Perché discutere di telematiche
Fin dalla loro prima istituzione, con il decreto interministeriale del 17 aprile 2003 si assiste al riaccendersi periodico di dubbi e polemiche sulla qualità dell’offerta delle università telematiche. La questione è all’ordine del giorno, se non altro perché la ministra Maria Chiara Carrozza ha nominato una commissione incaricata di elaborare proposte per affrontarne le criticità[1].
In effetti, dopo otto anni dall’istituzione voluta nel 2005 dall’allora Ministro Moratti, quello italiano è un caso unico, con undici diversi atenei telematici molto differenti per dimensioni, per quantità dell’offerta formativa, numerosità di docenti e di studenti: Università Telematica “LEONARDO da VINCI”, Università Telematica “E-CAMPUS”, Università Telematica “GIUSTINO FORTUNATO”, Università Telematica “GUGLIELMO MARCONI”, Università Telematica “San Raffaele”, Università Telematica Internazionale “UNINETTUNO”, Università Telematica “ITALIAN UNIVERSITY LINE”, Università Telematica “PEGASO”, Università Telematica “UNITELMA SAPIENZA”, Università degli Studi Niccolò Cusano , Università Telematica “Universitas MERCATORUM”.
Le inchieste giornalistiche, non ultima la lunga e interessante intervista rilasciata agli inizi di luglio dalla Rettrice dell’Università Marconi[2], sono utilissime a sollevare questioni reali ma spesso sono molto meno utili ad affrontarle analiticamente e lucidamente. La stampa ha in passato denunciato il “bluff milionario” delle università online, utilizzando la definizione di “università fantasma” per segnalare la presunta assenza di un corpo docente proprio[3], o, laddove vi sia, di “docenti compiacenti”, dando per scontato che chi ci lavora, contrattisti esterni per lo più, non possa che condividere gli obiettivi aziendali o essere disposto a svendere il titolo di studio allo studente-acquirente. Toccherà alla commissione ministeriale individuare le criticità del sistema e proporre al Ministro gli adeguati correttivi, è compito del Ministero e dei suoi organi – per le rispettive competenze – svolgere un lavoro di verifica della qualità e della sostenibilità dell’offerta formativa degli atenei telematici. Infine, è compito della Magistratura vigilare che dietro, dentro o intorno alle telematiche non vi siano comportamenti illegali. Non sono questi gli aspetti che intendiamo discutere in questo breve articolo.
Piuttosto, ci interessa discutere un aspetto che rimane totalmente nascosto in questo battage negativo intorno alle “università esamifici”, che è relativo alla condizione e al ruolo che ricopre il corpo accademico strutturato, ricercatori (in gran parte) e professori (in misura notevolmente minore) assunti con normali concorsi pubblici come in tutte le università statali. E che di queste procedure vivono, quindi, i limiti al pari di ogni altro ateneo italiano. Una condizione che non è solo il frutto di prassi che sfiorano spesso l’illegittimità (talvolta la superano), ma che affonda le sue radici nell’insanabile contraddizione tra l’interesse dell’assetto proprietario di Università (quello di trarre dalla didattica universitaria on line un profitto) con la natura complessa della docenza universitaria che è tale se è in grado di offrire, al meglio possibile, il senso della relazione stretta tra didattica e ricerca. Con modi, tempi e processi lontanissimi da quelli necessari a “fare business”, in un contesto caratterizzato da una competizione al ribasso tra un numero elevatissimo di atenei telematici .
