Lo scritto si propone di analizzare la didattica a distanza (DaD) attraverso la mediazione utopico/ideale, che in educazione consiste nel compimento di ognuno. Ne vengono tratteggiate sinteticamente le condizioni di esistenza che la generano e la rendono quasi unanimemente accettata; soprattutto vengono portate alla luce le conseguenze materiali che essa comporta. La DaD non è perciò solo un tipo di didattica, ma un modo diverso di concepire il discorso educativo, che si allinea alla razionalità dominante.
L’educazione si caratterizza per il suo particolare dislocamento tra piani diversi: tra presente e futuro, tra visibile ed invisibile, tra ancora e non ancora. Proprio in virtù di questo fatto l’agire educativo non può procedere in modo automatico, bensì deve essere la risultante di un soggetto che tiene presente una molteplicità di fattori. In particolar modo, deve tenerli tutti presenti nella mediazione col fine di ogni insegnamento, ovvero con l’infinito compimento dell’allievo. Di ogni allievo.
Se già Marx aveva intuito che le trasformazioni avvengono sempre su base materiale, si tratta oggi di dover decidere se subire le trasformazioni che la realtà ci mette di fronte, oppure se creare nuove condizioni materiali rispondenti al fine coincidente con questo compimento dell’uomo. Insegnare, in questo caso, non vuol dire dare risposte immediate alle domande, ma capire le condizioni che hanno fatto sorgere queste domande e rispondere a quelle. L’insegnante è quindi colui che attiva una mediazione utopico/ideale.
Parimenti, se risulta importante considerare le condizioni materiali che generano la realtà presente, altrettanto rilevante è la considerazione delle conseguenze che questa realtà produce.
L’oggetto che sottoporrò attraverso questo prisma è la didattica a distanza (DaD) o teledidattica in assenza. Essa non è che l’epitome delle trasformazioni che hanno inondato la scuola nelle ultime decadi. Mi soffermerò in modo sommario sulle condizioni di esistenza che l’hanno resa possibile e fatta accettare senza riserve dalla maggior parte dei docenti, ovvero un adeguamento della scuola e degli studenti al contesto epocale, tanto che esso è affermato spudoratamente quasi fosse naturalmente coincidente col bene di ogni soggetto, che così viene individuato attraverso canoni stabiliti a priori dalla razionalità dominante. La sua sempre maggiore astrazione/oggettivazione generale accresce l’importanza del raggiungimento di obiettivi demarcati ed esterni al soggetto, con l’inversione mezzi-fini già individuata da oltre un secolo dai più illuminati pensatori. Mezzi divenuti centrali perché permettono il raggiungimento degli obiettivi così posti. Questi diventano un criterio di selezione anche se, per lavarsi la coscienza in un’epoca dove l’inclusione è il velo di Maya, si nasconde l’incuranza verso gli unfitness con sigle quali DSA, BES, ADHD con le quali vengono dispensati o compensati con ulteriori strumenti oggettivati e pratiche standardizzate nell’indifferenza verso il ragazzo. Quando l’adeguamento all’esterno assume sempre più valore, la scuola passa da istituzione collettiva ad istituzione elitaria, con una somministrazione dell’educazione dispensata per coorti.
In questo scenario la mediazione informatica epocale diventa quella che Baudrillard chiama matrice (con conseguenze performative e preformatrici), nuovo sacro Graal che attira orde di feticisti, tali perché invece dell’uomo essi mettono al centro l’oggetto, il mezzo, ovvero la sinestesia.
Per quanto concerne le condizioni di esistenza, ci bastino queste molto sommarie riflessioni. Diventa ora centrale analizzare le conseguenze della DaD attraverso la mediazione utopico/ideale. Che scuola ne esce? Chi è privilegiato? Chi sono gli oppressi? Vengono prodotti degli scarti?
Importante rilevare preliminarmente che, nella DaD, la scuola pubblica non è più tale, dato che è la risultante di una commistione pubblico-privato. Infatti in tale didattica si fa affidamento su dispositivi privati, quali computer, tablet, telefoni, reti di connessione che, per quanto la scuola si sforzi di dotare le famiglie con il comodato d’uso di tali strumenti, essi non saranno mai sufficienti per tutti.
