Non cosa e come, ma quanto e dove: Anvur, distorsioni bibliografiche e cattive abitudini
“Unfortunately, [the Anvur rules have] only exacerbated an already broken peer-review system: what was conceived as a tool for making objective evaluations has become the perfect weapon in the hands of academic lobbies, which have found a new and discreet way to bypass merit and employ a system of favoritism to promote scholars.”
Abbiamo parlato spesso di come i criteri di valutazione quantitativi imposti dall’Anvur abbiano danneggiato gravemente la qualità della ricerca e la trasparenza del sistema di reclutamento universitario. È da diversi anni, ormai, che il “paradosso italiano” sta attirando l’attenzione della comunità accademica internazionale, che guarda con un misto di curiosità e preoccupazione a un contesto dove la dittatura del numero e la classificazione “di Stato” delle riviste hanno, di fatto, rafforzato quelle stesse cattive abitudini che avevano dichiarato di voler sradicare. Basti pensare ai fenomeni dilaganti del doping citazionale e della (ri)pubblicazione seriale di lavori pressoché identici, o alle pratiche clientelari e nepotistiche che (in barba alla bibliometria) hanno trovato nella scrupolosa osservanza dei criteri Anvur un valido strumento per rendere il sistema accademico italiano ancora più funzionale ai gruppi di potere baronali e ancor più impermeabile ai soggetti non allineati.
Da alcuni mesi, i criteri Anvur e i suoi effetti distorsivi sull’università sono anche al centro di un vivace dibattito tra gli storici della scienza italiani. Oggetto della querelle è un saggio apparso nel gennaio 2019 sulla rivista Isis [1] a firma di Francesco Luzzini, contributing editor per la bibliografia italiana di questo giornale e studioso affiliato al Max Planck Institute for the History of Science di Berlino.
La seconda parte dell’articolo (“Bibliographical Distorsions, Distortive Habits: Contextualizing Italian Publications in the History of Science”) si concentra sul sistema di valutazione della ricerca introdotto in Italia nell’ultimo decennio, ed evidenzia come questo sistema abbia danneggiato la ricerca stessa e rafforzato – anziché arginare – il monopolio delle consorterie accademiche sugli spazi editoriali e, dunque, sul reclutamento universitario. Le considerazioni di Luzzini (che nel suo contributo cita anche numerosi articoli apparsi su Roars [2]) si riferiscono in particolare alla storia della scienza; ma le questioni sollevate, com’è noto, interessano pressoché tutti cosiddetti settori “non bibliometrici”. L’introduzione delle famigerate mediane ASN e delle ancor più famigerate liste, con la draconiana suddivisione tra riviste “di fascia A” e “scientifiche”, ha infatti incentivato una cultura accademica dove la sede di pubblicazione di un lavoro conta molto di più della sua effettiva qualità. Ciò ha concentrato sempre più potere nelle mani dei curatori delle riviste “elette”, che – essendo quasi sempre professori universitari – in sede d’abilitazione e di concorso hanno potuto contare su uno strumento pressoché infallibile e apparentemente oggettivo per penalizzare certi candidati a vantaggio d’altri (“As soon as the committees in charge of drafting journal lists were formed, dominant professors influenced the composition of the journal lists to favor the work of their protégés. At the same time, publishing an article in many Italian journals became an increasingly difficult challenge for many capable, but unwelcome, candidates”).
Questa situazione – continua Luzzini – non ha danneggiato soltanto le carriere di molti studiosi, ma anche e in primo luogo la ricerca: la combinazione di pratiche clientelari e valutazione quantitativa (che premia, cioè, numero e visibilità) ha ormai distorto il modo in cui le pubblicazioni accademiche vengono percepite e valorizzate dagli addetti ai lavori. Per un giovane dottorando o un ricercatore non strutturato, infatti, sarà essenziale pubblicare quanti più contributi possibile su certe riviste anziché su altre; e ciò non potrà che favorire il conformismo intellettuale e la produzione di lavori relativamente “facili” e “sicuri”, ma più pregiati agli occhi dell’Anvur, a discapito d’altri lavori più originali e interdisciplinari (magari ospitati in riviste “fuori lista” o in atti di convegni) o più complessi e che, dunque, richiedono molto tempo e molto lavoro per essere completati.