Innanzitutto, proviamo a fornire qualche elemento informativo relativo alle dimensioni del fenomeno “telematiche”, pur nell’incertezza che ci restituisce la scarsità di dati pubblicati sui siti degli atenei e lo scarso aggiornamento di quelli ministeriali. In assenza di banche dati specifiche, facciamo quindi riferimento all’anagrafe degli studenti, i cui dati parziali sono stati visionati alla data del 6 giugno 2013, per ricavare il numero degli studenti iscritti. Quindi al sito “www.cercauniversità.cineca.it” per verificare il numero di docenti a tempo indeterminato e determinato presenti negli atenei telematici. Infine ai siti degli atenei, e alla banca dati dell’offerta formativa del Miur, per ricavare i corsi attivati e di nuova attivazione. È necessario rilevare che tutti i dati, compresi quelli ricavabili dal sito Cineca che abbiamo consultato alla data del 1 giugno (e che quindi non riporta quei docenti che saranno a breve reclutati da quegli atenei che intendono aprire per il prossimo anno accademico nuovi corsi di studio), sono meramente indicativi e certamente parziali.
Le telematiche: i dati
Università | Studenti iscritti al 2012/2013 | Corsi attivati | Numero docenti |
Università Telematica “Leonardo da Vinci” | 149 | 3 corsi di laurea di primo livello e ciclo unico e 1 corso di laurea magistrale a ciclo unico | 11 ricercatori a tempo determinato |
Università Telematica “E-Campus” | 4756 | 9 corsi di laurea di primo livello e una magistrale a ciclo unico, cui aggiungere 24 tra master di primo o secondo livello e corsi di perfezionamento o formazione professionale | 77 docenti, in prevalenza ricercatori a tempo determinato (49) |
Università Telematica “Giustino Fortunato” | 476 | 1 corso di laurea di primo livello e 1 corso di laurea magistrale a ciclo unico | 14 docenti, di cui 11 ricercatori a tempo determinato |
Università Telematica “Guglielmo Marconi” | 15520 | 14 corsi di laurea di primo livello e ciclo unico, 1 corso di laurea magistrale a ciclo unico; 15 corsi di laurea magistrale; 70 master; 18 dottorati nonché corsi di specializzazione e di alta formazione | 152 docenti, di questi circa 50 sono straordinari, 3 ricercatori a tempo indeterminato, 6 professori ordinari, 12 professori associati e la restante parte ricercatori a tempo determinato |
Università Telematica San Raffaele | 830 | 3 corsi di laurea di primo livello, 2 nuovi corsi richiesti | 17 docenti, tutti ricercatori a tempo determinato |
Università Telematica Uninettuno | 2714 | 8 corsi di laurea di primo livello, 12 master; 5 nuovi corsi richiesti | 72 docenti, di cui 10 ricercatori a tempo determinato, 17 ricercatori a tempo indeterminato, 45 professori straordinari a tempo determinato |
Università Telematica IUL | 0 (gli ultimi studenti risultano iscritti all’anno 201/11) | 1 corso di laurea di primo livello | Nessun docente |
Università Telematica Pegaso | 0 (presumibilmente per carenza di dati) | 1 corso di laurea di primo livello e 1 corso di laurea magistrale a ciclo unico; 7 nuovi corsi richiesti | 29 docenti, di cui 3 professori ordinari, 2 ricercatori a tempo indeterminato e i rimanenti a tempo indeterminato |
Unitelma Sapienza | 1466 | 2 corsi di laurea di primo livello e 1 corso di laurea magistrale a ciclo unico, 8 master; corsi di perfezionamento e aggiornamento professionale | 18 docenti, di cui 1 professore ordinario, 1 professore associato, 1 ricercatore a tempo determinato e i rimanenti docenti sono ricercatori a tempo indeterminato |
Università delle scienze umane “Niccolò Cusano” | 9752 | 2 corsi di laurea di primo livello e 1 corso di laurea magistrale a ciclo unico, 13 master, corsi di perfezionamento e aggiornamento professionale; 8 nuovi corsi richiesti di cui 5 magistrali | 37 docenti, di cui 2 professori ordinari, 3 professori associati, 25 ricercatori a tempo indeterminato, 3 ricercatori a tempo determinato e 2 straordinari a tempo determinato |
Università Telematica Mercatorum | 151 | 1 corso di laurea di primo livello e 1 master, corsi di formazione e aggiornamento professionale; 2 nuovi corsi di studio | 19 docenti, di cui 4 professori ordinari, 3 professori associati, 12 ricercatori a tempo determinato |
Pur tenendo conto della parzialità dei dati, quello che emerge è un sistema imponente, anche se disorganico e frammentato e che offre, spesso, corsi di studio sovrapponibili (basti pensare all’alto numero di corsi di studio magistrali a ciclo unico in Giurisprudenza). È importante sottolineare che gli atenei fin qui visitati, 8 su 11, hanno comunque superato indenni, a parte qualche osservazione critica e poche raccomandazioni per il futuro, le ultime valutazioni dell’Anvur[4], che ne ha fornito un giudizio complessivamente positivo. Giudizio che segue, e sostituisce, quanto espresso dall’ormai cessato Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario in un rapporto del gennaio 2010[5].