Inoltre è importante rilevare come il Ministero dell’Istruzione non sia sia dotato di una piattaforma su cui attivare la DaD, per cui è costretto a fare affidamento a servizi offerti dai grandi della Silicon Valley, con Google a fare la parte del leone; con la conseguente raccolta dati quali la velocità di esecuzione, gli interessi, gli argomenti trattati, il livello di bravura etc. Tutti dati che, nonostante l’informativa privacy, vengono raccolti e, anche se non ceduti a terzi o solo aggregati in forma anonima, vengono utilizzati (è esplicitamente affermato) per scopi di implementazione della piattaforma. Che cosa sia questa implementazione nessuno lo sa, anche se è facile intuirlo vista qual è stata la strategia vincente di Google sul mercato della pubblicità.
Fare affidamento sul privato è oltretutto fonte di enormi differenze tra chi vive in città e chi in frazione. Questo perché, data la diversa redditività dei servizi, gli investimenti si concentrano dove c’è addensamento di popolazione, tralasciando le periferie. Qui le reti di connessione sono perciò molto più scadenti che nei centri urbani, con conseguenze didattiche rilevanti.
Inoltre, delegando gran parte dell’azione didattica alle famiglie, gli effetti di questa sui ragazzi non possono che essere la conseguenza delle caratteristiche delle stesse famiglie, in un movimento confermativo e non emancipante. I figli di genitori con titoli di studio più elevati avranno maggiori vantaggi, al pari di chi avrà genitori a casa dal lavoro; diversamente svantaggiati saranno quei ragazzi senza colpa figli di genitori che lavorano o che sono affidati a nonni poco tecnologici o chi per essi.
Inoltre ogni famiglia deve disporre di tanti strumenti quanti sono i figli e, in caso di connessione, essa va divisa tra coloro che la usano, penalizzando le famiglie con più figli e meno abbienti.
Altro punto critico è dovuto all’annullamento dei confini nell’era telematica dove tutto si equivale sullo stesso piano, e ciò è riscontrabile a diversi livelli. Il primo è la perdita del controllo da parte della scuola rispetto alle condizioni di fruizione e ricezione della lezione a distanza, che come abbiamo visto varia enormemente in relazione ai fattori contestuali. Inoltre la lezione, una volta mandata nell’etere, può essere fruita dal mondo intero, registrata, modificata e ripetuta ad libitum per qualsiasi scopo, con quello che Baudrillard chiama “il delitto perfetto”, ovvero la perdita della referenza ad un qualcosa di reale, con il conseguente svanimento della verità.
Tale perdita di controllo la si ha anche nella valutazione, dal momento che la misura stessa non è più controllabile, perché infinite sono le variabili che la condizionano: dal genitore che suggerisce fino a tutti gli altri escamotage verso cui il docente rimane cieco. Inoltre, grazie all’enorme influenza della famiglia nella didattica, la valutazione cade sotto i colpi della misura stessa, inverando l’acuta riflessione di don Milani secondo la quale “non c’è cosa più ingiusta che fare parti uguali tra disuguali”.
La perdita di confini con il conseguente appiattimento su di una monodimensione la si riscontra anche nel rapporto col tempo. A tutte le ore ci sono comunicazioni da parte dei docenti, con la conseguenza che salta la distinzione tra le temporalità diverse che caratterizzano la giornata.
L’appiattimento su di un’unica dimensione si verifica anche grazie all’uso di dispositivi connessi e potentissimi nelle mani di ragazzi/bambini che non posseggono ancora una struttura propria attraverso la quale attribuire senso a ciò in cui si imbattono. Col pericolo di una formazione immediata o diversamente mediata, senza più filtri di educatori consapevoli che possiedono cultura e sapere. Inutile rimarcare come l’opera della scuola dovrebbe essere soprattutto un’opera di mediazione, attraverso il passaggio tra più dimensioni, proprio per superare l’immediatezza dello stato di natura.
Un altro aspetto che la DaD chiama in causa, contrariamente alla vulgata riferita al suo carattere inclusivo verso quegli alunni con particolari problematiche, è proprio l’elevato tasso di oggettivazione e standardizzazione con cui essa si presenta. Infatti la lezione è uguale per tutti, tanto più se essa è registrata così da non permettere la modulazione e le interazioni maestro-allievo sul contenuto. Essa non rende giustizia all’allievo, di cui non coglie i disagi, gli entusiasmi, le difficoltà e le passioni, ovvero ciò che Simmel chiama la base di ogni lezione. Ma questa ingiustizia si propaga anche dall’altra parte del filo, ovvero il versante dell’insegnante che non può suscitare aspettative e curiosità anche solo con un’inflessione della voce o con la sola presenza, controllate con la maestria dell’esperienza; tutte possibilità significative di risveglio negate per ogni singolo in quel preciso istante.
