Un rapporto pubblicato quest’anno dalla European University Association (T. Estermann, E. Bennetot Pruval, Financially Sustainable Universities II. European universities diversifying income streams, European University Association, Brussels, febbraio 2011) permette di mettere a fuoco il problema del finanziamento del sistema universitario italiano su di un piano comparativo rispetto agli altri paesi più sviluppati e in particolare in confronto agli Stati Uniti. È stata infatti una delle convinzioni più pervicacemente diffuse quella che l’università italiana, a differenza degli altri paesi (e in genere i punti di riferimento sono stati, al solito, gli Stati Uniti e il Regno unito), sia la più dipendente dal finanziamento statale e la meno in grado di provvedere autonomamente ai propri fabbisogni, facendo in particolare ricorso al settore privato. Ebbene i dati dell’EUA permettono di gettare un sguardo più accurato sulla questione, solo in parte confermando la vulgata diffusa.
È innanzi tutto importante effettuare preliminarmente una distinzione tra spesa per ricerca nel suo complesso (quindi quella effettuata dalle industrie intra muros o da enti di ricerca vari, ivi compresa quella effettuata dal sistema universitario) e spesa per la ricerca effettuata nelle università (e quindi escludendo la ricerca industriale e quella di altri enti di ricerca non di carattere accademico). Ciò perché spesso in Italia si fa confusione tra le due e, ad esempio, si sostiene che la ricerca e le università (assunte le due cose in modo indistinto) sono negli Stati Uniti prevalentemente finanziate dal settore privato. Ma se ciò è vero per la ricerca in generale (in cui il 68% dei finanziamenti è attribuibile nel 2008 al settore privato – ed è questo dato a segnare la differenza reale con l’Italia), non lo è per le università e per la ricerca in esse condotta. E infatti se consideriamo quest’ultima e prendiamo in esame la distribuzione della spesa per R&S nelle università americane relativa all’ultimo anno disponibile (il 2009), si evince che gran parte dei finanziamenti per la ricerca (il 60%) proviene dal governo federale e solo il 6% dall’industria. Se si considera che vi è anche un 7% di finanziamenti provenienti dagli Stati e dai governi locali, il totale dei finanziamenti pubblici sale al 67%. È notevole anche il 20% derivante da fondi propri delle istituzioni, ovvero da ciò che le università investono grazie ai proventi provenienti da donazioni e attività economiche di vario genere, come la vendita di brevetti o la partecipazione al loro sfruttamento.
Se ora andiamo a vedere il finanziamento complessivo (e non della sola R&S) delle università americane (che comprende ovviamente anche il mantenimento delle strutture, dei servizi e di tutte le facilitiesper studenti e personale) è anche necessario precisare che una cosa è il finanziamento delle università di ricerca, un’altra quella dell’intero sistema dell’educazione postsecondaria. Per quanto riguarda le “High Research Universities” (che sono solo una piccola minoranza, 108, su un totale di circa 4633 atenei) apprendiamo da un rapporto del 2008 del Council On Government Relations (che fa parte dell’associazione delle università di ricerca, che comprende le 61 più prestigiose) che il 30% dei finanziamenti delle università non private proviene da commesse e contratti di ricerca pubblici e il 25% da finanziamenti non per ricerca federali, statali e locali; così il 55% delle risorse ha origine pubblica. Poi una buona fetta del 16% è assicurata da tasse e contributi ed è quindi a carico degli studenti e un 14% concerne le “auxiliary enterprises” che di solito concernono tutte attività legate alle rette per alloggio, alle gare sportive, alla vendita di libri, gadget e ai servizi mensa. Donazioni e finanziamenti privati sono solo il 7% delle entrate. Infine vi è un 8% di altre entrate che comprende tutto ciò che non è classificato nelle voci precedenti (vedi la figura).
Nel confronto con quelle pubbliche, le università private vedono la quasi assenza di finanziamenti federali, statali e locali (solo l’1%), l’aumento delle tasse degli studenti (23%) e delle iniziative collaterali (15%) e anche leggermente dei finanziamenti per ricerca pubblici (31%), mentre diventano assai più consistenti i finanziamenti privati che salgono al 23%. Insomma le università di ricerca americane (quelle al top, che tanto invidiamo) sono per lo più pubblicamente finanziate e solo per una modesta quantità dai privati; ed è anche falso che si mantengono con le tasse degli studenti. Tale constatazione è tanto più importante quanto più si consideri il fatto che le 61 università considerate, le più prestigiose negli USA e internazionalmente, sono quelle che attirano maggiormente gli investimenti privati e hanno le tasse studentesche più elevate. Inoltre, altra consistente differenza dal sistema italiano, le università private sono veramente tali e non “private con i soldi pubblici” come invece avviene da noi.
Se si fa ora una comparazione tra le entrate complessive delle università di ricerca americane e quelle italiane (tenendo presente che in queste ultime non esiste la distinzione tra le università di ricerca e non di ricerca, come negli USA, sicché esse possono essere tutte considerate “di ricerca” in quanto tutte ricevono finanziamenti a tale fine), vediamo che le entrate di fonte pubblica (Stato ed enti pubblici) nelle università statali italiane ammontano complessivamente al 59%, di contro al 31% degli USA. Tuttavia tale dislivello è in parte colmato dal fatto che negli USA è di provenienza pubblica anche il 22% dei finanziamenti per contratti di ricerca, arrivando così al 53%, laddove in Italia quest’ultima voce è solo un misero 4,9%, arrivando il totale al 63,9%: una differenza percentuale a favore dell’Italia di circa il 10%.
Tuttavia tali dati, per essere apprezzati nella loro reale portata, devono essere contestualizzati alla diversa realtà rappresentata dagli USA rispetto a quella conosciuta dalle università europee. E qui ci viene in aiuto il menzionato rapporto dell’EUA, dal quale apprendiamo che nei 27 paesi che fanno parte dell’UE il finanziamento delle università è per il 72,8% pubblico e il 9,1% proviene dalla tasse studentesche. I finanziamenti che provengono dai contratti (di ricerca e consulenza) col settore degli affari ammontano solo al 6,5% a cui deve essere aggiunto un 4,5% di fondi filantropici; in tutto l’11%. Come si vede le entrate pubbliche delle università italiane sono di gran lunga inferiori alla media europea, mentre invece le entrate derivanti dalle tasse studentesche sono nelle università statali il 7,8%, meno della media europea. Bisogna notare che una consistente quota (più di 1/3) delle entrate delle università statali italiane è rappresentata dalle attività istituzionali, che comprendono la vendita di beni e servizi, i redditi e proventi patrimoniali e le entrate per alienazione; insomma, non si può dire che le università italiane abbiano solo avuto il piatto in mano per chiedere i finanziamenti statali, ma si sono date da fare per incrementare le proprie entrate in maniera autonoma, ponendosi all’avanguardia in Europa e ad un livello quasi americano. Se procediamo ad aggregare i dati in tre sole voci (entrate pubbliche di varia natura, entrate private, proventi da attività istituzionali e autonome), risulta un quadro assai interessante, in quanto l’università italiana statale è al disotto della media europea per i finanziamenti pubblici ricevuti (sia come FFO sia per ricerca), come si vede dalla figura. Insomma, la situazione non è esattamente quella che di solito è comunemente diffusa da gran parte dei mass media e che viene di solito assunta come base indiscutibile di partenza nei dibattiti politici e nelle azioni di governance sull’università. È questo un altro esempio di come il dibattito politico possa essere distorto da informazioni false o tendenziose.