Pur non condividendone lo stile, pubblichiamo integralmente questa lettera che abbiamo ricevuto da Corrado Zunino.
L’ineffabile professor De Nicolao ha colpito ancora. Il segugio della ricerca, l’investigatore che investiga su chi investiga, è tornato e ha colpito: zac, ha colto l’errore e lo ha reso pubblico al pubblico di internet. Una zampata da leone, roar. Anzi, Roars.
Il problema è che l’ineffabile spara con presupponenza, e quindi si fa sorprendere con troppa facilità — e a sua insaputa, comprendiamo — sulla cazzata. L’investigatore che investiga sugli investigatori investiga male. Nonostante Roberto Ciccarelli sia un suo fan. Anzi, forse anche perché Ciccarelli è un suo fan.
Proviamo a ricapitolare, per l’ampio pubblico di Roars. Nell’ultimo suo mirabolante editoriale — “Non possiamo più pensare di essere un paese di serie A” — il prof patavino scrive «l’università e la ricerca sono temi non facili, soprattutto in Italia dove sono stati oggetto di vere e proprie campagne di disinformazione. Di conseguenza, chi scrive editoriali che affrontano questi temi, nel caso in cui non fosse un esperto dell’argomento, avrebbe il dovere di documentarsi con la massima attenzione. Purtroppo, non sempre è così». Dopo averci fatto sapere di essere «un po’ stanco di vergognarmi per quello che scrivono alcuni colleghi che non conoscono le statistiche economiche e bibliometriche o addirittura le riscrivono» (affermazione ottima, a proposito del “Cuore” di Serra, per la rubrica “E chi se ne frega”), Tom De Nicolao Ponzi passa con un po’ di stanchezza a svergognare i pezzi del sottoscritto. Ricorda innanzitutto — serial smemorato — un servizio sul crollo della ricerca italiana scritto l’undici agosto 2011 da “Repubblica” e da lui, dice, già sbugiardato. Se insisterà a definire quella pagina «una bufala» toccherà, mio malgrado, tutelarmi.
Nella ricostruzione da me fatta sul servizio inquisito — si trova nella rubrica “La scuola siamo noi”, che Repubblica.it ospita — si capisce con chiarezza che non c’è alcuna bufala in giro per internet e non c’è cattiva informazione da parte di “Repubblica”. Infatti, dopo quella ricostruzione il dibattito alimentato dall’investigatore con il tocco si è placato. Vogliamo ricordare ancora? Che palle, sì, visto che il prof insiste. Allora, l’università di Bologna ha diffuso uno studio (autorevole nei suoi elaboratori) che diceva che la ricerca italiana stava declinando e forniva una serie di dati (riportati sotto forma di grafico da “Repubblica”) che lo attestavano. Siamo ultimi per numero di ricercatori rispetto alla popolazione, siamo ultimi per investimenti pubblici nella ricerca, i nostri privati non riescono a sostituirsi a Stato, Regioni e Università, nelle collaborazioni internazionali siamo penultimi, il contributo italiano alle pubblicazioni nel mondo è pari al 3,3%, c’è una trentennale disattenzione della politica italiana verso la ricerca. Tutti dati corretti, ecco, ancora oggi. Tutti dati che attestano che la ricerca italiana sta declinando. Uno di questi dati — la pubblicazione dei lavori dei ricercatori — non era probabilmente corretto (dico probabilmente perché nessuno, neppure l’ineffabile De Nicolao, ad oggi ci ha saputo dire qual è il numero definitivo). Perché tutto questo? Perché quel dato è in assestamento e un’interrogazione d’archivio fatta troppo a ridosso della stagione presa in analisi rischia di fotografare una situazione non ancora ferma. A posto? Siamo d’accordo? La ricerca italiana perde colpi anche se sul numero delle pubblicazioni c’è stato — nel lavoro Daraio-Moed — una sopravvalutazione? Anche nel forum di Roars, alimentato dal suo editorialista ineffabile, c’è chi timidamente fa notare che la situazione è esattamente quella e che basterà aspettare uno o due anni per assistere anche al crollo delle pubblicazioni. La finiamo qui o vogliamo continuare con la bufala — questa sì, “Repubblica ha fatto disinformazione”, una bufala — per alimentare il complottismo denicolaiano? “C’è in giro una campagna per denigrare l’università italiana, campagna che spiana la strada a chi vuole toglierle finanziamenti”, è la tesi. E’ più credibile la storia della fine del mondo nel 2012.
