Luca Serianni pubblica sul Domenicale del Sole 24 Ore un articolo intitolato: Preservare il latino è ripensarlo, che riproduce il suo intervento al convegno del mese prima. Durante il quale, da Berlinguer si passava a Bettini e da Bettini a Serianni, le étoiles del giorno 28 insieme all’ingegnere statistico, «l’uomo dei numeri» al di sopra delle parti, neutrale come l’arbitro Dienst nella finale del ’66. Una chicca: abbiamo «chiesto agli istituti – dice lo statistico – se sono d’accordo col governo sull’alternanza scuola-lavoro». La slide mostra che quasi tutti apprezzano il micidiale provvedimento. Possibile? Sembra la scena del Gattopardo in cui don Calogero proclama i risultati del referendum di Donnafugata. L’ingegnere precisa che con «chiedere agli istituti» si intendeva «chiedere ai presidi». Ah, ecco. Secondo Serianni bisogna ridurre al minimo l’apparato teorico, temperare il grammaticalismo, dice lo studioso di letteratura italiana; in latino ad esempio la quarta e la quinta declinazione «potrebbero essere tralasciate», dato che «hanno un rilievo secondario già nel latino classico» (ma allora perché non cassare anche il trapassato remoto in italiano? O il futuro anteriore?). Ma il fatto che le grammatiche contengano tutto (e ci mancherebbe) non rende né ha mai reso obbligatoria la somministrazione di tutte le regole, non più di quanto il possesso di un elenco telefonico renda obbligatoria l’utilizzazione di tutti i numeri che ci sono dentro. E si torna al punto di prima: questi riformatori, approdati all’università giovanissimi e mai trovatisi nella necessità di correggere un compito, gestire uno scrutinio o colloquiare con un genitore, s’impancano ora, al rintocco dei settant’anni, a grandi esperti di una scuola di cui nulla sanno, e di cui pure vogliono fare un deserto chiamandolo modernità.
A distanza di circa un mese dal convegno sul futuro del liceo classico svoltosi al Politecnico di Milano (28-29 aprile 2016), Luca Serianni pubblica sulla terza pagina del Domenicale del Sole 24 Ore (22 maggio, p. 27) un articolo intitolato: Preservare il latino è ripensarlo. È un greve paginone che riproduce parola per parola, sospiro per sospiro, l’intervento al convegno del mese prima.
Secondo un collaudato schema, lo scrivente comincia e finisce con una serie di degnità sui massimi sistemi, informandoci che «accostarsi a una lingua antica è molto diverso rispetto allo studio di una qualsiasi lingua moderna», oppure che è «impensabile prescindere, in termini storici, filosofici, artistici e letterari, dal patrimonio rappresentato dal Cristianesimo». Ma ciò che interessa qui è la parte centrale dell’articolo, quella operativa, pratica, in cui il professore di letteratura italiana Serianni insegna ai professori di lingue antiche a insegnare le lingue antiche. Anche questa parte è uguale sputata a quella da me udita a Milano; udita non in praesentia, ma da una stanza videomunita dalla quale non si potevano né sentire i fischi né vedere le gomitatine e le occhiate attonite che si infittivano a misura che da Berlinguer si passava a Bettini e da Bettini a Serianni, le étoiles del giorno 28 insieme all’ingegnere statistico, «l’uomo dei numeri» al di sopra delle parti, neutrale come l’arbitro Dienst nella finale del ’66.
Una chicca: abbiamo «chiesto agli istituti – dice lo statistico – se sono d’accordo col governo sull’alternanza scuola-lavoro». La slide mostra che quasi tutti apprezzano il micidiale provvedimento. Possibile? Sembra la scena del Gattopardo in cui don Calogero proclama i risultati del referendum di Donnafugata. L’ingegnere precisa che con «chiedere agli istituti» si intendeva «chiedere ai presidi». Ah, ecco. Mormorio in sala – non captato dai radar: i bollettini hanno parlato sempre e solo di applausi.
