Alcuni giorni fa ho letto sulle pagine di “Repubblica-Firenze” un’intervista al Direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa Luigi Ambrosio, sul recente intervento delle tre ormai note normaliste (Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Valeria Grossi) alla cerimonia di consegna dei diplomi che tanta circolazione ha avuto sui social. Ma Ambrosio ha evitato di affrontare il nodo più profondo del loro discorso, che qui vale la pena ricordare: la retorica dell’eccellenza e il discorso meritocratico hanno funzionato negli ultimi anni da copertura ideologica dei tagli al sistema dell’Università e della ricerca. Un sistema che – le allieve ricordano – è il meno finanziato dell’Occidente e ulteriormente decurtato di un quinto a partire dal Ministero Gelmini. Depistare l’attenzione sull’”eccellenza”, allora, significa abbagliare l’opinione pubblica con la promessa di una rigenerazione non all’insegna di un generale rifinanziamento bensì nel nome di una selettività funzionale alle politiche di disinvestimento. E’ stato davvero meraviglioso che proprio tre espressioni viventi di un’eccellenza niente affatto retorica – al di là quindi di ogni nietzscheano sospetto di risentimento -, si siano incaricate di ricordare come la valorizzazione dei talenti non abbia senso se non si inserisca in una più generale strategia di intervento a favore di tutto l’organismo dell’Università e della ricerca. Le tre normaliste hanno difeso un’idea democratica (in senso sostanziale e non formale) del talento, intendendolo cioè come una qualità preziosa anche per la società e non solo per i singoli che ne sono dotati o per minoranze di presunti eletti, soli depositari delle chiavi dell’interesse generale. Nella straordinaria chiusa del loro intervento esse ricordano anche che l’eccellenza è sempre legata alla dimensione comune dell’ “incompletezza e della fallibilità”. Come a dire che nessun soggetto può attribuirla a sé per rivendicare maggiori diritti, potere e risorse, essendo essa qualcosa di relativo, condizionato, relazionale, transeunte.
Non è una generica polemica anti-accademica, ma un esplicito attacco all’ “Università neo-liberale”. L’università sempre più aziendalizzata e talvolta ammantata di retorica anti-baronale, è in realtà la rideclinazione postfordista dell’oligarchismo delle passate stagioni, così come il turbo-capitalismo si è imposto contro il welfarismo fordista, sussumendo e sfigurando alcune istanze libertarie dei movimenti in un modello che ha riprodotto a uno stadio più alto le diseguaglianze di classe e di genere. Ecco perciò che le tre normaliste rilevano come l’idea di puntare a finanziare soprattutto le eccellenze e a introdurre stimoli di competitività fra i diversi atenei abbia darwinisticamente portato soltanto a nuovi squilibri territoriali e diseguaglianze, come hanno peraltro mostrato alcuni studi di Gianfranco Viesti.
Magnaghi, Spacciante e Grossi hanno anche sottolineato che in un’università di questo tipo “l’indirizzo della ricerca scientifica segue la logica del profitto, in cui la divisione del lavoro scientifico è orientata a una produzione standardizzata, misurata in termini puramente quantitativi”. Questo j’accuse interroga tutto il sistema di valutazione in cui la neo-università si è ingabbiata: il lavoro scientifico come “prodotto”, la logica del copyright prevalente sulla libera circolazione del pensiero e quella del marketing sul servizio pubblico, i percorsi formativi ridotti a “crediti” per clienti, i dipartimenti meno performativi decurtati di una grossa fetta del fondo ordinario di finanziamento. Ambrosio replica sostenendo che sebbene sia necessario arginare la deriva quantitativa, un’istituzione pubblica non si può sottrarre ad una rendicontazione (a cui peraltro largamente si sottraggono gli investitori finanziari e i proprietari delle Gkn e delle Whirlpool) sul piano della performance e della produttività: senza considerare che è proprio quest’ultimo piano che è incompatibile con la logica del sapere e dell’attività scientifica, oltre che della stessa idea di servizio pubblico democratico. Quando il modello del mercato traligna la sfera economica privata e modella l’intero agire sociale e anzi la vita umana, siamo fuori dal liberalismo e siamo dentro il neo-liberismo. Il potenziamento dello “sportello psicologico” di cui parla Ambrosio, infatti, era già stato considerato dalle allieve un pur apprezzabile palliativo: rinuncia infatti ad affrontare i nodi “sistemici” che in ogni luogo di lavoro producono ansia, depressione e senso di inadeguatezza.
Il discorso pisano ha aperto il cuore a tutti, perché si è trattato di un’emozionata e argomentata rottura sia della religione tradizionale del potere che del suo nuovo rito manageriale. Luci nel buio istituzionale che si aggiungono a quelle accese da un altro ex normalista, di recente eletto Rettore della sua Università, Tomaso Montanari, che nel programma elettorale aveva con fermezza denunciato un potere universitario ormai “paleo-aziendalistico, fondato sul possesso, sul controllo e sulla punizione (per quanto travestita da mancato premio)”. Ma per invertire la rotta sarebbe necessario che queste gocce luminose diventino una tempesta.
La lettura della retorica dell’eccellenza in termini di aziendalismo/neo-liberismo è senz’altro utile ma incompleta. Si sposa infatti molto bene con un atteggiamento pre-esistente, che io chiamerei di instaurazione di gerarchia sociale di tipo tribale, per cui si dà per scontato che persone o gruppi che in un dato momento abbiano conseguito risultati eccellenti, *siano* eccellenti ipso-facto in qualsiasi attività successiva. Questo atteggiamento, peraltro incompatibile con una stretta visione meritocratica, permea la nostra accademia in modo pervasivo.
Quante volte ho sentito dire X è un ottimo ricercatore perché ha lavorato con Y e Z o nella sede W! Evidentemente l’eccellenza, più che da risultati eccezionali, deriva da contagio diretto con persone o sedi! Il risultato netto è che l’eccellenza, come i diamanti di una pubblicità, “è per sempre”.
Con buona pace per la stessa retorica del mercato auto-ottimizzante.