Fino a quando si continuerà a insistere sulla competizione a oltranza fra le università, i dipartimenti, le persone, senza capire che in questo modo si mette seriamente a rischio l’obbligo costituzionale di garantire ai capaci e meritevoli il raggiungimento dei gradi più alti degli studi? Perché il lavoro dei docenti universitari è appesantito da un groviglio di norme che sono in alcuni casi un’offesa al buon senso e corrispondono in altri all’illusione che efficienza ed efficacia siano direttamente proporzionali alla gravosità di un vero e proprio supplizio burocratico? Perché, infine, si continuano a piangere lacrime di coccodrillo sulla fuga all’estero di molti e meritevoli giovani ricercatori, quando non si è fatto quasi nulla di ciò che sarebbe necessario per trattenerli?
Siamo tre professori universitari che non hanno più nulla da chiedere alla loro carriera. Non
abbiamo votato per la maggioranza che sostiene il nuovo governo e non abbiamo neppure votato nello stesso modo. Ci sentiamo però, insieme a tanti altri, membri dell’equipaggio di una nave che non sarà forse la più bella del mondo ma è certamente la nostra e che per questo amiamo. È in questo spirito che ci piacerebbe porre anche alla ministra dell’Università Anna Maria Bernini tre domande alle quali, da tanto tempo, proprio non riusciamo a trovare risposta. La parola d’ordine del governo sembra essere quella della discontinuità e abbiamo pensato di provarci ancora una volta. Senza troppe illusioni.
Fino a quando si continuerà a insistere sulla competizione a oltranza fra le università, dipartimenti, le persone, senza capire che in questo modo si mette seriamente a rischio l’obbligo costituzionale di garantire ai capaci e meritevoli il raggiungimento dei gradi più alti degli studi?
Si può discutere se sia davvero questo lo strumento più efficace per promuovere la crescita del sistema. E noi non lo crediamo, anche se la scalata dei ranking sembra essere diventata la priorità dei rettori. Quel che è certo è che continuando ad aumentare il divario di risorse disponibili per chi si trova in cima alle classifiche dell’Anvur e chi finisce in fondo si toglie agli ultimi la possibilità di migliorare e agli studenti che frequentano questi atenei quella di poter usufruire di un servizio paragonabile a quello disponibile per i loro coetanei che hanno la fortuna o di essere più ricchi o di vivere vicino alle università migliori. Le soluzioni possono essere diverse. Si potrebbe tornare all’idea – a noi cara – che la migliore garanzia dell’equità è una rete di atenei e centri di ricerca di qualità diffusi in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale e che è proprio in questo modo che si crea anche un ambiente favorevole alla crescita delle agognate “eccellenze”.
Si potrebbero fare altre scelte, come investimenti massicci in residenze universitarie o un aumento che non sia poco più che simbolico del numero e dell’importo delle borse di studio, in modo da dare a tutti la possibilità di diventare “fuori sede” senza devastare i bilanci delle famiglie e senza indebitarsi, anche considerando l’importo delle rette non è inutile ricordare che in paesi come Francia e Germania gli studi universitari sono praticamente gratuiti). In questo caso, tuttavia, occorrerebbe dire chiaramente che intere aree del paese possono restare, di fatto, senza università. Oggi si lascia semplicemente che ciò accada, continuando, in modo rigorosamente bipartisan, a far finta di nulla. Le risorse spese per l’istruzione terziaria sono state ridotte, in Italia, in una misura che non ha uguali nei paesi OCSE e in modo rigorosamente selettivo, determinando una redistribuzione fortemente sperequata e che sarebbe giustificata appunto dall’uso di (improbabili) “parametri oggettivi”.
Perché il lavoro dei docenti universitari è appesantito da un groviglio di norme che sono in alcuni casi un’offesa al buon senso e corrispondono in altri all’illusione che efficienza ed efficacia siano direttamente proporzionali alla gravosità di un vero e proprio supplizio burocratico?
Basti, per l’offesa al buon senso, citare i concorsi necessari non solo per il reclutamento di nuovi docenti, ma anche per l’avanzamento di carriera da professore associato a ordinario. Le università che ritengono un loro docente meritevole di tale avanzamento devono bandire appunto un concorso aperto a tutti, assumendosi così il rischio di ritrovarsi con due professori là dove uno era più che sufficiente. Come è stato possibile concepire questo sistema? E, soprattutto, come è possibile che lo si voglia mantenere? È ora di separare il reclutamento dalle progressioni di carriera. In questo modo, il primo potrà avvenire attraverso concorsi, riservati a candidati esterni, in cui il merito scientifico e didattico sia l’unica cosa che conta. Vorremmo suggerire alla ministra Bernini di avviare subito una dettagliata ricognizione dell’esito delle procedure comparative negli ultimi anni e poi fare le sue valutazioni. Più in generale, sono sotto gli occhi di tutti i risultati di un quindicennio di politiche che hanno messo l’università italiana sotto il controllo di una rigida burocrazia che ha di fatto sottratto alla comunità scientifica nel suo insieme la possibilità di governare la scienza secondo i criteri che sarebbero per noi appropriati a una grande nazione europea. Nessun grande paese europeo ha una agenzia di valutazione della ricerca con le caratteristiche di ANVUR. Nessun grande paese europeo adotta modalità automatiche di valutazione bibliometrica dei professori e ricercatori come quelle previste dalla Abilitazione Scientifica Italiana. In nessun grande paese europeo ci sembra siano stati raggiunti i picchi di distruzione di energie, serenità e fiducia sperimentati da chiunque finisca nella rete della neolingua, degli adempimenti e delle valutazioni e autovalutazioni che sono diventati il tormento di dipartimenti, dottorati, corsi di studio.