La risposta più esplicita al saggio di Luzzini è arrivata da Marco Beretta, professore ordinario di storia della scienza all’Università di Bologna, che – in una lettera pubblicata sul nuovo numero bibliografico di Isis [3] – ha criticato aspramente la ricostruzione offerta dall’articolo, definendola senza mezzi termini una “montatura in malafede” (“a malicious fabrication”). Pur affermando di non voler difendere l’operato dell’Anvur e di essere consapevole dell’imperfezione degli attuali criteri di valutazione della ricerca, Beretta (che nel 2011 è stato membro di un Gruppo di Esperti della Valutazione nominati dall’Anvur [4]) ha negato fermamente l’esistenza di consorterie accademiche in grado di controllare le liste delle riviste di storia della scienza. Ha inoltre negato che i criteri valutativi attuali abbiano danneggiato la qualità della ricerca in questa disciplina: di contro, ha rimproverato a Luzzini una poco comprensibile nostalgia del passato, quando studiosi “senza nemmeno una laurea o un dottorato, e con appena una manciata di pubblicazioni, non necessariamente di storia della scienza” potevano insegnare questa discipina nelle università (“during the 1970s and 1980s one could become professor of history of science in Italian Universities without graduating, without a PhD, and with just a handful of publications, not necessarily in the history of science”). Le accuse sollevate da Luzzini – ha affermato Beretta – sono molto gravi e del tutto ingiustificate, dal momento che l’articolo non riporta nessun caso o nome specifico a sostegno delle sue tesi (“Luzzini […] addresses these serious, and in my view gratuitous accusations, without mentioning one name or one case by which his argument can be supported”).
Il nuovo numero di Isis ospita anche la replica di Luzzini, [5] che ha ricordato come riportare nomi o casi non fosse né l’obiettivo, né il compito del suo articolo (“Mentioning names or cases […] was neither my purpose, nor my task, the latter belonging to the judiciary”). Gli studi e le testimonianze che attestano quanto affermato non mancano, del resto, e vengono ormai prodotti con frequenza costante, sia in Italia che all’estero. È il caso dell’articolo di Baccini, De Nicolao e Petrovich pubblicato lo scorso settembre su PloS One, [6] che Luzzini ha riportato in nota alla sua replica (assieme a diversi altri contributi, molti dei quali apparsi negli ultimi mesi) per dimostrare, afferma, di non essere affatto “nostalgico del passato”. Certe cattive abitudini, infatti, sono rimaste pressoché invariate nei decenni (“I feel all but “nostalgic” for the past, the past being still pretty much present”): e, Anvur o no, per certi candidati con le giuste conoscenze è ancora molto facile fare carriera con solo “una manciata di pubblicazioni”.
[1] Francesco Luzzini, “Bibliographical Distortions, Distortive Habits: Contextualizing Italian Publications in the History of Science” Isis 109, no. S1 (2018): 1–13 (https://www.journals.uchicago.edu/doi/pdfplus/10.1086/702660).
[2] Cfr. p. 11, nota 29.
[3] Marco Beretta, “Letter to the Editor” Isis 110, no. S1 (2019): 15–17 (https://www.journals.uchicago.edu/doi/pdfplus/10.1086/708227).
[4] http://dev.informaticaumanistica.com/wp-anvur/valutazioni/vqr-2004-2010/gev/area-11-scienze-storiche-filosofiche-pedagogiche-e-psicologiche/area-11-componenti-e-organizzazione/; https://www.anvur.it/wp-content/uploads/2012/03/gev11_criteri.pdf.
[5] Francesco Luzzini, “In Reply” Isis 110, no. S1 (2019): 18–20 (https://www.journals.uchicago.edu/doi/pdfplus/10.1086/708228).
[6] Alberto Baccini, Giuseppe De Nicolao, and Eugenio Petrovich, “Citation gaming induced by bibliometric evaluation: A country-level comparative analysis,” PLoS One 14, no. 9 (2019) (https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0221212).