E uno, a posto. Passiamo alla seconda cazzata del nostro (vostro) web-editorialista. Scrive il prof: «Il 3 aprile 2012, lo stesso giornalista, riportando uno studio russo-americano, scrive che “l’Italia ha i professori meglio pagati al mondo dopo il Canada” ma Roars dimostra, tabelle alla mano, che non è vero». Ha dimostrato un bel niente, Roars.
Ricapitoliamo, e comprendo qui lo strazio del povero lettore, ma s’ha da fa’. Una ricerca, diventata libro e anticipata dal “Guardian”, sugli stipendi nelle università pubbliche di 28 paesi nel mondo dice che alla voce “stipendio medio” (lo studio prende in esame tre livelli di stipendio: d’ingresso, medio e in uscita) abbiamo i professori meglio pagati dopo quelli del Canada. E fornisce la cifra: 9.118 dollari lordi guadagnati ogni mese. Questa cifra trova una conferma nei tabellari ministeriali, che ci siamo prontamente fatti inviare per avere una conferma della ricerca mondiale (purtroppo l’estratto che possono leggere i lettori di Roars non comprende le tabelle pubblicate da “Repubblica”, probabilmente la cosa più importante della pagina). Che cosa ha dimostrato Roars? In un’analisi Francesco Coniglione, dopo aver detto che comparare gli stipendi nel mondo è operazione difficile e dopo aver ricordato che altri intellettuali hanno già sostenuto che i professori d’ateneo italiani sono ben pagati, scrive: «Non si capisce invece a cosa fanno riferimento i dati riportati da “Repubblica”: se infatti lo stipendio medio di un ordinario fosse di euro 4.345 (netto) non saremmo più al secondo posto (o terzo), ma scenderemmo di parecchio anche dopo aver fatto la conversione a Ppp, venendo così con circa 5.364 superati da ben 14 paesi, in pratica tutti quelli del mondo sviluppato. Solo col lordo andremmo a una cifra comparabile a quella pubblicata da Altbach & C. Per cui il titolo gridato da “Repubblica” (“Secondi al mondo, dopo il Canada”) sarebbe vero solo operando queste specificazioni necessarie e dopo aver appurato — cosa che ancora non sappiano — che anche gli stipendi degli altri paesi siano considerati al lordo».
Perfetto, il titolo gridato da Repubblica (in verità era il catenaccio, il titolo diceva “Prof italiani tra i più pagati”) esattamente quello voleva dire (negli spazi concessi a un titolo): nello stipendio medio lordo gli insegnanti italiani sono al secondo posto dopo il Canada. Punto. Così è, così abbiamo scritto e titolato. Nel pezzo, che potete leggere tutti, lo si dice in maniera didascalica, comprensibile. Nelle altre due “voci” (top level e soprattutto entry level) scendiamo in classifica, e tutto questo è stato evidenziato da “Repubblica” nei grafici, che purtroppo in questo momento il popolo di Roars non può vedere avendo una riproduzione parziale del lavoro di “Repubblica”. Sa, De Nicolao, da una quindicina di anni nei giornali nazionali la cosiddetta infografica ha preso piede ed è diventata importante tanto quanto l’articolo e il titolo: l’infografica ha avuto successo perché offre una visione immediata e immediatamente comprensibile della questione trattata. Se si critica un servizio, ecco, esso va offerto nella sua intierezza, con modalità diciamo scientifiche.
Scrive ancora il professor Coniglione. «Vediamo allora un po’ cosa ci dicono queste tabelle. Un rapido sguardo alla tabella stipendi degli ordinari dà ad inizio carriera uno stipendio netto mensile in euro di 2.897 (arrotondiamo i decimali). A fine carriera (dopo circa 38 anni) 5.469. Tali cifre sono confermate nella recente tabella ministeriale (del 9-02-12) dove si ha il passaggio agli scatti triennali, ma le somme iniziali e finali rimangono le stesse (anche se queste cifre non comprendono le addizionali Irpef, calcolate localmente da regioni e comuni, per cui il netto si abbassa ulteriormente); e sono anche quelle riportate su “Repubblica”. Se poi si considera la conversione a Ppp in $ (per il 2009 equivalente a 0,81 — vedi il sito), si arriva rispettivamente a dollari 3576 e 6752. Quest’ultimo dato (che è di fine carriera) è dunque assai lontano dal dato fornito dallo studio citato, che è quello medio ed assomma a 9.118 $».
