Qualcosa non va nel mondo della ricerca, se gli Stati Uniti d’America, paese guida delle più grandi imprese scientifiche, decidono, com’è avvenuto negli ultimi anni, di ricavare consistenti economie di spesa tagliando i principali progetti di esplorazione spaziale del più famoso centro pubblico di ricerche della Terra, la Nasa. Il Congresso americano, infatti, ha dirottato i finanziamenti dedicati al programma Constellation della Nasa, che prevedeva lo sviluppo di nuove tecnologie per l’esplorazione del sistema solare e la costruzione di un nuovo shuttle per i viaggi nello spazio, verso il programma “Space Launch System”, che servirà a foraggiare i contratti con l’industria aerospaziale privata, per realizzare un vettore da lancio basato sulla vecchia tecnologia. A seguito di questa decisione, la Nasa ha perso le due colonne portanti, come ha scritto Lou Friedman su The Space Review, ovvero la scienza e la tecnologia, rappresentate rispettivamente da Laurie Leshin, direttore dei si
stemi di esplorazione, e Bobby Braun, capo dell’Ufficio Tecnologico, che hanno lasciato la Nasa nei mesi scorsi.
Nel 2010 suscitò scalpore anche la lettera apertache il leggendario Niel Armstrong rivolse al Presidente USA affinché rivedesse i tagli, sottolineando il fatto che la scienza non ha soltanto una funzione pragmatica di leva economica, ma svolge una funzione ideale, di orientamento della società verso più ampi scopi, ciò che rende un luogo attraente per i giovani ricercatori di tutto il mondo: «Gente da ogni parte del mondo – scrive lo storico astronauta – si appassionava all’esplorazione umana dello spazio e all’espansione delle frontiere dell’umanità. Questo progetto diffondeva l’idea suggestiva che ciò che era stato considerato fino a quel momento impossibile, stava diventando realtà. Gli studenti erano ansiosi di prepararsi per entrare a far parte di questa nuova epoca. Nessun programma governativo nella storia moderna è stato mai tanto efficace nel motivare i giovani a tentare “ciò che non è mai stato fatto prima d’ora”».
Anche l’Europa, alcuni anni fa, ha detto addio a un progetto che avrebbe conquistato la fantasia di tanti giovani: la creazione di un centro di ricerca europeo per innovare radicalmente le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, sul modello del Media Lab del MIT americano, con una forte impronta interdisciplinare (tecnici, scienziati e artisti applicati alla stessa ricerca) e con un obiettivo a dir poco ambizioso: «ampliare le potenzialità dell’essere umano attraverso l’invenzione».
Il MediaLab Europe, fondato nel 2000 a Dublino con fondi del MIT e del governo irlandese, chiuse i battenti, mandando a casa i suoi 100 ricercatori, dopo solo cinque anni di attività, per l’impossibilità di rastrellare fondi privati sufficienti a sostenere le attività di ricerca, nonostante il centro «avesse sviluppato, nei precedenti quattro anni, una considerevole gamma di progetti, molti dei quali con un potenziale altamente innovativo, in collaborazione proprio con i partner privati, tra cui compagnie come AIB (Irlanda) AOL (USA-Irlanda), BT (GB), Ericsson (Svezia), Essilor (Francia), Intel (USA-Irlanda) e Orange (GB/Francia), nonché con agenzie di sviluppo sperimentale come Highlands e Islands Enterprise in Scozia».
Da allora, nessuno, tanto meno la Commissione Europea, tentò mai di ripetere l’esperimento, magari garantendo un budget o un aiuto nel reperimento dei fondi, considerata la riluttanza delle imprese private al finanziamento della ricerca a lungo termine: «le imprese difficilmente promuovono la ricerca fondamentale – recita un documento della Royal Society – poiché sono portatrici di interessi particolari e commerciali che ripaghino gli investimenti con alti profitti a breve termine, mentre la ricerca fondamentale comporta un impegno a lungo termine, talvolta decennale, per dar luogo a scoperte che vanno ben al di là dell’interesse commerciale, cioè promuovono un generale avanzamento della civiltà».
