come intende garantire continuità al programma, visto che non è previsto uno stanziamento di fondi ad hoc. Queste nostre plurime sollecitazioni, protratte per mesi, sono finora sempre cadute nel vuoto: a parte qualche vaga risposta del Ministero, non abbiamo né conferme né rassicurazioni. L’impressione è che nessuno sappia che pesci prendere e che il futuro di noi 23 piccoli Montalcini sia una faccenda del tutto marginale nelle acque pericolose in cui si trova a navigare il MIUR, minacciato dai pasticci dell’ANVUR, dai ricorsi contro l’abilitazione nazionale, e dalle proteste del comparto scuola.

Tuttavia, il rinnovo del nostro contratto è condizione necessaria per soddisfare le necessità che hanno spinto le università stesse ad assumerci: garantire la continuità del nostro lavoro allo scopo di contribuire alla crescita della ricerca italiana. Eppure, per ora, a poco sono valsi gli incontri al MIUR, se non a rafforzarci nella convinzione della legittimità delle nostre aspettative e dell’opportunità della nostra battaglia.

Ci chiediamo e chiediamo a voce alta: qual è il senso del nostro contributo? Qual è il senso del programma ‘rientro dei cervelli’? Un contratto proiettato in un cul de sac accademico? Una visiting fellowship di tre anni applicata a giovani ricercatori qualificati che però non saranno più così giovani allo scadere del contratto triennale da potersi rimettere in gioco sul “mercato” internazionale? Sulla carta, il nostro programma viene propagandato come un progetto lungimirante per riportare in Italia giovani ricercatori promettenti e sostenerli nei loro progetti, contrastando il clientelismo e nepotismo che avvelena i nostri atenei. Un fiore all’occhiello di cui far gran vanto politico. Invece, il rischio è che diventi l’ennesimo buco nell’acqua di un’Italia accademica che non riesce a programmare con lungimiranza e che si accontenta di slogan ed effetti speciali anziché avere il coraggio di mettere in pratica i principi cui ultimamente dice di volersi ispirare (meritocrazia, internazionalizzazione, mobilità, apertura al nuovo e ai giovani).

Dei 500 ricercatori Italiani tornati dall’estero nel periodo 2001-2008, solo l’8% è stato assunto come associato, avvalendosi del percorso specifico per la chiamata diretta, secondo la legge Moratti- 230/2005. Pochissimi ‘cervelli’ rientrati hanno avuto la possibilità di essere stabilizzati e promossi nei loro atenei di afferenza. Il vecchio programma ‘rientro dei cervelli’ aveva come elemento a sfavore la brevità del contratto (3+1): difficile che ricercatori ‘esterni’ e spesso scollati dalle reti appiccicose delle varie scuole accademiche potessero incidere sul decision making relativo alle assunzioni nelle loro università in un periodo relativamente breve. Eppure un risvolto positivo c’è stato: nel 2010 la percentuale di stabilizzazione di questi ‘esterni’ è salita del 25%.

La situazione attuale, però, alimenta la preoccupazione: i cambiamenti radicali portati dall’introduzione della legge Gelmini, n. 240/2010 hanno incluso anche la modifica dei termini del programma Montalcini. Il secondo bando pubblicato nel 2012 è, infatti, totalmente diverso dal nostro: è giuridicamente qualificato nella sua premessa come programma di ricerca di ‘alta qualificazione’, e offre un contratto di soli tre anni non rinnovabile (ex Art. 24, comma 3, let. b della legge Gelmini), con conseguente necessità per i suoi vincitori di ottenere l’abilitazione quale condizione necessaria, ma non sufficiente, per una speranza di stabilizzazione. Tali vincitori, se gli va bene, avranno a disposizione un solo tentativo per passare l’abilitazione e, molto probabilmente, tanti saluti nel 2015. Torniamo all’idea che o si hanno agganci forti come chiodi con l’accademia italiana oppure ti viene solo concessa l’opportunità di lavorare per tre anni nel tuo Paese, e poi sei libero di tornare all’estero. Tanto il mondo è grande e il posto fisso noioso.

