L’anomalia, tutta italiana, di un rilevantissimo numero di fuori corso nell’università – quasi il 34% sul totale degli iscritti – è stata ben sottolineata dal ministro Profumo un paio di settimane fa. Il ministro l’ha inquadrata in un “problema culturale”: la mancanza di rispetto in Italia “delle regole e dei tempi”. Il decreto legge sulla spending review , in corso di approvazione al Parlamento, interviene ora operativamente sul tema: le singole università potranno applicare per i fuori corso tasse di iscrizione maggiorate fino al 25% se l’indicatore ISEE delle rispettive famiglie (un indicatore costruito per misurare appunto la condizione economica delle famiglie) è situato fino a 90.000 euro. Se l’ISEE è compreso tra 90 e 150 mila euro, le tasse potranno essere maggiorate del 50%, mentre sopra i 150mila euro la maggiorazione potrà essere del 100%.

Direi che non v’è dubbio che le tasse universitarie in Italia costituiscono da tempo un tema molto aperto, su cui proposte interessanti, appunto da tempo, sono state avanzate (mi riferisco in particolare a sistemi di prestito da parte dello stato a sostegno di livelli di tassazione meno lontani dai costi del servizio). L’intervento della spending review suscita, invece, una certa perplessità.

La particolare numerosità dei fuori corso e la perdurante, elevata età media dei laureati della riforma 3+2 (nel 2009, 26.1 e 25.2 anni  nel segmento maschile e femminile dei laureati triennali, e 26.8 e 26.5 anni nei due segmenti dei laureati biennali) inducono, da sole, a sospettare che i ritardi non siano solo colpa degli studenti. La consistenza dei ritardi, insomma, non può significare che la massa degli studenti italiani non si impegna. Qualche generale carenza organizzativa deve aver pur pesato in questi esiti!

Guardando dunque a cause più immediate e concrete rispetto alle indicazioni del ministro Profumo, occorre riconoscere che a questi esiti concorrono anche altri fattori, oltre il poco rispetto da parte degli studenti delle regole e dei tempi. Cattive norme e tradizionali debolezze del nostro sistema universitario hanno dato un aiuto corposo alla perdurante abbondanza di fuori corso.

Tra le principali, tradizionali carenze organizzative del nostro sistema va collocato lo scarso coordinamento tra gli insegnamenti di ciascun corso di studi, uno scarso coordinamento che ha reso troppo spesso i singoli corsi di studio più complessi e difficili di quanto il loro specifico obiettivo formativo richiedeva. La mancanza di coordinamento, la decisione individuale del singolo professore su ampiezza e peso del proprio insegnamento, metri di valutazione degli studenti molto diversi, rimangono tratti diffusi e pesanti della nostra università, espressione diretta della circostanza che gli equilibri di natura corporativa prevalgono sui disegni complessivi. Un’interpretazione eccessivamente dilatata della libertà di insegnamento – occorre anche riconoscere – ha fornito inoltre un supporto in punto di principio alle carenze di coordinamento all’interno dei corsi di studio.

La riforma degli ordinamenti didattici, il cosiddetto 3+2, non è riuscita a superare davvero questi aspetti, ma per certi versi li ha ulteriormente alimentati. Dalla prima stesura della riforma nel 1999, alla successiva correzione del 2004 e ai vincoli che via via sono stati imposti agli atenei per frenare la proliferazione dei corsi di laurea e la frammentazione degli insegnamenti, la struttura per corporazioni del nostro sistema universitario rimane sostanzialmente intatta. I settori scientifico- disciplinari che compongono i nostri ordinamenti didattici sono addirittura 370, una caratteristica unica nel panorama della formazione universitaria dei paesi avanzati. All’interno di questo enorme numero, la riforma ha distribuito le attività formative minime delle singole classi dei corsi di laurea, lasciando all’autonomia delle sedi il completamento del percorso. In un tale contesto, era fatale che i disegni dei corsi di laurea delle sedi emergessero sovente da mediazioni, rapporti di forza, equilibri più o meno precari tra le corporazioni piuttosto che da autentici progetti formativi. La enorme quantità di corsi di laurea e di insegnamenti, che si è creata con il 3+2, è stata il risultato di cattive norme e di altrettanto cattive applicazioni. I vincoli posti ai disegni delle sedi rendono oggi il gioco solo più complesso. Naturalmente, una rete così estesa di corporazioni, già presente nelle attività formative minime fissate per legge, appesantisce in ogni caso i percorsi di studio, anche in sedi (ve ne sono!) in cui vi sono state applicazioni virtuose della riforma.