Bravo Coniglione, ha riassunto con precisione. I dati pubblicati da “Repubblica” sono le tabelle ministeriali sugli stipendi d’università, quindi inconfutabili. Un professore che riesce ad andare in pensione con 14 avanzamenti e 4 scatti di anzianità surplus esce con uno stipendio da 5.500 euro netti il mese. All’interno del pezzo si scrive questo e si spiega che pochi in verità raggiungono gli stipendi massimi, a tetto, visto che si diventa ordinari tardi, in media poco prima dei cinquant’anni. Ancora il professor Coniglione: «Sarà mai – ci è venuto il dubbio – che Altbach & C. abbiano scambiato lo stipendio netto con quello lordo, depistati dalla circostanza che negli altri paesi di solito questa differenza non viene effettuata? Se prendiamo in esame il lordo (sempre degli ordinari di inizio e fine carriera), abbiamo in euro 4.678 e 9.640; con la conversione Ppp in dollari si ha 5.775 e 11.901. Ebbene, solo in questo caso lo stipendio lordo massimo degli ordinari italiani è superiore a quello medio fornito dallo studio. Tuttavia non sappiamo come è stato calcolato questo stipendio medio né se per tutti gli altri paesi è stato preso in considerazione il lordo (dobbiamo aspettare la pubblicazione dello studio nella sua interezza), per cui non siamo in grado di capire se esso corrisponda a quanto effettivamente percepito in Italia». Bastava dare un’occhiata alle tabelle di Repubblica., era ampiamente spiegato: la ricerca ha valutato gli stipendi “prima delle tasse”, ovvero lordi. Lordi e in dollari. “Repubblica”, per aiutare i lettori a comprendere meglio, li ha affiancati a quelli netti e in euro delle tabelle ministeriali (e quindi delle buste paga).
Come si vede, caro investigator De Nicolao, il professor-blogger Coniglione — parole sue — non ha per nulla dimostrato «che non è vero» ciò che abbiamo scritto il 3 aprile 2012. Coniglione ha solo rimandato, con un po’ di prudenza, alla lettura completa del lavoro. Vi aggiungo che, come si evince dal pezzo di “Repubblica”, le spiegazioni date da Coniglione sulla lentezza della progressione degli studenti erano già presenti ed erano suggellate dalle parole di un ricercatore in cattedra da molti di voi conosciuto. Andate a leggere, ci sono nome e cognome.
Non c’è complotto, ve lo assicuriamo. Speriamo che la profezia dei Maya applicata all’università si fermi qui.
Corrado Zunino
Come minimo, ad essere molto buoni, il titolo (o catenaccio) di Repubblica era fuorviante. Inoltre, a parte certi membri del governo attuale (diventati ordinari a 29 anni con un curriculum manco da assegnista) dubito che negli anni a venire ci saranno molte persone che andranno in pensione con tutti gli scatti di anzianità. Sarà anche vero che il limite massimo è quello che è. È anche vero che quella cifra viene elargita anche a degli “assistant professors” nel mondo anglosassone, anche considerando la paga su 9 mesi. Allora, ammesso, e *non* concesso, che nell’articolo su Repubblica si facessero tutti i distinguo del caso (cosa che invece fa, giustamente, il Prof. Coniglione) la questione è come mai dal titolo si evince tutt’altro e se Repubblica ed il signor Zunino invece non hanno da ricalibrare un attimo il tiro e la linea su Università e ricerca; e magari anche la fuffa che viene inserita negli articoli (parlo dei tacchini e del sidro – in Italiano si scrive così). Il *primo* problema dell’Accademia e della Ricerca italiana è la mancanza di fondi. Punto. Ogni articolo che insinua il contrario va preso con lunghe pinze e giudicato o per i suoi intenti destruens o per la sua naïvetè. Diamo il beneficio del dubbio e propendiamo per la seconda ipotesi.
Marco Antoniotti
CASO REPUBBLICA-DARAIO-MOED: L’OGGETTO DELLA CONTESTAZIONE
Sul “caso Repubblica-Daraio-Moed” mi viene contestato quello che ho scritto ovvero:
“Il 22 agosto 2011 Repubblica annuncia che la produzione scientifica italiana è crollata del 20% in un solo anno ma, come potete leggere su Roars, il crollo è inesistente, nonostante l’annuncio provenisse dall’ufficio stampa dell’Università di Bologna, vedi qui (http://www.repubblica.it/rubriche/la-scuola-siamo-noi/2011/10/06/news/ricerca-22808073/) e qui (http://univeritas.wordpress.com/2011/08/24/is-italian-science-declining-anatomia-di-una-bufala/#comment-50).”