E per noi? La natura del nostro bando e la sua legge di riferimento (la 230/2005) offrono chiare indicazioni: ricadremmo a posteriori, in quanto vincitori di un bando di ‘rientro dei cervelli’, nell’ambito di applicazione della chiamata diretta, ex Art. 1, co. 9 della stessa legge, ‘in base alla congruità dei risultati conseguiti’, una norma lasciata in vigore dalla legge Gelmini. La legge parla, ma i dubbi e le incertezze sulle intenzioni del Ministero e delle università nei nostri confronti parlano più forte.

Quindi, tiriamo le fila del discorso, sia in negativo, che in positivo. Sono stati investiti negli anni milioni di euro per finanziare progetti di ricerca di alto calibro come il nostro sotto l’egida del Ministero, ma in che modo vengono incanalati a lungo termine? Un programma come il Montalcini, che avrebbe, nel caso del nostro bando, tutte le carte in regola per essere efficace e fruttifero, se non sostenuto con convinzione rischia seriamente di rendere effimera e volatile la nostra presenza in Italia: e una nostra eventuale necessità di emigrare nuovamente rischierebbe di dissuadere chiunque lavori all’estero a tornare indietro. Eppure il ‘rientro dei cervelli’ ha un potenziale immenso: potrebbe contribuire a svecchiare e sprovincializzare le università italiane, a portare un alito di brezza internazionale, che in concreto si traduce in fondi e contatti dall’estero (quanti awards e grants ha collezionato il nostro piccolo gruppo!), potrebbe contribuire a far risalire all’Italia qualche posto nelle graduatorie universitarie mondiali, potrebbe rendere fluida e semplice l’integrazione di giovani ricercatori volenterosi, motivati, produttivi, eccellenti nei loro campi. I vantaggi sono evidenti. I dati di fatto, invece, sono allarmanti.

E allora che futuro ha questo programma? Esiste una sua vita oltre il 2014? Oppure siamo come i piccoli indiani della filastrocca di Agatha Christie: “e poi non ne rimase nessuno”, ammazzati uno ad uno da un giudice scaltro che la fa franca?

Questo limbo non solo ci porterebbe, nel nostro piccolo, a essere disoccupati nel giro di un anno e mezzo, ma, visto in una prospettiva più ampia, comporterebbe uno spreco ingiustificabile di soldi pubblici. Senza nessuna visione a lungo termine, senza nessuna volontà nel farci rimanere, l’idea di bandire concorsi come il ‘rientro dei cervelli’ sortisce l’effetto contrario a quello sperato: i cervelli, se rifiutati da un sistema che li ha accolti solo sulla carta, andranno via di nuovo e per le stesse ragioni per cui erano andati via la prima volta, con conseguente danno di immagine e perdita di credibilità a livello internazionale del sistema italiano nel suo complesso.

 

I 23 ricercatori del programma “Rita Levi Montalcini” 2009

(http://rientrocervellimontalcini.wordpress.com)



[1]             Che utilizza la formula contrattuale ex art. 1, comma 14 della legge 230/2005.

 