Un ulteriore punto. La riforma, anche nella revisione del 2004, prevede la compilazione di una tesi, al termine del biennio della laurea magistrale, “elaborata in modo originale dallo studente sotto la guida di un relatore”. In una università di massa, che consegna alla ricerca una frazione limitata di laureati, qual è l’utilità di un lavoro di ricerca imposto a tutti i laureandi? Mentre non se ne vede nessuna, è piuttosto chiaro il contributo che l’elaborazione della tesi dà all’allungamento dei tempi di laurea. Riservare la tesi al solo conseguimento del dottorato di ricerca sarebbe già un utilissimo provvedimento.

Conclusioni. Ricondurre la durata effettiva dei corsi di laurea alla durata teorica richiede non solo maggiore impegno e disciplina da parte degli studenti, ma anche regole più efficienti. Per quanto riguarda gli studenti, stabilire che gli esami non possono esser ripetuti (come è invece possibile oggi) un numero qualunque di volte o ammettere un limitato numero di anni di fuori corso (con eventuali proroghe per studenti lavoratori) non farebbe salire le tasse universitarie, ma gioverebbe molto alla serietà dell’organizzazione. Per quanto riguarda i docenti, un  serio tentativo di smantellare o almeno neutralizzare la composizione per corporazioni della nostra università stimolerebbe comportamenti più virtuosi , che certamente favorirebbero una organizzazione più efficiente dei corsi di studio. Non far nulla di tutto ciò e penalizzare gli studenti per esiti dei quali, in molti casi, hanno una limitata responsabilità, è una scelta che francamente non si può condividere.

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10 Commenti

  1. Il discorso sulle “regole efficienti” e, soprattutto, “poco dense” è fondamentale. Ma qui bisogna veramente farsi carico delle proprie responsabilità. Quand’è che il Ministro Profumo od anche i nostri colleghi hanno sollevato di recente la questione del “disaccoppiamento” tra “corso” ed “esame”? Quand’è l’ultima volta che a livello Ministeriale è stato sollevato il problema del ridicolo numero di insegnamenti per la triennale e per la magistrale (20 e 12, per la cronaca)? Quand’è che a livello di CCD, di Facoltà (o Dipartimento) è stato sollevato effettivamente il problema del carico di lavoro esorbitante imposto agli studenti? Oppure, quand’è che si è discusso dell’assurdità dell’avere corsi da 14.53 crediti e corsi da 5 (*)? Quand’è che si è discusso di far iscrivere effettivamente gli studenti corso per corso invece di far finta che uno strumento dal contenuto informativo nullo come il “piano di studi” sia utile?

    Di tutto ciò siamo responsabili (o meglio: *io* no :) ). Ma sentire il Ministro che parla di “rispetto dei tempi, quando anche mantenendo l’orripilante 240/2010 potrebbe liberalizzare il sistema veramente a costo zero, tenendo presente che è stato rettore, bhè, come minimo fa venire il latte alle ginocchia.

    Marco Antoniotti

    (*) 5 crediti per corso sono ammessi grazie alla “norma Politecnico” inclusa nel DM 22 Settembre 2010.

    In altre

  2. Quando l’articolo menziona

    “L’anomalia, tutta italiana, di un rilevantissimo numero di fuori corso nell’università”

    si sta esagerando un po’. Su ROARS abbiamo già notato che l’idea che sia un fenomeno tutto italiano si scontra con l’evidenza di un problema ampio e preoccupante anche nelle altre nazioni. Per maggiori dettagli e alcuni riferimenti bibliografici, si veda:

    Profumo: “Italia unico paese con i fuoricorso”. Ma è vero?
    https://www.roars.it/?p=7625

    Il problema è sicuramente di particolare gravità in Italia, ma è giusto collocarlo nel suo contesto internazionale.