Le università telematiche non sono quindi più il coniglietto uscito dal cilindro del ministero Moratti che, in un quadro legislativo molto permissivo, hanno intrapreso la loro attività senza limiti di sorta alla loro libertà di azione e organizzazione. Il coniglietto sembra piuttosto diventato un pachiderma che tenta di competere con un sistema pubblico alla cui “decadenza”, frutto di decenni di tagli e sottofinanziamenti, si propone di contrapporre l’efficienza dei servizi e la disponibilità a garantire strumenti tali da rispondere alla richiesta dello studente del minimo sforzo e della massima flessibilità istituzionale: iscrizioni tutto l’anno, esami tutti i mesi, possibilità di sostenerli nelle sedi remote, e, naturalmente, l’utilizzo della didattica on line, libera da vincoli di tempo e di spazio, le cui potenzialità sono riconosciute e sperimentate in gran parte del mondo universitario, ivi compreso quello “tradizionale”. A questo approccio “customer-oriented” si deve il successo di mercato delle telematiche, che tuttavia sembrano quest’anno non immuni dalla crisi. Del resto, i segnali di debolezza erano da tempo visibili, come era ben segnalato da Francesco Coniglione in un articolo apparso su Roars nel 2011[6], nel quale si poneva il problema della sostenibilità economica e finanziaria della gran parte degli atenei telematici. E che domina, sottotraccia, la relazione tra docenti delle telematiche e la proprietà: se gli atenei statali possono entrare in dissesto, gli atenei telematici – più in generale quelli non statali – possono “fallire” come una qualsiasi impresa.
Essere docenti e ricercatori in una telematica
La prospettiva che qui si esprime è quella appunto di chi lavora in una Università telematica come docente universitario. Le telematiche, infatti, sono state indotte obtorto collo ad assumere ricercatori e professori secondo le normali procedure di reclutamento e nel rispetto, quindi, dei rispettivi profili professionali e di stato giuridico. L’esistenza di personale accademico strutturato, sia a tempo indeterminato che a tempo determinato, doveva essere una delle garanzie della qualità della didattica, tra le misure la cui raccomandazione veniva fortemente ribadita dal CUN in una lungimirante, ma in buona parte inascoltata, mozione del 25-5-2010[7]. Del resto, i decreti istitutivi con i quali il Ministero autorizzava questi atenei a rilasciare certificati di laurea dal valore legale li vincolava al rigoroso rispetto della legislazione vigente.
Per una generazione di dottori di ricerca, postdottorati e assegnisti cui nel frattempo si chiudevano le speranze di assunzione nell’università statale, la possibilità di accedere a posti a tempo indeterminato costituiva una risorsa insperata, e contemporaneamente un salto nel vuoto. Sì, perché a cosa servivano dei ricercatori a delle università che, fino alla VQR, non erano soggette alla valutazione della ricerca? Ovvio, i ricercatori erano assunti come docenti a basso costo, e insieme erano una carta forte da giocare sul tavolo ministeriale per garantirsi la continuità dell’autorizzazione, nonostante i numeri esigui in proporzione alla crescente quantità di iscritti. Del resto, i risultati della VQR in atenei come quelli telematici né orientano quote di finanziamento pubblico (la gran parte delle telematiche non ricevono alcun finanziamento diretto da parte dello Stato) né potrebbero orientare in alcun modo la gran parte degli studenti, che per loro natura sono poco interessati alla qualità della ricerca.