Ma torniamo all’insegnamento pratico delle lingue antiche. Intanto, dice Serianni, occorre ridimensionare l’importanza della versione, il cui primo inconveniente è quello di escludere i poeti e gli autori tardi, «anche se culturalmente decisivi». Ora, l’illustre collega dovrebbe sapere che lo studente non si appropria dei tesori dell’antico nel momento del sudore e della polvere, mentre volge in italiano il brano di Cicerone tra fogli volanti, vocabolari, compagni che sbuffano e professori che passano fra i banchi. Se ne approprierà solo in seguito, dopo che tante umili versioncine lo avranno messo in condizione di affrontare in autonomia le lingue in cui quei tesori sono scritti. Serianni non vede o affetta di non vedere una distinzione che è chiarissima da subito anche allo studente meno sveglio: che una cosa sono le «versioni», un’altra gli «autori», e che le prime servono ad arrivare ai secondi. Le versioni sono faticose? Certo. Noiose? Non è detto: la scuola è noiosa solo se è noioso il professore. E comunque se vuoi contemplare il panorama dall’alto della torre devi salire fino in cima. Se salendo riesci anche a contemplare, meglio, ma salire devi salire, perché il panorama intero si vede solo da lassù.
Dice Serianni che con le versioni
si svilisce, in una prospettiva angusta (nam tradotto invariabilmente con ‘infatti’) o francamente errata (l’infinito aoristo tradotto meccanicamente come un infinito composto, quando la differenza sta nell’aspetto dell’azione), un’operazione, quella della traduzione, che potrebbe dare il meglio di sé confrontando traduzioni d’arte di grandi testi della classicità.
Ecco finalmente, al netto delle pantomime e delle prudenze curiali, uno sprazzo di verità: far tradurre i testi antichi agli studenti significa – questo è il senso – mortificare la nobile arte del tradurre. Occorre dunque abolire la traduzione e leggere i testi su traduzioni già fatte, come accade per la letteratura russa o cinese. Del latino e del greco di una volta basta che resti un’infarinatura, una grammatica insegnata selettivamente, senza drammi e con verifiche ‘leggere’, quel tanto che basta a seguire col dito il confronto fra l’Omero del Monti e quello della Calzecchi Onesti. Rimosso l’ostacolo della lingua, i Greci e i Romani verranno insegnati come i Babilonesi e gli Ittiti. Avremo due materie-killer in meno, famiglie più tranquille, un boom di iscrizioni al classico e la possibilità di parlare delle cose che contano davvero: il doppio, il sosia, l’io e l’altro, la donna ad Atene, la casa romana, i riti di iniziazione e la simbologia del pappagallo. Se lo scopo di Serianni (e di Berlinguer, di Bettini, del ministero) è quello di spazzar via le lingue antiche dalle nostre scuole, lo dicano e basta. Non vedo perché girarci attorno (cioè lo vedo benissimo: questo non è il paese della virile ghigliottina, ma del lento veneficio: si toglie l’acqua alla pianta finché non muore e poi la si taglia perché è morta). Semmai non guasterebbe una scelta più accurata degli exempla. Sarei curioso di sapere quanti modi conosce Serianni per tradurre nam, o di sapere da quando in qua gli studenti traducono gli infiniti aoristi come infiniti composti (a me risulta il contrario: gli studenti traducono l’infinito aoristo come infinito semplice anche quando va usato il composto). Dettagli, si dirà, ma dettagli che la dicono lunga sulla conoscenza che questi riformatori hanno sull’oggetto che vorrebbero riformare. Lamentare, come lamenta Serianni, che i Vangeli non sono oggetto di studio nelle ore di latino ma «solo nell’ora di religione» (durante la quale tutto si fa fuorché occuparsi dei Vangeli come testo, o anche non come testo), significa vivere fuori dalla realtà.