Se qualcuno è stato avvantaggiato dal sistema lo deve difendere. Se è uno dei grandi manovratori deve difendere il sistema. La gran parte sta in silenzio, perché ha visto ciò che succede a chi osa sollevare obiezioni, persino nella piccola vita dei cdl.
Io ho letto molto e molto ho sperimentato sulla mia pelle. So cosa sta accadendo. Sono diventata un disturbo per chi ha agito male. È difficile per me guardare e sentire, star zitta per non creare problemi a chi mi ha fatto confidenze. Il sistema è marcio, come non lo è mai stato. Essersi serviti degli studenti per dire che un collega non era amato, far pubblicare brutti articoli su riviste di fascia A a propri allievi, prendere idee ed anche copiare da articoli di alcuni colleghi, ma non citarli, citando accuratamente amici, sparlare di colleghi ‘nemici’ con i commissari dell’asn, … anche altre pratiche si potrebbero ricordare, vero?… Tutto questo oggi è permesso dalle leggi. L’importante è il silenzio connivente. L’importante è costringere all’abbandono, o alla pensione il collega il cui posto potrebbe andare ad un fedelissimo, che dovrà essere riconoscente. Difficilissimo dimostrare perché fanno muro, perché troppi ci sono dentro, perché le carte vengono fabbricate per evitare ricorsi.
“Chi vuole intraprendere strade non ancora accettate dalla comunità in primo luogo ha difficoltà a pubblicare, scontrandosi con un muro omogeneo e anonimo. Se anche, come supponiamo per comodità di argomentazione, riuscisse nell’intento di inaugurare una scuola di pensiero alternativa sarebbe ovviamente poco citato, perché sarebbero ben rari i ricercatori che sceglierebbero di entrare in un gruppo minoritario, sapendo che il meccanismo quantitativo di valutazione, basato sul numero di citazioni, attribuirebbe ai loro risultati certamente un valore minimo. Il meccanismo per sua natura evidentemente si autoalimenta, generando automaticamente omogeneità.”
Questo è Lucio Russo, che illustra in “La cultura componibile” (2008) i generali esiti conformistici dei sistemi di valutazione bibliometrici. A chi verrebbe in mente di rispondergli con un argomento impiegatizio del tipo “se non mi dai un elenco di casi specifici, o, meglio, di sentenze passate in giudicato, il tuo argomento non è credibile”? A chi verrebbe in mente di bagatellizzare la fascistizzazione dell’università italiana fra il 1931 e il 1938 perché in fondo i renitenti al giuramento e i docenti ebrei licenziati furono pochissimi? A chi verrebbe in mente di confutare l’argomento di Virgina Woolf sulla sorella di Shakespeare chiedendole di esibire le prove dell’esistenza della sfortunata Judith o di tacere? Lucio Russo, Giorgio Israel, Virgina Woolf parlano di tendenze generali favorite da determinati sistemi – la valutazione bibliometrica, il controllo politico della scienza, la discriminazione sessuale. Non si capisce perché, a proposito delle tendenze favorite dalla valutazione di stato vigente in Italia, diventi improvvisamente illegittimo presentare argomenti che sono di uso comune fra gli storici, e si pretendano sentenze passate in giudicato – come se la storia, quando si tratta di ANVUR, fosse di competenza esclusiva del Consiglio di Stato e della Corte di Cassazione.
Come al solito illuminante.
La stessa cosa succede per i settori scientifici.
Era evidente che i lavori dell’Anvur avrebbero comportato un appiattimento culturale e dettato le tendenze a scapito del libero pensiero, che avrebbero legalizzato, con l’abilitazione, le azioni dei “baroni”, ecc. ecc. Il punto è che nell’ambito nell’ambito culturale l’opinione pubblica è volutamente desensibilizzata; inoltre, c’è scarsa condivisione tra colleghi che operano nel settore, al punto che ogni azione intrapresa per provare a migliorare le cose è destinata a sgonfiarsi in poco tempo. L’ANVUR così come è rappresenta solo una delle ultime aberrazioni partorita da un sistema di politici e lobby che stanno sempre più affossando il nostro Paese.