Se queste sono solo alcune riflessioni quasi immediate, se ne possono fare anche di relative alla sfera epistemologica. Infatti la DaD non è solo una didattica diversa: è un diverso modo di intendere l’educazione e l’insegnamento, frutto di una razionalità strumentale dove, all’accresciuto peso dell’esterno in forma di obiettivo da raggiungere, primeggiano i concetti di efficacia ed efficienza, al di là o ben prima di ogni demarcazione frutto del senso centrato sull’uomo. Questa didattica non fa che assumere, senza più remore e diventandone anzi un vettore, la razionalità che produce il modello liberista ormai tralignante in tutti gli ambiti della vita. Un modello incurante nel rimuovere gli ostacoli al compimento di sé, perché incentrato su obiettivi specifici esterni e sull’individualismo con cui ci si relaziona ad essi. Il liberismo non si interroga mai sull’uomo e sulla sua situazione di partenza, ma volge il suo sguardo solo sui punti di arrivo e, in questa corsa iper competitiva e selettiva, nessuna attenzione è rivolta verso chi è rimasto indietro per molteplici cause; al contrario la soluzione proposta da parte di tale razionalità alle difficoltà, sembra essere quella di un’ulteriore liberizzazione e competitività al di fuori di lacci e lacciuoli che non fa altro che accrescere la malattia con un’ulteriore inoculazione di virus.
Nella DaD, quindi, il discorso educativo ratifica ed accentua le disparità già presenti, allargando il fossato tra i sommersi e i salvati. Ciò preclude il compito dell’educazione nel sovvertire l’ordine della natura, fondato sulla selezione del più adatto, a favore di un ordine umano in cui ci sia il compimento di tutti. Nelle parole di un dirigente scolastico (o forse solo un venditore sotto mentite spoglie) ascoltate a distanza, tutto si esaurisce con: “L’importante è che noi offriamo un servizio”; ovvero la DaD, indipendentemente dal fatto se essa sarà fruibile da tutti (e perciò selettiva) e in che modo verrà recepita, evidenziando un’autoreferenzialità che annulla ogni spirito di servizio, in una colpevole dimenticanza dell’uomo che nella scuola assume il volto di ogni studente.
La DaD è perciò un debole surrogato di un servizio verso tutti, perché è relativamente semplice celebrare il rito della video lezione, altro discorso è quello relativo alla fruizione di tale lezione nelle sue condizioni contestuali nelle quali viene recepita.
A livello epistemologico non si può non rilevare lo slittamento dell’educativo da ambito umano a paradigma comunicativo: freddo, indifferente e ratificante il dato; con le parole di Eliot a ricordaci tutto quel che si perde nel passaggio dalla conoscenza all’informazione. Questa, infatti, può esser arricchita solo da chi ne ha la possibilità. E non tutte le famiglie hanno questa possibilità. Benjamin scrisse che “il fascismo vede la propria salvezza nel consentire alle masse di esprimersi (non di veder riconosciuti i propri diritti)”[1]; ora questo avviene attraverso il livello individuale e la DaD “permette di mobilitare tutti i mezzi tecnici attuali, previa conservazione dei rapporti di proprietà”[2].
Concludo con alcune riflessioni propositive: su dieci anni di scolarizzazione, perdere 2-3 mesi non lascia strascichi che non siano recuperabili. Se la scuola non è possibile attivarla, bisogna prenderne atto ed agire considerando la mediazione dell’ideale, come discrimine tra ciò che che va fatto e ciò che non va fatto. Continuare imperterriti con attività ad altro tasso di oggettivazione è delirante. Piuttosto sono infinite le possibilità altre per procedere sulla via del compimento di sé negli allievi, proprio al di fuori dei limiti della scuola fin qui attivata. La lettura, la scrittura libera, l’ascolto di buona musica; tutte attività che accrescono la capacità di osservazione, di riflessione, di immaginazione e sensibilità. E tutto questo al di fuori di quello che Simmel chiama lo spirito del denaro, ovvero la quantificazione del valore e la misurabilità di tutto in vista dello scambio e della proprietà.