Bisogna ridurre al minimo l’apparato teorico, temperare il grammaticalismo, dice lo studioso di letteratura italiana; in latino ad esempio la quarta e la quinta declinazione «potrebbero essere tralasciate», dato che «hanno un rilievo secondario già nel latino classico» (ma allora perché non cassare anche il trapassato remoto in italiano? O il futuro anteriore?). Detto questo, Serianni si lancia in un «esperimento per il quale basterebbe assicurare agli alunni la conoscenza delle prime tre declinazioni». L’esperimento sarebbe il commento alla prima ecloga di Virgilio. Il docente, incontrando patulus, potrebbe spiegare che ha la stessa radice di patere e che da patere deriva «patente di guida». O che recubare è un composto di cubare e che da cubare derivano «concubino» e «cubicolo». E così via. Temo che l’esperimento non andrebbe avanti più di 14 versi, perché il quindicesimo comincia con spem, quinta declinazione. E poco si progredirebbe anche con la lettura del latino evangelico, visto che Iesus appartiene a una delle due declinazioni proscritte. Quanto all’«esperimento», che Serianni presenta come se fosse l’invenzione della penicillina, non è né più né meno che quello che i professori di liceo fanno da sempre, con la differenza che lo fanno meglio. Le categorie di grammaticalismo e di primato della teoria potranno valere per la scuola della Germania guglielmina, per la scuola del piccolo Hanno Buddenbrook, per la scuola di Amarcord, ma non certo per la nostra, dove è da decenni che i professori tagliano, saltano, semplificano. Il grammaticalismo esiste solo nelle grammatiche. Serianni deve averne presa in mano una ed essersi impressionato per tutto quel ginepraio di schemi, di note, sottonote e corsivi, identici a quando andava a scuola lui. Ma il fatto che le grammatiche contengano tutto (e ci mancherebbe) non rende né ha mai reso obbligatoria la somministrazione di tutte le regole, non più di quanto il possesso di un elenco telefonico renda obbligatoria l’utilizzazione di tutti i numeri che ci sono dentro. E si torna al punto di prima: questi riformatori, approdati all’università giovanissimi e mai trovatisi nella necessità di correggere un compito, gestire uno scrutinio o colloquiare con un genitore, s’impancano ora, al rintocco dei settant’anni, a grandi esperti di una scuola di cui nulla sanno, e di cui pure vogliono fare un deserto chiamandolo modernità.
[…] Fonte […]
a parte l’ironia sul linguista Serianni (non professore di letteratura italiana) e sui riformatori che non sono mai entrati in una classe scolastica, non condivido l’ostinata difesa del latino, nel suo insegnamento grammaticale, a scapito di una conoscenza invece della letteratura e cultura antica, anche in traduzione sì, non mi scandalizzo; non mi pare che nelle scuole secondarie di altri paesi europei (ma posso sbagliare) si insegnino latino e greco come da noi, eppure Germania e Inghilterra hanno ancora fior di tradizioni di studi classici!
Una parte vive fuori dalla realtà, l’altra si mette la foglia di fico degli intellettuali che vivono fuori dalla realtà per legittimare l’ennesimo sfacelo.
Quanto all’eliminazione di presunte difficoltà linguistiche, che ne dite di far studiare l’inglese senza i verbi irregolari e il tedesco senza la sintassi invertita?
Dire no, qualche volta, a queste porcate.
il metodo che usano per i manager per fargli imparare le lingue in pochi giorni, prime tre persone singolari e presente e vai con il renziano “schish”, nam.
La critica alla proposta di Serianni è disinformata, superficiale e speciosa; sa più di attacco personale contro questo serissimo studioso (e la sede in cui l’articolo è stato pubblicato) che di autentica proposta culturale. Lo spirito e la lettera dell’articolo di Serianni dicono ben altro.
Può anche darsi che la critica di Lapini sia “disinformata, superficiale e speciosa” e che Serianni volesse dire “ben altro”. Però, bisognerebbe essere in grado di articolare un qualche minimo ragionamento a sostegno di questa tesi. Altrimenti, ci troviamo di fronte al tipico commento “da internet” in cui si affibbiano etichette senza fare nemmeno lo sforzo di spiegare il perché. E, per quanto siano tempi oscuri in cui la fretta ci ha disabituato alla fatica del ragionamento, la differenza tra un commento argomentato ed uno buttato lì per esercitare i polpastrelli rimane ben visibile.
Basta leggere l’articolo di Serianni per farsi un’idea, senza bisogno di troppi “ragionamenti a sostegno”. Suggerisco di evitare di usare Roars per liquidazioni di conti personali.