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11 Commenti

  1. Come cittadino italiano e come docente universitario non posso che esprime il mio sdegno per quello che sta succedendo a questi 23 colleghi, super selezionati, che hanno creduto in una inversione di tendenza del nostro sistema universitario.
    Tuttavia, al di là del dato emotivo, desidero fare alcune considerazioni partendo dalla osservazione che la politica degli annunci (di cui i nostri recenti ministri sono stati campioni) è buona esclusivamente per qualche intervista in un paio di canali televisivi, mentre è in grado di alimentare illusioni e false prospettive. Forse i nostri hanno avuto una colpa: hanno creduto ai vari “Gelmini”. Beata gioventù, beata ingenuità.
    Innanzitutto dobbiamo ricordare alcuni dati:
    a) la cifra totale stanziata per il rientro dei cervelli è probabilmente non superiore ad un quinto del costo totale riferibile al “Batman” alias Fiorito.
    b) non è credibile che si voglia fare una politica di internazionalizzazione tagliando fondi ogni anno agli Atenei e relegando il turnover al 20% dei pensionamenti condannando il sistema ed i giovani alla morte per asfissia.
    c) non è pensabile alimentare una guerra dei poveri tra chi, con sacrificio, acquisisce competenze nelle migliori università del mondo e tra chi, con altrettanto sacrificio, costruisce percorsi scientifici e didattici in sede.
    Tuttavia, detto questo, se è vero che le Università nella loro autonomia e responsabilità desiderano garantire la continuità del lavoro dei nostri 23 colleghi allo scopo di contribuire alla crescita della ricerca italiana, le stesse si assumano la responsabilità di investire parte delle loro poche risorse a questo scopo. Lo possono fare senza chiedere nulla al Ministero. E’ difficile scegliere, ma gli organi di governo (dal CdA al Dipartimento) hanno, nell’attuale situazione, il potere ed il dovere di scegliere. Non possono pensare di continuare nella logica localistica ed aspettere risorse esterne per i “bravi”.
    Infine, i nostri colleghi pongono alcune domande: quale è il senso del nostro contributo? Qual è il senso del programma ‘rientro dei cervelli’? Un contratto proiettato in un cul de sac accademico? Una visiting fellowship di tre anni applicata a giovani ricercatori qualificati che però non saranno più così giovani allo scadere del contratto triennale da potersi rimettere in gioco sul “mercato” internazionale?
    Cari colleghi, scusate se sarò franco, ma non si può parlare di meritocrazia, incensare il sistema anglosassone, rifiutare il becero sistema italiano e poi chiedere alla politica un intervento, intervento che va chiesto alle autorità accademiche e non certo al Ministro di turno, responsabilizzando e costringendo alle scelte. Anch’io conosco il mondo anglosassone, ho conosciuto non pochi PhD o lecture che, alla fine del contratto e non più giovani, hanno letteralmente cambiato mestiere. Se vogliamo imitare le “migliori partiche della comunità internazionale”, bisogna mettere nel piatto anche questo rischio. Scusate se sono stato duro, ma così è, altrimenti non se ne esce.

    • Caro Nicola, vorrei risponderti e rispondere ai dubbi che sollevi. Ci dispiace farci dare degli ingenui. Forse lo siamo stati, ma questo sito dovrebbe essere un posto dove criticare per poter costruire, non per dichiarare pubblicamente la propria accettazione per lo status quo, e il deridere altri per non aver fatto altrettanto. E’ per lo stesso motivo che ti rispondo al punto a) facendoti notare che il programma “Cervelli di ritorno” nato nel 2001, nella sua interezza e’ costato al contribuente ad oggi qualcosa come 150 milioni di euro. In un paese civile, non si sorride di queste cifre. Non posso che essere d’accordo con te sul tuo punto b). Mentre sul punto c) come sul resto della tua e-mail, i fatti parlano da soli: condividerai con me che deve esserci un motivo per il quale nelle principali classifiche internazionali delle migliori università’ al mondo, l’universita’ italiana appare la penultima in europa occidentale (viene prima del Portogallo) e segue quella di molti paesi emergenti (Cina, Brasile, Corea). Mi auguro tu non voglia – come molti fanno in Italia – semplicemente riscrivere l’algoritmo per spostarci più’ in alto in classifica – servono misure più’ serie di così’. I motivi di questo insuccesso sono molteplici, ma certo interni alla università’ e alle sue dinamiche provinciali e basate pesantemente sull’academic inbreeding (che spesso sfocia nel suo naturale estremo, il baronaggio), ed impiantare un seme di elementi not-inbred non può’ essere che positivo. Che sia irrealistico suggerire come fai tu che sia l’università’ a prendersi la responsabilità’ di assumere questi elementi invece del MIUR, lo dimostra il fatto che la percentuale di cervelli stabilizzati ha subito un’impennata dopo che il MIUR ha concesso la chiamata diretta. Dici di conoscere il sistema anglosassone. Se veramente fosse così’, non suggeriresti come fai qui a tutti i lavoratori della ricerca già’ all’estero di rimanerci: sapresti infatti che nel sistema anglosassone non solo non conta il cognome, ma neanche il fatto che sei nato e cresciuto nella stessa università’/citta’/nazione. Anzi, tutto ciò’ e’ visto come mancanza di intraprendenza/indipendenza scientifica.