Una scuola che propone senza chiedere un ritorno in termini valutazione, può essere una possibilità di risveglio per un altro ordine del discorso. In fondo, le esperienze più significative, sono con quello che Agamben chiama l’inappropriabile.
Bibliografia.
Agamben G., Arte e anarchia, Neri Pozza, Vicenza, 2017.
Baudrillard J., Il delitto perfetto, Cortina Raffaello, Milano, 1996.
Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966
Eliot T. S., Cori da La rocca, Rizzoli, Milano, 1994.
Foucault M., L’ordine del discorso, Einaudi, Torino, 1972.
Levi P., I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 1986.
Simmel G., Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma, 1995.
L’educazione in quanto vita, Il Segnalibro, Torino, 1995.
Denaro e vita, Mimesis, Milano, 2010.
[1]W. Benjamin: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966, p.46
[2]Ivi, p. 47.
-Concludo con alcune riflessioni propositive: su dieci anni di scolarizzazione, perdere 2-3 mesi non lascia strascichi che non siano recuperabili. Se la scuola non è possibile attivarla, bisogna prenderne atto ed agire considerando la mediazione dell’ideale, come discrimine tra ciò che che va fatto e ciò che non va fatto. Continuare imperterriti con attività ad altro tasso di oggettivazione è delirante.-
…ed il delirio tocca vette aliene quando si parla di istituti tecnici, professionali e università con materie che prevedono un laboratorio sperimentale non svolto per la chiusura delle strutture. Come è possibile svolgere tali esami senza rimorso? Come è possibile dare una valutazione su qualcosa di fondamnetale che non si è fatto? Come si fa a non capire che è sbagliato in sé e per disparità di trattamento per gli studenti passati e futuri? Come si fa a non capire che con questo precedente i pochi fondi e spazi per le attività sperimentali potrebbero sparire?
Ricordo un film degli anni ’80 incentrato su un mezzo corazzato dotato di un nuovo giroscopio. Le vicende travagliate del passato per la costruizione del giroscopio si riversavano in maniera comica sul presente. Un esperimento sbagliato e il carro era incotrollabile, un passo in avanti nel modello e tutto si sistemava nel futuro.
Ora immagino che quando l’aereo su cui vi trovate inizierà a perdere quota voi spererete che chi ha progettato quel mezzo abbia seguito il laboratorio di sperimentale di aerodinamica stando almeno una volta in una galleria del vento e non passato l’esame seguendo un video su youtube.
Questo articolo, a mio parere, mette bene in evidenza tutta la differenza tra l’Università e Scuola che ci si ostina a ritenere uguali. Personalmente, sottoscrivo tutto l’articolo, parola per parola, dato che l’oggetto dell’analisi è incentrato principalmente sulla scuola. Io sono un umile professore ordinario di matematica per l’economia che ha insegnato in diverse università statali e non statali e che ora insegna in una università telematica (che adotta principalmente un sistema di didattica misto, ossia telematico+presenza). Pertanto, ritengo di avere maturato un’esperienza abbastanza completa riguardo le diverse modalità di insegnamento. Quello che Lei chiama la base di ogni lezione, citando Simmel, semplicemente non si adatta all’Università. Dopo la riforma che ha introdotto il sistema 3 + 2 si è arrivati ad una università in stile “catena di montaggio”, in particolare, per quelle facoltà con un grande numero di iscritti e per i corsi di primo anno. Lo studente segue un corso di tre mesi (che eufemisticamente viene chiamato semestre) partecipando a lezioni due o tre volte alla settimana (a seconda del numero di CFU) e poi si presenta all’esame. Finita la sessione di esami, altro corso di tre mesi e via. Il rapporto “romantico” maestro-allievo si comincia ad intravvedere nei corsi magistrali, magari con i tesisti o con gli studenti di dottorato che seguono corsi specifici durante il loro primo anno di corso. Per molti docenti, i corsi di dottorato sono finalmente una boccata d’aria fresca. Personalmente ritengo che un sistema di insegnamento misto ben fatto (cioè non semplicemente caricare qualche file mp4 in una data piattaforma) sia possibile, soprattutto in un periodo come questo e per i mesi che ci attenderanno. In un altro post alcuni mi hanno dato del neoliberista e del sacerdote di strumenti didattici innovativi. Io pensavo invece che utilizzare gli strumenti digitali in maniera complementare (complementare NON sostitutiva!) per portare l’istruzione Universitaria anche a chi è o sarà in difficoltà fosse di sinistra.