  3. L’aumento delle tasse per i fuori corso potrebbe incentivare le iscrizioni a tempo parziale che sono il modo onesto di trattare i ritardi dovuti ad attività lavorativa. Per il resto sono d’accordo con Paola Potestio che il ritardo degli studi di troppi studenti è il principale problema dell’università italiana. Gli abbandoni infatti, specialmente se precoci, sono un fenomeno in parte fisiologico in un sistema universitario che non prevede alcuna selezione in entrata. Purtroppo la maggioranza degli “esperti” si preoccupa solo del sistema di reclutamento e promozione dei docenti.

  4. Alcuni commenti, temo prolissi:

    0. Una premessa: l’intervento nasce fallato, se si parte dall’ipotesi dell’inevitabilità (e necessità) di una “punizione” dei fuoricorso.

    1. Il ritardo alla laurea: dai dati Almalaurea sembra che il ritardo si accumuli nel triennio iniziale. Nella specialistica/magistrale invece il ritardo è molto più ridotto.
    Se questo è vero l’interpretazione più ovvia è che, banalmente, i ragazzi arrivino in larga misura impreparati all’università. Non culturalmente: impreparati allo studio, ovvero non allenati alla fatica e alla concentrazione. Ho l’impressione che molti non sappiano o non vogliano ricordare quanto possa essere pesante studiare cose di cui, specie all’inizio, interessa poco o nulla e che non significano apparentemente nulla.
    Ci vuole concentrazione e tanta fatica, cui i nostri allievi sembrano singolarmente allergici. Cosa c’entra questo con le “corporazioni”?
    [In altro ambito (Noisefromamerika, tanto per cambiare) lessi un selvaggio attacco al liceo classico: ma se c’è una cosa che il classico dava, quanto meno a furia di versioni, è proprio l’abitudine alle lunghe ore di studio.]
    Il discorso sull’impatto iniziale ci porta all’inevitabile e insostituibile ruolo di “filtro” svolto da certi esami (come ricordato qui sopra dal Prof. Figà Talamanca): quelli che “partendo pessimi” non mollano, imparano a studiare solo dopo aver sbattuto il grugno, il che richiede inevitabilmente tempo (e non solo).

    2. Penso siamo tutti d’accordo sul problema rappresentato dal coordinamento dei corsi. Credo però che, almeno nell’ambito ingegneristico che conosco, ciò riguardi gli esami “tecnici” degli ultimi due anni (e probabilmente le relative duplicazioni e dilatazioni di programmi rappresentano la causa del ritardo, seppur ridotto, della magistrale). Di nuovo, non vedo cosa c’entrino gli SSD. Semmai i consigli d’area dovrebbero avere maggiori poteri nel rilevare e sanzionare certi comportamenti, segnatamente l’imposizione di programmi da 12 crediti o più per corsi da 6.

    3. Le tesi. Per gli studenti “buoni”, la tesi rappresenta un importante momento di passaggio e maturazione; una prova talvolta dura ma molto gratificante, che sanziona per la prima volta l’assunzione di un ruolo attivo, in felici casi addirittura creativo. Per il docente, rappresenta il momento in cui si vede di che stoffa sia fatto veramente l’allievo promettente. Anzi è il momento in cui si vede chi sia davvero promettente: non mi sembra una cosa da buttare alle ortiche.

    Infine vorrei ricordare a chi considera i fuoricorso un problema, che una quota piccola ma non trascurabile di studenti ritarda a causa di pesanti crisi personali, tema penoso di cui si parla pochissimo (ne faceva cenno il il prof. Simone in un libro di una ventina d’anni fa). Non mi sembra che questo meriti una punizione.

    PS Possibile che si debba ancora leggere cose come “la enorme quantità di corsi di laurea e di insegnamenti, che si è creata con il 3+2”, su ROARS per di più?

