Da un po’ di tempo la vita dei professori e dei ricercatori universitari è angustiata dai “modelli unici”: c’è la valutazione unica, c’è la scheda unica annuale e c’è la banca dati unica per i prodotti della ricerca. A me il termine “unico” ha sempre fatto paura: mi fa venire in mente scenari da regime comunista, o fascista, che è la stessa cosa per quanto riguarda l’Università e la Ricerca. La mia personale concezione di Università pubblica è quella di un luogo dove si valorizzano le differenze, la libera iniziativa, le pari opportunità, l’entusiasmo e la creatività: tutte cose che mal si conciliano con i modelli unici. Ci ho pensato un po’ sopra e ho scritto una Commedia in tre atti, prendendo spunto da altre tragicomiche storie di modelli unici introdotti nel nostro Paese.
Da un po’ di tempo la vita dei professori e dei ricercatori universitari è angustiata dai “modelli unici”: c’è la valutazione unica, c’è la scheda unica annuale e c’è la banca dati unica per i prodotti della ricerca. Non c’è ancora la ricerca unica, ma presto ci arriveremo. In tutto ciò di unico non c’è proprio niente perché, nonostante le dichiarazioni, dopo poco tempo tutto tende a moltiplicarsi e a frammentarsi in modo incontrollato. Da qualche tempo si parla di “modelli unici” anche per le carriere universitarie, discutendo di ruoli unici e di contratti unici.
A me il termine “unico” ha sempre fatto paura: mi fa venire in mente scenari da regime comunista, o fascista, che è la stessa cosa per quanto riguarda l’Università e la Ricerca. La mia personale concezione di Università pubblica è quella di un luogo dove si valorizzano le differenze, la libera iniziativa, le pari opportunità, l’entusiasmo e la creatività: tutte cose che mal si conciliano con i modelli unici.
Ci ho pensato un po’ sopra e ho scritto una Commedia in tre atti, prendendo spunto da altre tragicomiche storie di modelli unici introdotti nel nostro Paese.
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Alcuni anni fa il Governo si pose il problema di contrastare l’evasione fiscale ed ebbe un’idea geniale: rendere semplice pagare le tasse, così che i cittadini le potessero facilmente pagare tutte e più velocemente. Fare una dichiarazione dei redditi all’epoca era un rompicapo nebuloso e bisognava districarsi con modelli numerati in modo strano: 730, 740, 770 etc. L’idea fu quella di fare un modello unico e di chiamarlo in modo semplice e comprensibile: UNICO appunto. Tutti i cittadini avrebbero capito subito, non avrebbero più avuto bisogno di spendere soldi per il commercialista o di fare lunghe code ai centri di assistenza fiscale. Un unico modello UNICO, univoco, unitario, uniforme, universale, magari redatto a norma UNI.
Ecco la soluzione del problema: tutti sarebbero stati messi in condizione di capire al volo. Però qualcosa iniziò subito ad andare storto.
Infatti il modello UNICO divenne presto pentaedrico: c’era il modello UNICO-PF per le persone fisiche, quello UNICO-PF-Mini ancora per le persone fisiche (forse quelle più piccole?), l’UNICO-SC per le società di capitali, e poi l’UNICO-SP per le società di persone, e infine l’UNICO-ENC per gli enti non commerciali. Insomma dopo breve tempo il modello UNICO di unico non aveva più niente e infatti i cittadini continuarono a capirci poco, a ricorrere ai commercialisti, ai CAF, a sbagliare e pasticciare, a pagare di più in certi casi e ad attendere anni per i rimborsi, a pagare di meno in altri e a beccarsi subito sanzioni e interessi di mora come se fossero criminali.
Tutti ovviamente invocavano di nuovo semplificazione, tanto che addirittura venne istituito un apposito Ministero e furono dati degli indirizzi agli altri Ministeri per semplificare drasticamente i danni della precedente semplificazione. Forse tali indirizzi non furono sufficientemente univoci, perché ovviamente le cose divennero ancora di più complicate. Se andiamo oggi sul sito dell’Agenzia delle Entrate alla pagina “Modelli di dichiarazione” troviamo una lista di diciotto modelli, e se ne sono anche dimenticati uno – il diciannovesimo, cioè il modello 730 precompilato – per accedere al quale ci sono ben tre PIN unici del cittadino, quello di Fisconline, il “PIN ordinario” dell’INPS che poi deve essere convertito in “PIN dispositivo” ancora dell’INPS.