ANCHE ZUNINO E DARAIO CONFERMANO LA MIA VERSIONE
L’inesistenza del crollo delle pubblicazioni (da me dimostrata mediante la consultazione di due database: ISI WEb of Knowledge e Scopus) è ammessa anche da:
1) Corrado Zunino:
“non è vero che c’è stato il crollo degli articoli pubblicati dai ricercatori italiani”
(http://www.repubblica.it/rubriche/la-scuola-siamo-noi/2011/10/06/news/ricerca-22808073/)
2) Cinzia Daraio (che però disconosce la paternità dell’errore):
“I dati contenuti nella ricerca “Is Italian Science Declining?” … non indicano affatto un crollo delle pubblicazioni scientifiche italiana nel corso del 2009. Aggiungo che in tutto il paper non esistono dati relativi a cali di pubblicazioni del 22,5% attribuiti erroneamente al nostro studio” C. Daraio (http://www.scienzainrete.it/documenti/rs/risposta-di-cinzia-daraio-pietro-greco)
LA PATERNITÀ DELL’ERRORE
Di chi è la paternità dell’errore? Nel paragrafo che mi viene contestato, ho citato l’articolo di Zunino del 6/10/11, dando pertanto credito alla sua versione:
“un vicecaporedattore della Cronaca nazionale riceve dall’ufficio stampa dell’Università di Bologna … una mail che offre “in anteprima” a “Repubblica” un paper dal titolo interessante: “Ricerca: L’Italia arretra dopo trent’anni di crescita”. L’ufficio stampa dell’università spinge il lavoro … La nota stampa ha in allegato due “file excel” che riportano le tabelle dello studio e lì dentro c’è il numero giornalisticamente più interessante (diventerà il più discusso): 40.670 articoli pubblicati nel 2009 contro i 52.496 del 2008, l’anno record. Il crollo delle pubblicazioni è palese, non c’è dubbio”
(http://www.repubblica.it/rubriche/la-scuola-siamo-noi/2011/10/06/news/ricerca-22808073/)
Per correttezza, ho citato anche la versione di Dario Braga, prorettore alla ricerca dell’Università di Bologna:
“ringrazio Corrado Zunino per la paziente e accurata ricostruzione della vicenda che ha aiutato anche noi a ritrovare il bandolo della matassa. Ebbene sì. Un collaboratore a tempo determinato del nostro ufficio stampa ha inviato, in pieno agosto e senza averlo sottoposta ad alcun vaglio, un comunicato stampa con allegata una tabella di dati che richiedevano di essere interpretati e non utilizzati tal quale. Un errore quindi, non c’è dubbio, non una “bufala”, ma tale comunque da generare una serie di reazioni a catena. Ce ne scusiamo con quanti sono stati coinvolti, non ultima Cinzia Daraio il cui lavoro è stato posto all’indice” (http://univeritas.wordpress.com/2011/08/24/is-italian-science-declining-anatomia-di-una-bufala/#comment-50)
CONCLUSIONE
A) L’inesistenza del crollo è ammessa sia da Cinzia Daraio che da Zunino stesso.
B) Riguardo alla responsabilità dell’errore, ho menzionato il ruolo chiave dell’ufficio stampa dell’università di Bologna mettendo un link alla ricostruzione di Zunino ed anche a quella di Dario Braga (che tra l’altro ringrazia Zunino).
Mi risulta pertanto incomprensibile l’animosità di Zunino riguardo alla mia sintesi dell’accaduto che riflette in modo letterale quanto scritto da Zunino stesso. Viene persino fornito il link alla sua versione dei fatti. Alla luce di tutto ciò, tono e contenuti della lettera di Corrado Zunino, oltre che poco comprensibili, appaiono decisamente fuori luogo. Piuttosto, dovrebbe rivolgere le sue recriminazioni verso chi gli ha fatto pubblicare un dato decisamente errato facendogli abbassare la guardia sulle verifiche del caso (ovvero controllare la congruenza tra nota stampa dell’Università di Bologna e articolo scientifico di Daraio e Moed).
Bisogna farsi forza e resistere alla tentazione di rispondere a tono alle provocazioni di Zunino, dal tono e dal linguaggio semplicemente indecorosi. Zunino, guardi che scrivere su un sito web, anziché su un grande quotidiano nazionale, non autorizza mica a perdere il controllo della lingua, sa ? E parlare così mica serve, nemmeno se la sua intenzione è quella di fare la faccia truce o di dimostrare che non è una mammoletta.