È vero, basta leggere l’articolo di Serianni per farsi l’idea che tende a dare una descrizione un po’ caricaturale dell’insegnamento del Latino. L’obiezione di Lapini (“l’«esperimento», che Serianni presenta come se fosse l’invenzione della penicillina, non è né più né meno che quello che i professori di liceo fanno da sempre”) esprime con efficacia quello che ho pensato anch’io. Lapini dissente sulla base di questo e di altri argomenti circostanziati. Non è obbligatorio essere d’accordo con lui, ma derubricare le sue obiezioni a “liquidazioni di conti personali” è una scorciatoia troppo comoda (rivelatrice di pigrizia mentale o carenza di argomenti).
E perché non studiare la letteratura italiana senza conoscere un minimo di grammatica italiana? Magari gli articoli indeterminativi, che sono meno di quelli determinativi…
Infatti, caro Aristotele, non è il latino solo che bisogna difendere, ma anche il greco. E con quel nome lei dovrebbe saperlo meglio di Serianni e di chiunque altro.
L’alternanza scuola-lavoro può avere un senso per determinati istituti. Per i licei è l’ennesimo triste segnale: non studiate, imparate a fare fotocopie e a rispondere al telefono (si fa fare l’archeologo a chi vuol studiare medicina e via di seguito).
La Buona Scuola non è buona e forse non è nemmeno scuola.
Chi conseguiva la terza elementare dopo la guerra scriveva, parlava, pensava molto meglio di certi linguisti di oggi.
Gentile E. Mauro,
lungi da me difendere la Buona Scuola del Regime o l’abominevole alternanza scuola-lavoro anticamera dell’Avviamento 2.0!
[basta che si legga gli altri miei post, se proprio ha del tempo da perdere, si capisce, ;) ]
Il latino vale quanto il greco, in questo esempio: e stia pur certo che ho fatto il classico!
Ma bisogna essere ciechi di fronte alla mutazione antropologica che stiamo vivendo – e i nostri ragazzi in primis – per pensare che si possano continuare a insegnare le lingue antiche come ‘ai nostri tempi’!
Io preferirei che i ragazzi conoscessero di più e meglio la cultura e la civiltà antiche (e la lezione ‘antropologica’ del prof. Maurizio Bettini mi sembra meritevole di essere molto valorizzata) anche a costo di sapere un po’ meno la sintassi dei casi e del periodo. Dice in realtà Serianni: “l’inconveniente principale sta in un soverchiante apparato grammaticalistico fine a sé stesso: non si parte dal testo in quanto tale, come sarebbe necessario, ma si cercano testi che illustrino le regole di volta in volta esposte nella teoria”. Già, difetto analogo a quello che altri rimproverano all’insegnamento delle lingue straniere nella scuola italiana. Forse occorre solo tornare al Medioevo, dove appunto si insegnava la grammatica, cioè il latino, a partire dai testi degli autori… così alla fine si conoscevano a memoria anche numerosi brani di opere letterarie.
Postilla sui Vangeli: sono scritti in un latino ‘facile’, si potrebbe cominciare di lì, così intanto si imparerebbero anche alcune nozioni (nomi, personaggi, frasi idiomatiche o proverbiali, antonomasie, scene archetipiche, ecc.) che sembrano ormai non far più parte del patrimonio informativo delle ultime generazioni.
Il convegno è stato fatto in questo modo: Berlinguer, Serianni e Bettini parlavano attraverso uno schermo (nella miglior tradizione orwelliana), impedendo a chiunque di ribattere.
Germania e Inghilterra importano da tempo classicisti italiani.
In ogni caso, è molto ambigua l’idea di dare sempre meno agli studenti: sono incapaci o li vogliamo rendere tali per spegnere il loro spirito critico?
Gentilissimo De Nicolao,
Mi permetto di esprimerle grande stima. Ancora una volta ha dato spazio a una giusta battaglia, dando spazio a un valore autentico della scuola italiana.