Intervengo solo per una quaestio facti: non è vero che non disponiamo di risorse nostre e che dobbiamo “affidarci ai grandi della Silicon Valley”. Il GARR ci mette a disposizione una serie di risorse, basate su software libero, per teleconferenze e teledidattica – risorse che, se usate, permetterebbero per lo meno di tenere i dati di docenti e studenti in Italia, sulla base di un codice che, essendo aperto, può essere letto e criticato da chi ha le conoscenze per farlo.
Il GARR è “la rete nazionale a banda ultralarga dedicata alla comunità dell’istruzione e della ricerca. Il suo principale obiettivo è quello di fornire connettività ad alte prestazioni e di sviluppare servizi innovativi per le attività quotidiane di docenti, ricercatori e studenti e per la collaborazione a livello internazionale. La rete GARR è ideata e gestita dal Consortium GARR, un’associazione senza fini di lucro fondata sotto l’egida del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. I soci fondatori sono CNR, ENEA, INFN e Fondazione CRUI, in rappresentanza di tutte le università italiane.” Il GARR, in sostanza, siamo noi.
Ho scoperto che quasi nessuno dei miei colleghi conosceva l’esistenza dei servizi che segnalo. Io stesso l’ho appreso per caso. Mi chiedo dunque:
1. ero solo io – a essere poco informata? I colleghi che sono in contatto con me e che non ne sapevano nulla sono un campione poco rappresentativo?
2. perché le università hanno per lo più affidato la teledidattica (e non solo) a sistemi proprietari che fanno uso di datacenter esteri, anziché rivolgersi al GARR, cioè a loro stesse?
Non sono domande retoriche: chiedo per sapere.
Mi soffermo sull’affermazione “i docenti hanno accettato senza riserve la DaD” (sintetizzo una frase più lunga che compare all’inizio dell’articolo). Non so da quali fonti l’autore trae questa conclusione. Nella mia scuola non trovo un collega che sia non dico entusiasta, ma possibilista sul sostituire la didattica in presenza con quella a distanza. Noi che da 3 mesi stiamo davanti allo schermo a “fare lezione” ci siamo fatti un’idea abbastanza chiara sui limiti del mezzo, che abbiamo “abbracciato” solo per senso di responsabilità nel confronto dei nostri studenti e perché non si aveva idea di quanto sarebbe durata e di come sarebbe andato avanti l’anno scolastico. Di certo, se l’anno prossimo si dovesse ricominciare la DaD a seguito di una nuova diffusione del Covid-19, non ripeterò quanto fatto quest’anno.
Sì, i docenti hanno lavorato di più. E gli studenti? Mah… una percentuale ha risposto, gli altri hanno pensato che come in tempo di guerra ci sarebbe stata promozione per tutti.
A Markus Cirone: nei fatti i docenti l’hanno realizzata. Senza tentennamenti (ho anche scritto che era nell’ordine delle cose). Anch’io, nelle famose chiacchiere di corridoio riscontro fiumi di riserve. Che puntualmente svaniscono al primo Collegio docenti o quando si chiede un voto sulla valutazione della DaD. Il coraggio e la visione si misurano nel presente, nell’emergenza. E’ qui che si decide il dopo. Con le riflessioni che ho scritto nell’articolo l’unica DaD possibile era quella limitata alla parte propositiva. Perché se la scuola vuole essere giusta con tutti lo deve essere sempre. E non nascondo che la DaD, in una estrema torsione, poteva anche essere un favorevole anacronismo, uno choc per ridurre il tasso di oggettivazione anche nel dopo. Mi pare, sia da quanto è stato realizzato dai docenti, sia dagli atti normativi del ministero, che l’occasione si sia già persa. E lo testimoniano gli articoli apparsi su ROARS. Al tempo la possibilità di essere smentito.
[…] salvezza nel consentire alle masse di esprimersi (non di veder riconosciuti i propri diritti)”¹; ora questo avviene attraverso il livello individuale e la DaD “permette di mobilitare tutti i […]