Alcune osservazioni a beneficio del pubblico di Roars: per cominciare, una mia lettera (e-mail) in argomento indirizzata alla rubrica della corrispondenze di “Repubblica” è stata semplicemente ignorata. Per carità, mica pretendevo di dire cose imperdibili, ma si configurava come una risposta in nome del diritto di replica. Semplicemente riportava dati di una recente, autorevole pubblicazione italiana del 2010 che, in materia di retribuzioni del personale universitario, rappresenta una situazione comparata in Europa molto diversa da quella proposta dall’articolo di Zunino. In genere quando si sostiene una tesi magari ci si documenta e si riportano le posizioni pro e contro. Diritto di replica negato.
Stipendi: non è questione di tabelle, quelle le può leggere chiunque. E’ questione di sapere come funzionano le cose (e Zunino patentemente non lo sa). A Zunino, che temo non lo sappia, dico che funzionano così: il ricercatore italiano (siamo tutti ricercatori in senso lato) paga ormai di tasca propria i libri di cui ha bisogno, si paga il laptop con annessi e connessi, toner della stampante e carta, si paga le missioni di studio, i viaggi per partecipare alle riunioni delle società scientifiche, spesso si paga anche i congressi e non di rado c’è chi paga di tasca propria le pubblicazioni. Il ricercatore italiano dispone di strumenti di lavoro essenziali come biblioteche e abbonamenti a riviste e grandi database di vario genere (e ormai sono tantissimi, importantissimi e molto costosi) in quantità largamente inferiori rispetto ai paesi avanzati. La mancanza di questi strumenti, l’inesistenza di una politica consortile e di negoziato coi grandi distributori di questo genere di strumenti è uno degli aspetti tragici della situazione della nostra ricerca ed è respopnsabilità di politici totalmente impreparati o forse disinteressati a colmare il “digital divide” (che poi rischia di trasformarsi in uno “scientific divide”) rispetto al mondo più progredito. Dimenticavo: se capita di essere un pendolare (capita anche sulle distanze massime est-ovest o nord-sud o penisola-isole) e se non si hanno le condizioni per un trasferimento, si pagano (non siamo i soli, sia chiaro) di tasca propria i costi del pendolarismo (un esempio ? vogliamo sottostimare 4-5mila euro all’anno ? e vogliamo dire che – per chiunque ne porti il carico – potrebbero essere ragionevolmente portati in deduzione nella dichiarazione dei redditi ?). Tutto questo a stipendi bloccati, scatti bloccati, carriere bloccate, mentre le valutazioni (di ogni genere) continuano e anzi aumentano, fino a prospettare agganci di livelli stipendiali alla produttività individuale (piacerebbe sapere in quale altro comparto pubblico un’idea del genere si sia presentata).
Ma come è possibile tutto questo ? si domanderà l’ignaro. Semplice: da anni i finanziamenti per ricerca – giustamente assegnati su base competitiva, per cui ci troviamo continuamente valutati, giudicati, passati al setaccio, e per fortuna, aggiungo – sono paurosamente scarsi e in calo in ogni forma, nazionale e di sede. Molti di noi competono in Europa a vari livelli: anche qui l’ignaro non saprà che il tasso di successo in Europa è intorno al 5%. Ma si compete, per carità, ci mancherebbe. E si pubblica, molto e bene. Questo è incontestabile. Ma non calano solo i fondi per la ricerca – cosa che puntualmente è avvenuta anche sotto il ministro Profumo. Cala inesorabilmente – e da anni è ormai così – il trasferimento ministeriale annuo, che costituisce la quota maggiore dei bilanci degli atenei; calano le risorse per i dottorati di ricerca e la formazione post-laurea; leggi-mannaia impongono soglie del 20 % al turn-over del corpo docente, che dappertutto si sta assottigliando a causa di massicci pensionamenti (e prepensionamenti agevolati); il reclutamento è praticamente azzerato; interi settori disciplinari anche di grande prestigio – come nel caso degli studi classici o italianistici, tanto per citarne un paio di interesse secondarissimo – sono sulla strada dell’estinzione; stiamo assistendo a un ridimensionamento totalmente casuale dell’offerta formativa degli atenei, non fosse per i salti mortali di colleghi impegnati a riprogettare, rimodellare, ridisegnare, puntellare corsi. E di tutto questo, cosa arriva sulle pagine dei giornali ? Una polemica sugli stipendi ! Invece di appelli reiterati, appassionati, instancabili perché questa situazione dell’università sia rettificata, arriva un attacco costante, pressante, martellante contro università e docenti universitari. Per Zunino non c’è complotto ? Lo chiami come vuole, basta però che legga i giornali, oltre a scriverci sopra, e che tenga nota dei provvedimenti di legge che da almeno una decina d’anni si abbattono sull’università e magari la sua visione risulterà più chiara. Che poi non si renda conto del significato e dell’effetto di una pagina come quella cha ha montato il 3 aprile scorso e del modo con cui la pagina è stata costruita, francamente non si può credere, sarebbe fare torto alla sua intelligenza. Last but not least, quando si parla di stipendi medi è facile cadere nel paradosso di Trilussa: uno sguardo alla reale composizione e alla velocità delle carriere (e a come tutto questo sia già da tempo in via di ridisegnamento/peggioramento all’insaputa dei più) oppure all’entità dei prelievi fiscali regionali – oltre a tutto quanto si è detto sopra – permetterebbe di parlare con maggiore cognizione di causa. E di dare a ciascuno quel che gli spetta.