  5. Dopo una lunga battaglia vinta parzialmente nella Commissione Didattica del mio Dipartimento, vorrei arrogarmi il diritto di fare due ulteriori commenti.

    (1) La legge è saggia rispetto alla “tesi” di LM: quando dice che questa deve essere “elaborata in modo originale” apre la necessaria porta che ci permette di smetterla con la storia che la tesi di LM è una “ricerca”. Se lo è bene, se no, la legge stabilisce solo il minimo di decenza: che l’elaborato non sia “copiato”. Per inciso, alla LT sarebbe meglio buttare alle ortiche ogni parvenza di “tesi” e sostitute il tutto con una “prova finale” effettiva (e.g., prendiamo il GRE “di soggetto” e traduciamo le domande).

    (2) Il numero di crediti per corso dovrebbe essere sempre congruo (e possibilmente uguale per tutti i corsi). Non è possibile avere una situazione per cui per ogni ora di lezione frontale, ci si aspetti che uno studente faccia solo due ore di studio individuale. Invece, dato il combinato delle 25 ore di lavoro per credito (misura stabilita a livello degli accordi di Bologna, se non erro) e delle 90 (o 120) per di lezioni frontali richieste, molti Atenei si ritrovano poi ad avere dei carichi di lavoro di 70 e rotte ore settimanali per uno studente. Ciò non va.

    Rimane il problema dei tempi. Gente: non se ne esce. Eliminare il disaccoppiamento corso-esame, e far iscrivere gli studenti corso per corso. O così, o tra 20 anni staremo ancora a discutere dei “fuoricorso”.

    Marco Antoniotti

    P.S. Il 3+2 c’è e ci sarà ancor aper un bel po’. L’unica discussione lecita al riguardo è quella con i colleghi che ancora non hanno capito che il “+2” *non* è la continuazione rigida del “3”. E non dimentichiamoci dei “corsi di dottorato”, che andrebbero benissimo come corsi da “+2”.

  6. [completamente OT]
    Caro Antoniotti,
    rispetto a quanto dici, la questione del +2 è forse diversa nelle lauree “tradizionali” in Ingegneria industriale: “3” e “3+2” sono cose diverse e incompatibili.
    Per quanto attiene al mio corso di laurea, la richiesta di triennalisti è pressoché inesistente. Con le attuali risorse a disposizione, l’unica scelta sensata è stata quella di reintrodurre surrettiziamente lo schema quinquennale sacrificando il percorso breve che, appunto, si era rivelato fallimentare.
    In alternativa, ci sarebbe dovuto creare una nuova sintesi “industriale” triennale, al di fuori dei vecchi corsi laurea, una specie di super-ITIS. All’estero c’è, qui era cosa impossibile nelle strutture e risorse attuali.
    Francamente, meglio tornare ad un vecchio o vecchissimo ordinamento potenzialmente in grado di sfornare eccellenti ingegneri.

    • refusi:
      SI sarebbe dovuto,
      vecchi corsi DI laurea

      una piccola aggiunta:
      forse sarebbe bastato far tornare gli ITIS quei posti dove si studiava duramente e che sfornavano ottimi periti industriali, preparatissimi quanto intrattabili per l’ingegnere inesperto..

  7. [OT] Caro StefanoL. Con tutto il rispetto (e con le dovute battutacce sugli “ingegneri” :) ) il tuo discorso è esattamente quello che viene fatto da filosofi, chimici, sociologi, fisici e informatici. “Del 3 non gliene frega niente a nessuno, e tutti vogliono le ‘lauree vere'”. È un po’ anche il discorso che “i dottori di ricerca non li vuole nessuno”.

    Prendiamo il caso di uno studente che con in mano una laurea in Chimica di Bicocca (o di Informatica) vuole iscriversi alla vostra Magistrale di “Ingegneria Industriale”. Dato che è laureato in Bicocca, e quindi con una preparazione media superiore a quella di ogni altra università milanese (shameless plug! :) ) lo ammettete e basta, lo respingete oppure lo caricate di una montagna di crediti “da recuperare” (e quid i dissuadendolo)? La questione è tutta qui.

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