Chiedo scusa, ma non riesco a trovare il testo di Serianni.
ecco:
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2016-05-17/preservare-latino-e-ripensarlo-163521.shtml?uuid=ADcQuJH&refresh_ce=1
Difficile resistere però alla tentazione di rispondere con un “non avete capito molto di ciò che dice Luca Serianni”, quando si è costretti a constatare che si ritiene Serianni (accademico della Crusca e accademico dei Lincei) uno studioso e docente di Letteratura italiana mentre è notissimo studioso e docente di Storia della lingua italiana e di Linguistica dell’italiano, che si ignora che è autore della più importante grammatica di riferimento della nostra lingua, che ha prodotto studi linguistici su testi medievali e dell’età moderna che testimoniano una conoscenza profonda e attenta della grammatica storica (e dunque anche del latino) e che si è sempre battuto per la continuità dello studio a scuola delle lingue classiche. Negli ultimi anni, peraltro, Serianni si è molto impegnato per migliorare l’insegnamento della lingua italiana e delle sue strutture nelle scuole medie di primo e secondo grado.
Serianni è peraltro persona di grande disponibilità e affabilità; forse la cosa più giusta sarebbe cercare il confronto e la discussione direttamente con lui, invece di sentenziare “al buio”. Ma chissà perché il dialogo civile e pacato non è più di moda.
Temo che Lapini (professore ordinario di Letteratura Greca) abbia incontrato qualche difficoltà a discutere “da una stanza videomunita dalla quale non si potevano né sentire i fischi né vedere le gomitatine e le occhiate attonite”. Che altro poteva fare per dialogare in modo “civile e pacato” se non scrivere un articolo? Nel quale Lapini spiega per filo e per segno perché non é d’accordo con Serianni. Prima ancora di Lapini, ci sono stati altri interventi critici:
http://www.ilsussidiario.net/News/Educazione/2016/6/13/SCUOLA-Greco-e-latino-superiamo-l-opposizione-tra-grammatica-e-civilta/710623/
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2016-05-27/contro-scuola-facile-155814.shtml?uuid=AD7uzhJ&refresh_ce=1
Niente di drammatico: per quanto inusuale, capita che qualcuno dissenta dai “mostri sacri”. Che in certi ambienti accademici si sia persa l’abitudine alle voci dissenzienti? Che problema c’è a discutere nel merito, a prescindere dalle stellette sul bavero?
Premetto che a me piacciono molto i preraffaeliti a cui appartiene il dipinto che illustra la pagina http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2016-05-17/preservare-latino-e-ripensarlo-163521.shtml?uuid=ADcQuJH&refresh_ce=1 dove viene riprodotto l’intervento di Luca Serianni.
Passando all’argomento in oggetto, e dal momento che si invoca la storica partita del 1966, che solo i giovincelli ricorderanno per filo e per segno, direi che la partita Serianni-Lapini è 0-0, o 1-1, o 10-10, a piacere. Non conosco né l’uno né l’altro, non so se sono affabili o no, certo è che Serianni è linguista, italianista, e gode di una certa fama. Se lo conosco, indirettamente, è perché anch’io sono romanista.
Entrambi gli interventi meriterebbero un’analisi più pacata, perché entrambi danno da pensare. E con questo non intendo dire né in positivo né in negativo, dipende dal punto preciso.
Certamente un po’ di fretta c’è, da entrambe le parti, perché un linguista non direbbe (credo mai) che “le grammatiche [intendendo qui i manuali, i trattati] contengono tutto (e ci mancherebbe)”, perché questo è impossibile, è forse possibile per le lingue morte di cui abbiamo soltanto una certa quantità di documentazione scritta o di testimonianze (insieme finito), ma nemmeno per queste.
Come è un tantino ingenuo dire che “concubino [immagino più spesso al femminile, ma non sia mai che facciamo discriminazione di genere] [è colui/colei] ‘che giace insieme’ con chi non dovrebbe”. Dando una sbirciatina alla storia, le cose stanno diversamente.
“…questi riformatori, approdati all’università giovanissimi e mai trovatisi nella necessità di correggere un compito, gestire uno scrutinio o colloquiare con un genitore, s’impancano ora, al rintocco dei settant’anni, a grandi esperti di una scuola di cui nulla sanno, e di cui pure vogliono fare un deserto chiamandolo modernità.”
Questa frase me la scrivo. Direi che si applica a molti colleghi (vedi in fine).