Patentemente conosco la situazione della ricerca pubblica italiana e lo stato delle università: ho pronta un’inchiesta al proposito (gliela invierò per mail, in anticipo, se mi farà avere il suo indirizzo elettronico). Il problema è che non possiamo, ogni volta che affrontiamo un nuovo argomento, magari in contraddizione con la vulgata comune, rifare la storia dell’università dall’accademia platonica in giù. Lì si parlava di stipendi dei professori (non di fotocopie dei ricercatori), c’era un libro che ci offriva uno spunto giornalistico per parlarne e l’abbiamo fatto. Girare intorno a un fatto (le tabelle ministeriali sono quelle, i numeri sono quelli che abbiamo pubblicato) è un esercizio di ipocrisia. Quei numeri, e quel libro, sono stati incorniciati dentro una situazione di “grande difficoltà”, di ritardi professionali e retributivi, evidenziati nel pezzo. Pensare che non si possa parlare dei buoni stipendi degli ordinari d’ateneo perché gli atenei sono malfinanziati da anni e sempre peggio è un atteggiamento mentale sbagliato. Anche perché le contraddizioni nel mondo universitario sono davvero tante (in una seconda mail le invierò tutti gli articoli tratti dai giornali locali in cui si parla di inchieste giudiziarie aperte sulla conduzione economica di dipartimenti universitari in tutta Italia: mi capita spesso di pensare che il mondo universitario italiano si sia messo nelle migliori condizioni possibili per meritare la brutta riforma Gelmini).
Due piccole cose finali. Il mio giornale nella sua accezione larga ha speso più inchiostro, fotografie, video di tutti per illustrare la protesta dei ricercatori nei confronti della riforma Gelmini, per raccontare moti di paizza e ragioni di un nuovo movimento studentesco (innanzitutto universitario). In quel caso siamo stati martellanti o no? La sua mail purtroppo non l’ho ricevuta, se no le avrei risposto, come faccio con tutti quelli che mi scrivono. Impiego molto tempo, come comprenderà da questi interventi su uno spazio aperto di Roars, nel rapporto con i lettori, i cittadini, le fonti. Ancor più con quelle critiche. Ci credo e, quindi, quando vedo propalate falsità sul conto mio e del mio giornale, reagisco.
Vorrei contribuire alla discussione chiarendo un punto. Noi non pensiamo che sia in atto un complotto, così come non crediamo alle profezie Maya. Le cose sono più semplici; alcune disfunzioni dell’università italiana hanno dato il destro a soggetti non sempre disinteressati per avviare un’opera di denigrazione del sistema universitario che in quel momento era funzionale all’approvazione di una pessima riforma, frutto peraltro di molte mani di orientamenti politici diversi. In breve tempo, grazie alla solerte opera di personaggi come l’ex ministro Gelmini, l’ex ministro Brunetta (ci ricordiamo la storia dell’asino dell’Amiata?) e tanti altri (inclusi alcuni accademici senza troppi scrupoli) ha preso piede una retorica, che prima o poi andrà ben studiata e decostruita, secondo la quale l’università italiana è fatta di nullafacenti (salvo i ricercatori, meglio se portano il camice bianco), di concorsi truccati, di retribuzioni sproporzionate alla produttività e così via. Non c’è dubbio che segmenti della stessa università abbiano contribuito all’affermarsi di questa vulgata. Resta però una rappresentazione del tutto inesatta, solo raramente controbilanciata da notizie e commenti di taglio diverso. Tuttavia, si ha come la sensazione che siccome ormai è questo il refrain, ogni nuovo dato si presti ad essere letto e inquadrato in questo contesto: un contesto che finisce per giustificare il sottofinanziamento. Questo è ciò che personalmente imputo alla stampa italiana: sono certo che se si conducesse un sondaggio su un campione di popolazione, la stragrande maggioranza collocherebbe la ricerca italiana al livello dello Zimbabwe o giù di lì (è la nostra crescita economica 2000-2010 che si colloca a quel livello), quando in realtà sta ai primi posti fra i paesi sviluppati. La speranza è che con il tempo possiamo invece arrivare a confrontarci su dati reali, per il bene dell’università e del paese tutto. Roars è stato pensato proprio per questo.