Di questa politica scientifica, da un lato razionalista e, dall’altro, rinunciataria, si hanno esempi non solo nell’ambito della ricerca scientifica. Anche nel mondo degli studia humanitatis, sembra che “l’incubo del contabile”, come lo chiamava Keynes, stia compiendo un delitto di cui pochi nel nostro paese hanno avvertito l’eco: il lento e silenzioso, ma costante, tentativo di smorzare le attività dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, privandolo dei fondi ministeriali e regionali cui avrebbe diritto per legge. Noto nel panorama mondiale per i suoi appelli, accolti a Strasburgo, contro la soppressione della filosofia nei licei d’Europa e per la salvezza della ricerca scientifica di base e umanistica, l’Istituto ha rappresentato per decenni – è attivo a Napoli dal 1975 – l’agorà internazionale degli studi filosofici e un centro permanente di dialogo tra le scienze, cui hanno partecipato decine di migliaia di scienziati, ricercatori, filosofi, docenti universitari provenienti da ogni parte del mondo e, ovviamente, studenti e ricercatori da tutto il Mezzogiorno. A
ll’attività di trasmissione della scienza tràdita nei seminari e nelle scuole estive, l’Istituto ha affiancato l’attività di ricerca, non solo finanziando materialmente con borse di studio oltre 20.000 studiosi, ma invitando scienziati noti e meno noti, ricercatori affermati o alle prime armi, a esporre in convegni e seminari i risultati delle loro ricerche, mettendo in contatto le nuove leve di laureati e ricercatori con maestri del pensiero quali Popper, Gadamer, Derrida, e con premi Nobel come Ilya Prigogine, John Wheeler, Renato Dulbecco. Tuttavia, l’opera di formazione e di ricerca ai più alti livelli che questo centro svolge – con sempre maggiori difficoltà – nel Mezzogiorno da oltre trentacinque anni, insieme alle Università, alla scuola, a importanti istituti di ricerca, non è considerata un’opera strategica per il paese e tanto meno per una regione che, nel gergo burocratico di Bruxelles, si trova nell’“Obiettivo 1”, ovvero è tra le più sottosviluppate d’Europa. Gli oltre 2 miliardi di euro assegnati dal fondo FAS 2000-2006 al settore “ricerca e sviluppo” sono stati dispersi in mille rivoli e rischiano di andare perduti anche i fondi stanziati per il periodo 2007-2013: un timore ben giustificato dalla palese mancanza di un piano di investimenti consistente e ben strutturato nella ricerca scientifica e negli studi umanistici.
Tra le priorità strategiche individuate dal ministero dello Sviluppo economico figura sì la scuola, ma vista soprattutto come complesso edificatorio da riqualificare e mettere in sicurezza, mentre in primo piano vi sono le “infrastrutture”, ovvero autostrade e ferrovie che costeranno all’Europa e ai cittadini italiani 6 miliardi e 496 milioni di euro, ma che, in assenza di una realtà industriale consolidata, produttiva e innovativa, serviranno tutt’al più, a rendere più rapida e meno dolorosa la fuga dei cervelli dalle regioni meridionali.
Questa falsa politica di sviluppo sta trasformando, infatti, il mezzogiorno d’Italia in capitale d’Europa dei ricercatori migranti. Tra il 1997 e il 2008 circa 700 mila persone, soprattutto giovani con un alto grado di istruzione, hanno abbandonato il Sud con la speranza di trovare una realizzazione professionale al Nord o all’estero. Una ricerca promossa dalla Banca d’Italia e pubblicata nel gennaio 2010 fornisce il quadro di un massiccio esodo di giovani istruiti dalle regioni meridionali nell’ultimo decennio. Tra il 2000 e il 2005 sono emigrati addirittura ottantamila dottori, con picchi di trasferimenti dalla Basilicata e dalla Calabria, le regioni che presentano l’indice più negativo di saldo migratorio d’Italia.