Il bello è che il Modello UNICO c’è ancora, ma è solo uno dei diciannove.
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Qualche anno fa il Governo decise di affrontare seriamente il problema dell’efficienza della Pubblica Amministrazione ed ebbe un’idea geniale: l’introduzione del Responsabile Unico del Procedimento (RUP).
Per prima cosa dovevano essere definiti in modo univoco i procedimenti, cioè le attività elementari della PA (es. rilascio di un certificato), poi dovevano essere definiti tempi certi per ciascun procedimento unitario, infine per ognuno di essi doveva essere identificato un RUP. Il tutto doveva essere pubblicato in bella mostra sul sito web, così che, se le cose non funzionavano o se c’erano ritardi non giustificati, il cittadino avrebbe potuto identificare univocamente il responsabile unico e protestare. La legge sui procedimenti amministrativi fu però scritta in modo forse un pochino oscuro e burocratico, tanto che non ha funzionato.
Nella mia Università, come in tante altre, è stato sì fatto un regolamento sui procedimenti amministrativi e sono stati designati i RUP, perché ciò era prescritto dalla legge, però ancora oggi non sono state pubblicate le schede dei procedimenti con i tempi massimi certi e verificabili e con la corrispondenza univoca con i RUP, perché su questi aspetti la legge era più sfumata. L’ovvio risultato è che le cose sono peggiorate.
Prima se un professore aveva un problema – che so – con un assegno di ricerca, si rivolgeva all’Ufficio Assegni di Ricerca (guarda un po’!) e qualcuno che glielo risolveva magari lo trovava.
Adesso deve inseguire il RUP, per poi scoprire che questi Responsabili Unici dei Procedimenti sono tutto fuorché unici, perché si riproducono in modo incomprensibile. L’ultima volta che abbiamo avuto un problema con un assegno di ricerca, ho scoperto ben quattro RUP, ciascuno responsabile di un pezzettino unitario di procedimento unico, ma mancava per l’appunto proprio il RUP deputato a risolvere il problema. Alla fine ci ho rinunciato. Mi era presa paura che l’insistenza avrebbe avuto solo l’effetto di generare nuovi RUP.
La realtà è complessa. Lo è già quella fisica, figuriamoci quella sociale.
Grande Casagli. In quanto privo del tuo talento , ti inviterei a scrivere una satira sui procedimenti per l’erogazione (con l’idrante ? di questi tempi non sarebbe male…) dei cosiddetti incentivi una tantum. Un nuovo caso di unicità: e te pareva ! trattandosi di denaro da corrispondere a gente che ha bisogno di essere incentivata, perché di per sé si ritiene che stimoli non ne abbia,gli si agita davanti la carotina di una mancia (in luogo del dovuto), si precisa che sarà solo per questa volta (non prendeteci l’abitudine !) e soprattutto si affida il meccanismo per decidere chi ne avrà diritto (il 50 % del personale docente, se non erro) alle singole amministrazioni universitarie. Le quali, in carenza di compiti con priorità massima, si gettano sull’osso. E si incartano per mesi nell’escogitare i sistemi più assurdi di selezione sulla base di dati inattendibili, ma di loro proprietà: forse gli incentivi andavano dati a chi ha speso così tante energie per distribuire incentivi. Invece rischiano di andare a chi ha fatto 100 invece che 50 esami per appello o discusso 12 invece di 6 tesi. Temo si risolva nell’ennesima beffa: meno male, però, una tantum.
“forse gli incentivi andavano dati a chi ha speso così tante energie per distribuire incentivi.”
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Idea geniale. Bravo Abbattista: non è facile insidiare il primato di Casagli, ma questo è uno spunto niente male.
Non parliamo degli incentivi ex post – a pensionati o reclutati altrove – ai quali alcuni atenei chiedono a distanza di anni (4 nel mio caso) il numero di esami, di tesi, nonchè di integrare la propria posizione sull’archivio istituzionale della ricerca dell’ateneo del quale non fanno più parte. Ho cestinato tutto e che si tengano quei quattro soldi.