Ed ecco il primo stadio della mutazione genetica. Il ricercatore si ritrova, alla presa di servizio, con un decreto già pronto di nomina a “professore aggregato”. Fin qui tutto bene, salvo che la didattica non è un obbligo per il ricercatore, e che la legge (sia la 382/1980, sia la 240/2010) indica un numero massimo di ore da dedicarvi, onde non compromettere l’esercizio della sua principale funzione, quella di fare ricerca. Una banalità, ma molto difficile da far capire ai padroni delle telematiche, che sono imprenditori, che non hanno esperienza del mondo universitario, che ritengono di poter utilizzare tutti i loro dipendenti nella prospettiva, legittima dal loro punto di vista, dell’efficienza aziendale e del perseguimento del profitto. Le ricadute di un’attività di ricerca di qualità sono, nell’ottica di atenei che fanno della customer satisfaction il perno della loro missione, secondarie quando non irrilevanti rispetto alle necessità dell’attività didattica.
Naturalmente il ricercatore si ritrova a svolgere la propria attività senza accesso a biblioteche, strumenti e fondi di ricerca di alcun tipo, in qualche caso dovendo addirittura essere autorizzato per lo svolgimento di attività di ricerca “fuori sede”. L’università telematica è, di fatto, una struttura commerciale. Investe molto in politiche di marketing, raggiunge il potenziale utente nei suoi account di posta elettronica, attraverso i siti dei principali organi di stampa, sui megacartelloni pubblicitari all’ingresso delle città, ma non ritiene di stanziare nulla nell’attività di ricerca. La ricerca è questione “privata” del ricercatore.
Secondo stadio della mutazione genetica del ricercatore. Costui si sdoppia. Dentro le mura del suo ateneo telematico è una sorta di tutor tuttofare in un regime da “dittatura del consumatore”, a disposizione dello studente che è cliente, e ha sempre ragione. È un operaio alla catena di montaggio che sforna esami e lauree con la velocità necessaria a garantire la produttività attesa. Fuori le mura è un essere mutilato che raminga alla ricerca della sua ragion d’essere, tentando di inserirsi in reti di ricerca, gruppi, rispondendo a tutti i call for paper che può, appoggiandosi “clandestinamente” alle strutture che gli forniscano i mezzi del suo lavoro, per lo più le “decadenti” Università statali di provenienza, tentando insomma di mantenere un profilo che è quello per il quale, in fondo, ha intrapreso questa carriera.
Bene, si dirà, il problema del sottofinanziamento della ricerca è nazionale. La vita dei ricercatori è dura ovunque, ma nelle Telematiche lo è di più. Perché in genere, e a dispetto delle dichiarazioni, alla dirigenza tutto questo fuggire non piace. Gli iscritti crescono, occorre reggere l’offerta didattica, anche per coprire i costi crescenti e le riduzioni degli utili e dei profitti, e talvolta il ricercatore si trova affibbiati 2, 3, 4 insegnamenti, più qualche corso di master, per ognuno dei quali è richiesto prestare un certo numero di ore. Di più: la stampa ci accusa di essere degli esamifici? Dimostriamo di essere capaci di erogare didattica molto più degli altri. E oltre ai corsi a distanza e l’assistenza quotidiana on line (non esclusi i giorni festivi), in alcune telematiche il ricercatore si ritrova a svolgere settimanalmente lezioni in presenza, da settembre a luglio, generalmente con un pubblico di studenti esiguo, questi sì “fantasma”, ché se si iscrivono alla telematica è perché generalmente non possono per qualche ragione frequentare l’università.