Come spesso accade per i valori medi, il livello medio degli stipendi accademici in Italia fornisce poche indicazioni utili per una riforma che apra effettivamente la carriera universitaria in Italia ad “esterni”, come avveniva una volta. Il problema vero è che sono troppo bassi gli stipendi iniziali, ed è sugli stipendi iniziali che si basa la nostra capacità di attrarre studiosi che non appartengono già ai ruoli universitari italiani, ad esempio studiosi stranieri o residenti all’estero. Non ha senso che un neoprofessore quarantenne venga pagato la metà di un suo collega settantenne per lo stesso lavoro, probabilmente svolto meglio dal più giovane. Certamente lo studioso “esterno” che non può godere del trascinamento del suo attuale stipendio né godere della ricostruzione della carriera, non sarà invogliato a concorrere ad un posto di prima fascia in Italia solo perché, dopo trenta anni, il suo stipendio sarà raddoppiato. L’ideale sarebbe pagare tutti i professori di prima fascia allo stesso modo dal momento che svolgono lo stesso lavoro, presumibilmente con pari competenza. Bisogna dire però che la legge Gelmini ha fatto un piccolo passo nella direzione giusta, abolendo il periodo di straordinariato e la ricostruzione di carriera (che davano un ingiusto vantaggio a chi proveniva dai ruoli universitari) e, al tempo stesso, aumentando i livelli iniziali degli stipendi. Può essere che queste disposizioni, nel tempo (almeno 10-20 anni) correggano le assurdità più vistose della scala degli stipendi.
Vi è una sostanzaile differenza tra il costo di un lavoratore e la retribuzione netta percepita dallo stesso. Le considerazioni di Abbattista sono corrette. I professori italiani devono sostenere di tasca propria molte spese che in altri sistemi universitari sono finanziate dagli atenei. Ma vorrei andare oltre e fare un confronto diretto tra la retribuzione netta di un professore di prima fascia in Italia con dieci anni di anzianità e un suo omologo (riconosciuto ora anche dalle tabelle internazionali) professeur de première classe in Francia con gli stessi anni di anzianità. La retribuzione netta mensile di questo professore in Italia è di 3.732,92, desunta dalla seguente fonte che ritengo attendibile:
http://alpaglia.xoom.it/alberto_pagliarini/TAB2010Aumento3e09percento.htm
A questa retribuzione netta vanno sottratte le varie addizionali. La retribuzione netta dell’omologo francese è invece di 4545, desunta dalla seguente fonte che ritengo ugualmente attendibile:
http://nicolas.tentillier.free.fr/Salaires/index.html
Il confronto ha un senso poiché si tratta di due sistemi universitari pubblici con numerose affinità. Inoltre, in Francia vi sono incentivi attribuiti su base premiale e un’intera classe premiale denominata classe exceptionnelle. Mi risulta che la valutazione per il conseguimento dei premi sia fatta dai pari e non solo tramite cervellotici indici bibliometrici. Quindi l’affermazione che i professori italiani sono tra i più pagati al mondo mi sembra sia smentita da queste tabelle se ci si riferisce al loro stipendio netto. Questo tra l’altro spiega perché la Francia stia attirando molti brillanti ricercatori italiani. Se un riceratore deve decidere in quale sistema investire il proprio avvenire non considera, nella parte prosaica della sua valutazione, il costo medio lordo dei professori, abbia pazienza signor Zunino!
