Si discute da tempo della soppressione del valore legale dei titoli di studio, oggi l’argomento sembra essere sull’agenda del Governo. L’iniziativa è accattivante: a costo zero, contribuirebbe a risultati virtuosi grazie alla forza del mercato.

Ritengo però che la questione meriti una riflessione che vada oltre i facili slogan. A mio avviso, il problema dei rapporti tra studi (scolastici e universitari) e professioni vada ripensato profondamente, dissociandosi in modo deciso dalla dominante posizione che vede gli studi al servizio della formazione professionale.

La soppressione del valore legale della laurea, soprattutto se accompagnata da una politica di tagli della spesa per istruzione, temo comporterebbe un’accentuazione dell’asservimento del mondo accademico agli interessi economici delle imprese (e degli studenti), e l’abbandono di linee di riflessione fondamentali non solo per la crescita umana e culturale ma anche, almeno nel lungo periodo, per lo sviluppo del benessere materiale.

Insegno in una facoltà di ingegneria e sono membro di un dipartimento che ha stretti rapporti con le imprese, io stesso beneficio per le mie ricerche di fondi che provengono da collaborazioni tra dipartimento e imprese. Ma chi dovrebbe investire nella ricerca di base, per non parlare delle arti liberali? Dobbiamo affidarci alla capacità della cultura di “vendersi“?

La teoria della soppressione del valore legale ha il suo fascino, ma le sue implicazioni sono smentite dall’evidenza dei fatti: i corsi di formazione professionalizzanti (ivi compresi spesso, purtroppo, taluni master universitari) che non rilasciano titoli con valore legale, presentano una qualità spesso infima del corpo docente e un livello qualitativo imbarazzante.

La presenza di un sistema universitario pubblico non impedisce a chi lo desideri di istituire scuole e corsi privi di “valore legale”. Perché non avviene più spesso? Perché, quando avviene, la qualità è così scadente? La colpa è del valore legale? A parità di valore legale, siamo così sicuri che le università migliori attirino più studenti danarosi? Siamo sicuri che il mitico “mercato” sia così efficiente? (parlo anche da studioso dell’impresa e della concorrenza)

Penso che sia necessaria un’analisi più dettagliata delle implicazioni politiche, culturali ed economiche del valore legale dei titoli di studio. Ad esempio, qual è il valore legale di una laurea in fisica? Consente, in Italia, l’accesso ad un limitato ambito di concorsi pubblici. Che succederebbe se abolissimo il valore legale? Ci sarebbero forse più candidati agli stessi concorsi. Questo significa che vinceranno più facilmente i migliori? Significa che i migliori sceglieranno le università migliori per competere meglio in un contesto più competitivo? Università migliori per cosa? Scelte in base alle inserzioni pubblicitarie? In base ai dati Almalaurea sullo stato occupazionale dei laureati? E poi: la selezione con il solo concorso è più giusta e ponderata di quella che presuppone innanzitutto la frequenza di un corso universitario, il superamento di un certo numero di esami, etc.?

Il valore legale dei titoli di laurea comporta probabilmente un artificioso incremento del numero degli studenti iscritti ai corsi universitari, spinti dal desiderio del “pezzo di carta”. Sono iscrizioni “a pioggia”, non mirate verso le sedi più “meritevoli”. Ne è derivato, in passato, un occasionale sovraffollamento dei corsi. Il problema risulta ampiamente superato con l’accresciuto dimensionamento del sistema universitario. In questo senso, il maggior numero di studenti ha spinto ad un incremento dell’organico del personale docente universitario, e dunque ad un maggior costo per lo Stato. Siamo proprio sicuri che questo sia un danno per la collettività? Siamo davvero convinti che lo Stato spenda troppo per l’università?

Ancora, il valore legale del titolo spinge una più ampia platea di giovani, sebbene motivati dal gretto desiderio del “pezzo di carta”, ad entrare in contatto con il mondo accademico.

Siamo sicuri che questo contatto sia del tutto negativo?

A ben vedere, il valore legale della laurea risponde alla stessa logica dell’obbligatorietà dell’istruzione scolastica: costringe o convince a studiare (magari controvoglia), e conseguentemente costringe lo Stato a investire in istruzione.

E’ un cattivo investimento?

Non credo che l’istruzione (che assorbe comunque risorse pubbliche, anche per precisa norma costituzionale) debba essere al servizio di interessi privati: siano gli interessi privati degli studenti o quelli delle aziende che li assumeranno. Se la formazione ha un valore economico, perché non se la pagano le imprese e gli interessati? E perché la ricerca le aziende non se la pagano da sole, invece di venire a bussare alle università offrendo peraltro briciole?

In uno Stato realmente liberale, l’intervento pubblico si giustifica dove il mercato non funziona. Fuori dalle logiche economiche della produttività e competitività. È questo, ritengo, lo spazio del sistema di istruzione pubblica.

Molti sostenitori dello smantellamento del sistema di istruzione pubblica adducono l’esempio delle “università americane”. Quanti conoscono il sistema di istruzione americano nel suo complesso? Quanti invece stanno pensando alle sole università della Ivy League, e spesso conosciute solo per sentito dire? E le famose “università private” italiane? Per essere precisi, tecnicamente sono enti pubblici non economici. La differenza sostanziale con le università statali è che la gestione delle risorse pubbliche viene demandata a soggetti nominati dall’esterno (dai privati) piuttosto che eletti dai professori. E’ meglio? E’ sempre meglio? Alla Bocconi come alla “università” Vita Salute di don Verzè?

No, non credo proprio che l’abolizione del valore legale possa davvero contribuire a salvare l’università dal baratro in cui è stata gettata da un mondo politico antagonista di qualsiasi realtà non riducibile alle sue logiche, con la complicità di molti accademici ingenui o corrotti o semplicemente incapaci di vedere oltre la propria modesta esperienza.

Forse sarà troppo tardi per evitare la catastrofe. Ma credo che ciò non possa esimerci dall’impegno per salvare il salvabile e magari immaginare un futuro migliore anche se fosse al di là del nostro limitato orizzonte. Per me, in primo luogo, contrastando con fermezza il tentativo di applicare le logiche economiche fuori dal campo in cui, con molta cautela e poche sicurezze, possono aiutare a spiegare e indirizzare i fenomeni. Contrastando il connubio deleterio tra la lettura neomarxista dei rapporti sociali e l’analisi economica neoliberista. Difendendo la scuola e l’università come mondo di cultura indipendente dalle logiche dei partiti e dei sindacati. Provando a recuperare e diffondere valori irrinunciabili e irriducibili alle logiche del mercato.

Senza scorciatoie, senza bacchetta magica.

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1 commento

  1. In Italia un Consiglio dei Ministri voleva fissare astrattamente l'”attenuazione” o la “modifica” del valore legale (?) della laurea.

    In un tipico Stato Americano, il Michigan, se ne impippano di Einaudi, e classificano ogni posizione lavorativa in base alle funzioni da svolgere, e alle competenze richieste, con i corrispondenti requisiti in termini di titoli di studio. Non sono certo pagati dai loro elettori per fare le cose a caso.

    http://web1mdcs.state.mi.us/MCSCJobSpecifications/JobSpecMain.aspx

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