Terzo stadio della mutazione genetica: il ricercatore telematico è docente tutto l’anno, da settembre a luglio, ha un carico didattico inimmaginabile pur nella logica della didattica in presenza. Il suo prestarsi come ingranaggio dell’esamificio “fordista” diventa la sua unica e riconosciuta funzione. Le sue attività di ricerca devono essere “comunicate”, le sue assenze dalla sede “giustificate”, e in alcuni casi “autorizzate”. Nel 2011 una ricercatrice di Uninettuno ha impugnato al TAR una delibera del CDA che imponeva una presenza di tre giorni a settimana in sede per attività didattica, e di due per attività di ricerca. Il Tar ha accolto la contestazione ritenendo eccessivo l’impegno didattico richiesto, e ribadendo che l’attività di ricerca, essendo libera, non può essere vincolata a un luogo specifico, tanto più in quanto non dotato dei requisiti minimi per lo svolgimento dell’attività in questione[8]. Episodi simili si ripetono ancora oggi e la costante della loro dinamica è la fortissima ingerenza degli organi amministrativi e della proprietà degli atenei nella regolamentazione delle attività didattiche e di ricerca. A questo si affianca la sostanziale passività degli organi accademici, anche per effetto del disposto di Statuti, fondati su un’interpretazione molto estensiva del concetto di autonomia, che attribuiscono ai primi un’enorme discrezionalità, riducendo Rettori e Presidi a cariche poco più che simboliche e comunque sempre vincolate alle necessità del “datore di lavoro” che è “l’imprenditore” che ha investito nell’ateneo. A ciò si aggiunga che, a sei anni e oltre dall’istituzione, alcuni Atenei Telematici non si sono ancora dati le strutture previste dai rispettivi statuti, essendo tuttora governati da organi provvisori, in cui non è prevista una rappresentanza del corpo dei ricercatori, né sono rispettate le procedure statutarie. Dal punto di vista del ricercatore, il timore del fallimento dell’ateneo se non si reggono i ritmi richiesti, e il senso di responsabilità che comunque si nutre verso i propri studenti, il proprio ateneo, il lavoro quotidiano, sono i principali deterrenti a una più radicale difesa del proprio status.
A questo punto il ricercatore non ha più speranza di ritrovare la sua ragion d’essere. Salvo che l’Anvur e la valutazione incombono, la produttività scientifica rimane il fine inderogabile della sua funzione (aspira anch’egli, del resto, ad abilitarsi e a mostrarsi scientificamente attivo e poter concorrere per un avanzamento di carriera) e il suo destino dipende da quanto egli riesca a smarcarsi dalla logica aziendale in cui, suo malgrado, senza preavviso, senza alcuna clausola di eccezione contenuta nei bandi cui all’epoca partecipò, si ritrova catapultato, come in una distopia, fatta di oscuri luoghi in cui gli esseri si trasformano nel loro contrario.
Nessuno intende contestare la libertà d’impresa degli atenei telematici, e più in genere di quelli non statali. Ma se questa libertà è sistematicamente esercitata al ribasso, e non riesce a esprimersi che calpestando e ignorando lo status giuridico dei ricercatori e della docenza universitaria, nonché la missione profonda dell’Università, che vede connesse ricerca e didattica, c’è evidentemente qualcosa che non va. Se le reciproche finalità sono incompatibili, delle due l’una: o le telematiche sono a tutti gli effetti delle Università, e allora debbono rispettare i vincoli e le norme che essere Università impone, essere anche loro parte di un più complesso sistema che vive della circolarità di insegnamento e ricerca. Oppure non sono delle Università ma enti erogatori di una formazione terziaria, il cui obiettivo è certamente quello di garantire percorsi di studio di qualità ma che non possono essere equivalenti a quelli universitari. In questo caso si sarebbe, però, dovuto avvertire in tempo i ricercatori che, entrando in una università telematica, sarebbero entrati nel limbo dei “cervelli in standby”.