Del “caso” Serianni, devo dire che c’e’ una cosa che mi lascia basito: un particolare che non mi sembra sia stato citato finora ne’ sia apparso negli articoli sui giornali (quando avremo i giornalisti in grado di fare la “seconda domanda ?”).
.
Forse aiuterebbe, per mettere meglio in prospettiva l’ attuale polemica, dare un’ occhiata alle Indicazioni Nazionali per i Licei Classici (per chi non lo sapesse, non esistono più i Programmi, ma una delle impoertanti linee-guida per la programmazione dei docenti delle scuole sono le IN).
Si possono trovare in rete. P.es. al link http://www.orizzontescuola.it/didattica/indicazioni-nazionali-i-licei .
Se, prima di saltare alle indicazioni specifiche per il latino e greco, si desse un’ occhiata alla Nota introduttiva (p.2), si scoprirebbe che Luca Serianni ha fatto parte del Gruppo Tecnico cha ha redatto la prima bozza delle IN.
.
Adesso, e’ possibile che la redazione definitiva abbia sovvertito il contenuto della prima bozza. Ma io mi sarei aspettato che in un paio di interventi sul tema della traduzione (non sconfessata dalle IN), uno degli autori della prima bozza delle IN ne facesse cenno. Ho saltato qualcosa nella lettura dell’ articolo ? Se cosi’ fosse me ne scuso.
.
Ma se di questa passata attività non c’e’ traccia, forse il prof. Serianni potrebbe spiegare il senso di un intervento come quello recente sul Sole24ore da parte di uno dei padri delle IN (o le ha ripudiate?).
.
Aggiungo, per dichiarare esplicitamente la mia posizione, che sono convinto che la frase che ho riportato all’ inizio, si applichi a molti dei colleghi universitari coinvolti nella stesura delle IN. Basta leggerle e parlare con i docenti della Scuola.
non esiste una contrapposizione tra lingua e cultura, non esistono le culture senza lingue. Viene il turpe sospetto che Bettini voglia fare pubblicita’ ai suoi libri, in uno dei quali trovai una volta uno svarione linguistico talmente grande che avrebbe fatto rabbrividire un pischello. Comunque proponiamo di abolire le divisioni e i logaritmi per semplificare la matematica, potrebbe essere un’idea …
vedi qua: http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2016-06-22/meglio-studiare-senza-traduzione–211342.shtml?uuid=ADoKVJg un altro che demonizza le traduzioni, e sì che Lucio Russo è uno intelligente: https://books.google.it/books/about/Segmenti_e_bastoncini_Dove_sta_andando_l.html?id=ozYZVb_U0PQC&redir_esc=y
ma siete tutti poliglotti e plurilingui? non avete mai letto un testo in traduzione, un trattato scientifico, un romanziere russo, un poeta inglese, un filosofo tedesco, un saggio cinese, un resoconto etnografico africano… e ne avete poi tratto pensieri e riflessioni, ne avete discusso, ecc. senza pensare che avreste dovuto conoscere prima perfettamente la lingua dell’originale? mi pare che stiamo parlando di ragazzini e ragazzine che spesso hanno già difficoltà con l’italiano e che vivono ormai in classi e città multietniche (in classi in cui negli stessi banchi siedono alunni romeni, indiani, sudamericani, africani, cinesi): vorreste usare il latino e il greco come strumento di selezione, perché questo sarebbe il risultato, per cacciare i meticci e far tornare l’impero sui colli fatali di Roma? Nessuno vuole abolire le traduzioni e la conoscenza diretta delle lingue (classiche occidentali) in assoluto, ma razionalmente riservarla a chi scelga un certo percorso di istruzione, magari dopo aver assaporato o intuito quanto di interessante e notevole il mondo classico possiede attraverso conoscenze mediate (di seconda mano, come gran parte delle conoscenze che riceviamo quotidianamente); gentile indrani, credo che abbia fatto assai di più e di meglio Bettini per difendere e diffondere l’interesse per il latino della gran parte dei classicisti eruditi che popolano gli atenei italiani, ‘mi consenta’! ;)
Il mio intervento non voleva certo elencare le medagliette di Serianni: non ne ha bisogno e gli avrei fatto un torto se fossi intervenuta per questo motivo. Volevo solo far notare che un linguista che ha dedicato tanto impegno alla grammatica non può certo essere contrario al suo studio, ma sta solo mostrando altre strade. Comunque non aggiungo altro; mi limito a riportare un’osservazione di Giovanni Pascoli tratta da un rapporto del 1893 al Ministro della Pubblica Istruzione:
“Si legge poco, e poco genialmente, soffocando la sentenza dello scrittore sotto la grammatica, la metrica, la linguistica. I più volenterosi si svogliano, si annoiano, s’intorpidiscono […]; […] e i grandi scrittori non hanno ancora mostrato al giovane stanco pur un lampo del loro divino sorriso. Anche nei Licei, in qualche Liceo, per lo meno, la grammatica si stende come un’ombra sui fiori immortali del pensiero antico e li aduggia. Il giovane esce, come può, dal Liceo e getta i libri: Virgilio, Orazio, Livio, Tacito! dei quali ogni linea, si può dire, nascondeva un laccio grammaticale e costò uno sforzo e provocò uno sbadiglio”.