Ogni tassello di questa governance è organizzato su due livelli: un organo di indirizzo politico popolato da professori universitari e una tecnostruttura ipertrofica e sempre più difficile da comprendere nei suoi meccanismi di funzionamento. Questa struttura di governance, con il suo groviglio di norme accatastate le une sulle altre e che costituiscono il vero problema, sarà il maggiore ostacolo alla eventuale adozione da parte del governo di politiche in discontinuità con le precedenti. Non basta sostituire gli organi di indirizzo politico. Occorre smantellare questa sorta di struttura commissariale, per ridare autonomia e dignità alla ricerca italiana, risparmiare risorse e, al tempo stesso, guadagnare efficienza. Le soluzioni praticabili sono diverse, ma questo dovrebbe essere l’obiettivo. Sapendo che non mancheranno le resistenze.
Perché, infine, si continuano a piangere lacrime di coccodrillo sulla fuga all’estero di molti e meritevoli giovani ricercatori, quando non si è fatto quasi nulla di ciò che sarebbe necessario per trattenerli?
Nel 2010, in modo del tutto paradossale, si decise di infliggere un severo taglio alle già scarse risorse e di ridurre il numero dei professori di ruolo prima bloccando e poi limitando il turn over. Inevitabilmente, molti giovani si trovarono costretti a prendere biglietti di sola andata per gli atenei e i centri di ricerca stranieri. I casi di malaffare concorsuale sono imperdonabili e da perseguire con la massima severità, ma nemmeno la virtù più cristallina avrebbe potuto arrestare un drenaggio le cui radici stavano nei numeri del finanziamento e degli organici. Se non si prende atto della disparità di risorse rispetto alle altre nazioni, persino gli interventi mossi dalle migliori intenzioni rischiano di aprire nuove ferite. Gli assegni di ricerca erano un’anomalia italiana che è stata finalmente archiviata e rimpiazzata da contratti di ricerca, con maggiori diritti e coperture assicurative, ma che costano circa il doppio. Aver imposto per legge che la sostituzione debba avvenire a spesa invariata avrà due conseguenze. Gli atenei, che compensavano il sottofinanziamento col ricorso a precari a basso costo, perderanno terreno nel confronto internazionale, sia nei ranking che nei finanziamenti europei. Il che non significa – ovviamente – difendere un sistema basato su forza lavoro con pochi diritti e, soprattutto, sacrificabile, dato che solo una frazione dei precari è destinata ad approdare a posizioni permanenti. Allo stesso tempo, fatto non meno grave, verranno dimezzati gli sbocchi accademici per i neo-dottori di ricerca, decretando un nuovo esodo a cui seguiranno – non ne dubitiamo – altre lacrime di coccodrillo.
Alcune aree (in particolare gli studi umanistici) saranno più penalizzate di altre e si tratta di un imbuto le cui conseguenze sono destinate ad aggravarsi ulteriormente quando, fra tre anni, per effetto dei finanziamenti a tempo determinato del PNRR, arriverà un’onda anomala di giovani ricercatori in cerca di un posto.
Chi vuole governare per cinque anni non può dormire sonni tranquilli. Gli conviene cominciare subito ad aggiustare la rotta di questa bellissima nave con qualche vela strappata.
Articolo pubblicato su Corriere.it il 22 7 novembre 2022. https://www.corriere.it/scuola/universita/22_novembre_07/cara-ministra-bernini-cambi-rotta-o-ci-sara-un-onda-anomala-ricercatori-fuga-1b84db0c-5c5a-11ed-b827-fa754029d3c4.shtml
Assolutamente condivisibile, grazie per aver portato queste tematiche all’attenzione pubblica.
Solo una richiesta, forse, avrei aggiunto: che la lotta alla burocratizzazione non sia la scusa per cui “in alto” si decida a farci uscire dalla Pubblica Amministrazione ed a trasformarci in fondazioni.
Noi siamo un corpo dello Stato con una missione ben precisa e scritta nella Costituzione.
Emanuele Martelli
“Articolo pubblicato su Corriere.it il 22 novembre 2022”
Time warp ?
Come non esser d’accordo?
Già. Ma siamo TUTTI d’accordo? non dovremmo forse persuadere molti, o troppi, colleghi docenti universitari che invece, sotto sotto, approvano o si adattano facilmente al mainstream buro-politico? al postutto, Bernini è pure un professore universitario … come perlopiù lo sono stati i precedenti (da Berlinguer in poi, o sbaglio?)