[1] http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/web/ministero/cs040613ter
[2] Università on line, il rettore della UniMarconi: “Noi diplomifici? Pronti a entrare nello Stato”, intervista a cura di Claudio Gerino, visionata il 14 luglio, 2013; http://www.repubblica.it/scuola/2013/07/02/news/universit_on_line_la_proposta_schoc_del_rettore_della_unimarconi-62229887/
[3] M.N. De Luca, Esami facili, prof. Fantasma. Il bluff milionario delle università online, “la Repubblica”, venerdì 2 aprile 2010, pp.28-29.
[6] Francesco Coniglione, Ma a chi servono le università telematiche? ROARS, 28-11-2011. https://www.roars.it/?p=1974
[7] Mozione università telematiche, 25-5-2010, prot.1056. http://www.cun.it/media/105345/mo_2010_05_25.pdf
[8] Tar Lazio. Sentenza N. 04927/2012
[…] La prof. Alida Clemente è stata sospesa per un mese dal lavoro e dalla retribuzione per decisione del CdA dell’università telematica privata Niccolò Cusano, per avere scritto insieme ad Alessandro Arienzo un articolo sulle università telematiche. […]
Sono strutturato anch’io in un’università telematica (Niccolò Cusano, la stessa di uno degli Autori) e sento il bisogno di esprimere la mia opinione dopo essere stato, proprio di recente, oggetto di velata ironia in merito al fatto che mi trovo ad insegnare presso un ateneo telematico, ironia alimentata proprio da articoli come questo. Premetto che prima di giungere in una telematica ho lavorato per anni nelle università statali (di cui cinque come strutturato), per cui posso dire di conoscere bene entrambe le realtà.
Ebbene, non posso che essere in radicale disaccordo con le opinioni espresse nell’articolo, ed in particolare con la parte finale, la quale induce l’idea che chi come me insegna in un ateneo telematico dovrebbe essere considerato un docente di serie b, perché non sarebbe in grado (o nelle condizioni di) fornire una formazione equivalente a quella universitaria.
Questa affermazione getta un discredito ingiusto su chi cerca di dare il meglio sia nella didattica che nella ricerca, e soprattutto sugli studenti.
Secondo l’articolo, non sarei un docente di livello universitario, ma semmai sarei tuttal più adatto a svolgere una qualche “formazione terziaria”, e questo sia perché non avrei il tempo di svolgere attività di ricerca in quanto troppo impegnato nella didattica, sia perché, soprattutto, sarei considerato come un “tutor” in un ambiente nel quale lo studente-consumatore avrebbe “sempre ragione”.
Quest’ultima affermazione – che dovrebbe essere logicamente estesa dagli Autori dell’articolo a tutte le università non statali – non è affatto vera, perché non sono mai stato particolarmente “indulgente” con gli studenti per il fatto di trovarmi in un ateneo o in un altro, e, parlando in particolare della mia esperienza nella telematica, tutte le volte (rare, per fortuna) in cui qualcuno si è lamentato delle mie valutazioni non ho proprio ricevuto (né avrei tollerato) alcun tipo di pressione. L’unica cosa che, effettivamente, richiedono le università non statali (tutte, sia quelle telematiche che quelle “tradizionali”) è di non “latitare” negli orari di ricevimento e di non maltrattare le persone che ritengo di non promuovere, cosa che dovrebbe avvenire in tutte le università, così come in ogni altro ambiente di lavoro.
Personalmente posso poi affermare di sentirmi assolutamente libero di svolgere attività di ricerca, senza alcun condizionamento e soprattutto senza che alcuno mi imponga i temi su cui scrivere.
In conclusione, penso che non si debba dimenticare che la qualità di ogni università, e quindi anche degli atenei telematici, dipende soltanto dall’impegno di noi docenti: quindi, se la nostra didattica e la nostra ricerca è seria e ben fatta, avremo raggiunto la nostra missione, e l’avremo fatta raggiungere alla nostra università, e non c’è proprio alcuna ragione per affermare aprioristicamente che questo sia più difficile in un ateneo telematica o in una università statale, anzi, a mio modo di vedere è vero se mai il contrario.