G. Pascoli, Prose, vol. I, Milano 1956 (II ed.), p. 592 (da un rapporto al Ministro della Pubblica Istruzione del 1893)
così, per info:
http://www.ilsecoloxix.it/p/cultura/2016/02/06/ASiGGgTB-messo_copertina_anus.shtml
(immagino si tratti dello stesso W.Lapini di cui sopra)
«l’“Ode al Brasile”, attribuita a Orazio e scritta «per disperazione», dice il prof, dopo la sconfitta dei Carioca ai Mondiali del 1998: “Taffarel, lapsis quasi caluus annis/sed tui compos manibusque firmus” ne è l’incipit, tradotto, alla maniera del Cetrangolo, con l’invocazione “Taffarel, vecchio e quasi calvo, ma padrone di te, saldo di mani”. »
Non ci resta che attendere qualche verso dedicato all’Europeo di Calcio …
Esattamente il ppretesto della educazione democratica serve da diversi decenni a sottrarre educazione a tutti. Sarebbe ora di capirlo, ma appena il potere getta un’esca, in molti abboccano.
“il ppretesto della educazione democratica serve da diversi decenni” ??
1) per me la democrazia non è un pretesto e l’istruzione ne è la conditio sine qua non
2) ‘da diversi decenni’: significa non aver capito la portata dei cambiamenti in atto in questo frangente storico, da 10-20 anni a questa parte, con un’accelerazione notevolissima e progressiva
3) splendida citazione pascoliana di R.Librandi: ma forse per certuni anche il poeta era un sovversivo ignorante ;)
E insisti pure, rispondendo a casaccio a Induni.
Per te “l’istruzione è una conditio sine qua non” ma naturalmente non si può fare selezione (leggi: insegnare con costrutto) perché se no si penalizzerebbe chi è disagiato, anzi oggi i presunti “meticci” cari ai radical-chic (*).
Il fatto che titoli scolastici di cartapesta (tipo quelli delle scuole pubbliche americane) siano tutto tranne che “inclusivi” e servano solo a sancire l’inutilità dell’istruzione pubblica, ben oltre la fine del suo ruolo di ascensore sociale, sembra sfuggirti completamente.
Però grazie al successo formativo garantito non rischi di essere tacciato di rassista e fassista: bravo!
(*) La vignetta del “meticcio” a quanto pare necessariamente semianalfabeta pure se fa il Classico, dove però i prodi sinistresi lo difendono dalle versioni latine di chiara marca PNF, è inqualificabile. Spiega bene il punto cui siamo arrivati. Dubito molto che i veri immigrati che campano di dura fatica vogliano per i loro figli una scuola pessima però “inclusiva”.
Io vorrei fare tre domande molto chiare:
chi decide che tre, quattro, cinque personaggi fanno una riforma?
Che credibilità e titoli ha Giovanni Berlinguer nel mondo dell’istruzione classica?
Perché dopo ogni riforma il livello d’istruzione cala?
E poi, per favore, non bestemmiate su Giovanni Pascoli.
P.S. StefanoL ha scritto esattamente ciò che penso.
E vale per ogni tipo di scuola.