  2. ” Se vogliamo imitare le “migliori pratiche della comunità internazionale”, bisogna mettere nel piatto anche questo rischio.”

    Ecco, non so i 23 colleghi in questione, ma di questa pratica (se fosse davvero così come crudamente tratteggiata) io mi deprivo volentieri, anche laddove essa fossa adottata dalla migliore comunità accademica internazionale o dalla comunità intergalattica dei vogoniani. Il precariato perenne come via alla virtù credo sia, con permesso parlando, una boiata pazzesca.

  3. “Ci chiediamo e chiediamo a voce alta: qual è il senso del nostro contributo? Qual è il senso del programma ‘rientro dei cervelli’? Un contratto proiettato in un cul de sac accademico? Una visiting fellowship di tre anni applicata a giovani ricercatori qualificati che però non saranno più così giovani allo scadere del contratto triennale da potersi rimettere in gioco sul “mercato” internazionale?”

    Non sono per nulla d`accordo. Se un ricercatore ha lavorato bene in questi tre anni in ITalia, puo`sempre ritornare all` estero. E la prossima volta, non credera` alle promesse. Il sistema accademico Italiano e` piu` o meno al capolinea (a parte delle splendide eccellenze). In bocca al lupo ai 23 colleghi.

    • @ Enrico Marsili
      Forse ci sono cose che non so sul caso in questione, perché altrimenti una risposta come questa è sconcertante, l’equivalente di un insulto.

    • Ci può essere chi ha rinunciato ad offerte interessanti all’estero perché le regole gli prospettavano delle possibilità in Italia che avrebbero meglio conciliato esigenze di carriera e di affetti (o altro). Non è detto che i tre anni trascorsi abbiano lasciato intatte le possibilità. Certi treni, una volta passati, non tornano più. Abituarsi ad esigere il rispetto delle regole e delle promesse è fondamentale per aiutare il sistema a risollevarsi. L’inaffidabilità sperimentata giorno per giorno e il disprezzo delle regole da parte di chi ha responsabilità di governo (ministro, rettori, ANVUR, etc) vanificano le chiacchiere meritocratiche. La responsabilità, però, non sta solo nei vertici, ma ricade anche su chi accetta passivamente questo stato di irregolarità diffusa che tocca le piccole e le grandi cose. Ci si abitua a navigarci in mezzo, con diversi gradi di disponibilità al compromesso, ma bisogna rendersi conto che i costi sociali sono troppo grandi. Dobbiamo essere più severi nell’esigere il rispetto delle regole, da noi stessi e dagli altri. Non è solo un problema dell’università, ovviamente, ma l’università potrebbe essere un buon punto di inizio per cambiare marcia.

  4. @Nicola Ferrara: “Anch’io conosco il mondo anglosassone, ho conosciuto non pochi PhD o lecture che, alla fine del contratto e non più giovani, hanno letteralmente cambiato mestiere”.
    Appunto, nel mondo anglosassone. In Italia il PhD è spendibile solo in ambito accademico. Se si cerca lavoro in altri settori, in Italia è meglio non scrivere nel proprio cv di avere un PhD, altrimenti si viene scartati subito. Gli studi e il mondo accademico sono percepiti in Italia come parassitismo e comunismo, in opposizione alla gente che lavora e che produce.

  5. Sesto: è proprio così, meglio non mettere il dottorato di ricerca, che sembra non avere senso nel mondo del lavoro. In generale non si sa quale valore aggiunto rappresenti un phd.
    Altra cosa: non metto in dubbio le eccellenze che sono “rientrate” in Italia grazie al programma Montalcini, ma non si può dire che è solo grazie a questi cervelli che la ricerca può progredire in Italia. Sembra che in questi tre anni l’università italiana si sia retta grazie a voi!! Mi sembra offensivo per tutti quelli che sono rimasti e che fanno seriamente il loro lavoro. Attenzione a certi ragionamenti che rischiano veramente di far scivolare il tutto verso il provincialismo.

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