Per evitare di usare questa sede per uno scambio diretto e personale tra me e Corrado Zunino, a quest’ultimo dico che il mio indirizzo di e-mail è pubblicamente accessibile sul sito dell’università dove presto servizio (www.units.it) e sarò molto interessato e grato di ricevere anticipazioni del suo lavoro d’inchiesta, di cui però potrebbe forse mettere a parte Roars nel suo complesso. Magari sarebbe un buon modo per proseguire (o per avviare) costruttivamente il dialogo con una parte dell’università italiana che non ammette di fare da bersaglio inerme non tanto e non solo di una stampa ostile (a proposito: le sarò grato se mi segnala un recente articolo sull’università che non sia unilateralmente negativo), quanto soprattutto di una “politica” distruttiva e che distorce i fatti per meglio conseguire i propri obiettivi. Quando quelle distorsioni provengono da certi ambienti e da certi personaggi politici, come è avvenuto negli ultimi anni del passato governo, la cosa è ancora meno sopportabile. Non lo è di più, però, se l’attuale governo continua imperterrito su quella strada.
Poche osservazioni alla replica di Zunino. Quando uno studente fa una relazione su un certo argomento, capita spesso di dover correggere la tendenza a riscrivere la storia dell’umanità per inquadrare il proprio problema. Figuriamoci quindi se a Zunino intendevo rimproverare di non aver fatto, come lui dice, la storia dell’università dall’accademia platonica in giù in 4000 caratteri. Sarebbe bastato, però, un bel punto interrogativo nel titolo e, nel testo, un taglio più dubitativo. In mancanza di questo, ciò che resta è la scelta di riportare certe tesi come fossero dati di fatto incontestabili. E quindi la sottoscrizione di quelle tesi.
Ancora una cosa. Zunino rivendica al suo giornale il merito di aver sostenuto nei mesi passati la causa della categoria dei “ricercatori universitari” propriamente detti. Ecco, questo forse è un esempio perfetto di uno sguardo unilaterale e parziale sull’università. Per quante ragioni possano aver avuto (o ancora avere) i “ricercatori universitari” – e di questo non discuto ora – possiamo con la massima certezza dire che la loro causa di categoria non si identifica affatto coi problemi dell’università, anche se a un certo punto questo è stato fatto passare nell’opinione pubblica. Le loro rimostranze avrebbero potuto essere una utile occasione per mettere a fuoco tutto un insieme di problemi, senza cedere alla tentazione di sparare nel mucchio contro i “baroni” e contro l’anagrafe, con risvolti francamente grotteschi e offensivi. In molti non hanno proprio voglia di farsi mettere nel mucchio da nessuno. Infine: sempre per lo stesso motivo, non c’è alcun bisogno di leggere articoli di giornali locali sulla conduzione di alcuni dipartimenti universitari italiani. Nessuna difficoltà a constatare o ad apprendere di casi di cattiva gestione (ma – sia chiaro – a ben altra scala di problemi ci ha abituati la vita istituzionale e politica del nostro paese). Ma è sufficiente per trarre conclusioni generali ? No, non è assolutamente sufficiente. Chi ha esperienza di varie università italiane e di direzione di dipartimento o di altre strutture – chi scrive purtroppo o per fortuna è tra questi – sa benissimo che è profondamente sbagliato appiattire tutto su un’immagine negativa, anche se proprio questa è cio che “paga” in termini di comunicazione pubblica. Sbagliato oppure, s’intende, politicamente motivato, come ci insegnano gli anni recenti.
Alcune considerazioni del tutto generali, senza entrare nel merito delle due diatribe, calo della ricerca ed eccellenza degli stipendi, su cui si sono ampiamente cimentati i colleghi.
Più in generale, noi abbiamo:
1) Una posizione del nuovo ministro Profumo in totale linea con quella del precedente – “la riforma Gelmini va ‘oliata’, non modificata”
2) L’assunzione di un atteggiamento totalmente osannante (si noti come mi astenga dall’usare termini forti) da parte di Repubblica verso il governo Monti. Si vedano gli editoriali domenicali di Scalfari, quasi adoranti.
Da queste semplici considerazioni si comprende bene come Zunino leghi il carro dove ha deciso “la linea editoriale” (si noti di nuovo la signorilità della scelta dei termini…).
Nessun problema. Abbiamo coscienza che ora Repubblica si accoda al Corriere e a 24 Ore. L’università pubblica è cattiva, i Rettori sono buoni e illuminati, i prof. sono dei privilegiati che vanno in tutti i modi ricondotti a più miti consigli.
Evviva la stampa libera. Vengono in mente tante cose. Prima o poi toccherà ai giornalisti, e allora magari, come recita il celebre aneddoto, non ci sarà più nessuno a cui chiedere una mano.