L’attacco ai “giganti” della ricerca, ovvero alle eccellenze e alle istituzioni storiche che vediamo entrare in crisi in più punti del mondo, non lascia ben sperare per le generazioni future, se è vero quel che in tempi diversi affermarono scienziati e filosofi, ossia che il sapere è un processo collettivo e cumulativo, e che l’unico modo per “innovare” realmente la vita di una società è “salire sulle spalle dei giganti”. Noi, al contrario, sembreremo agli occhi dei posteri un popolo di nani, che sfrecciavano al volante su fiumi di asfalto, in cerca di un colpo di fortuna.
http://www.youtube.com/watch?v=af3YAP6TBmk
La metafora dei nani e dei giganti è costruita per le persone. Mi sembra meno adatta per le istituzioni e per discutere del loro finanziamento. E’ legittimo che un governo decida di non finanziare più un ente di ricerca/istituzione che ha ospitato giganti in passato, ma forse non ne ospita più al presente. Non è elencando i giganti che sono passati nelle stanze di una istituzione che si acquisisce per sempre il diritto di essere considerati giganti. E di accedere a finanziamenti.
L’Italia è il paese delle eccellenze autoproclamate e di quelle proclamate dai ministri. Forse sarebbe il caso, più prosaicamente, di ragionare sulla “produttività scientifica” delle istituzioni, sulla loro terza missione (https://www.roars.it/?tag=terza-missione) etc. Un po’ di laica analisi costi-benefici (o un po’ di incubo contabile) nel paese delle eccellenze autoproclamate non può certo fare male.
In teoria ciò che Lei afferma è vero, ma non credo che questo discorso sia valido nei tre casi che ho citato. Per quanto riguarda la Nasa, il problema non è se finanziare una istituzione o un’altra, ma se finanziare la ricerca sulle nuove tecnologie o finanziare i privati perché forniscano
tecnologie obsolete. Per quanto riguarda il Media Lab Europe il discorso è ancora un altro, perché si trattava di un esperimento cui non si è voluto dare alcun seguito, nonostante i primi anni di attività avessero dato risultati promettenti. Per quanto riguarda l’Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici, ovviamente l’aver ospitato dei grandi maestri non può essere un criterio sufficiente a ricevere fondi pubblici. Una istituzione che si limitasse a ospitare uomini di scienza e di cultura non potrebbe definirsi un ente di ricerca, ma non è questo il caso dell’Istituto, che ha concesso circa 20 mila borse di ricerca e finanziato circa 3200 pubblicazioni. Sono perfettamente d’accordo sulla necessità di valutare la produzione scientifica recente, nonostante tutti i limiti, messi in luce anche su questo sito, degli attuali criteri di valutazione della ricerca umanistica, ma al di là di controlli fiscali e finanziari, la legge dello Stato non prevede alcuna procedura di valutazione della ricerca svolta da una fondazione privata quale è l’Istituto. Ciononostante, gli organi dell’Istituto hanno sempre tentato di far conoscere la loro attività al governo, alle amministrazioni, ai parlamentari, inviando loro i programmi annuali o dettagliati dossier sulle ricerche svolte, ma quasi mai hanno ricevuto un riscontro. Sul rapporto costi/benefici mi limito a rilevare che per i primi 16 anni di attività l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici non ha ricevuto un euro dallo Stato. Si tratta, infatti, di un caso, forse l’unico degli ultimi 40 anni, di finanziamento privato alla ricerca nel Mezzogiorno d’Italia, da parte di un uomo, l’avvocato Gerardo Marotta, che ha investito tutto il suo patrimonio nella cultura, nella formazione e nella ricerca. Solo dopo aver ricevuto attestati di merito da parte di Pertini, Spadolini, Ciampi, da filosofi e uomini di cultura come Bobbio, Gadamer, Derrida, Ricoeur, (e oggi Remo Bodei, Marc Fumarolì, Irving Lavin, Nuccio Ordine), da scienziati come Buzzati Traverso e Prigogine, nonché da parte del Parlamento europeo e dell’Unesco, lo Stato italiano si decise a sostenere in parte le attività di questo istituto, che nel frattempo ha fondato 200 scuole estive in tutto il Sud e ha formato studenti e ricercatori che oggi insegnano nelle principali università d’Italia e del mondo. Ora che le finanze private del fondatore non sono più sufficienti a continuare quest’opera, dovremmo dire addio all’accumulo di contatti, di studi, di ricerche che in oltre trentacinque anni è stato raggiunto con enormi diffcoltà? Dovremmo far marcire o svendere una biblioteca di circa 300 mila volumi in cui si trovano collezioni di riviste e di testi rarissimi? Ignorare questo enorme sforzo, senza nemmeno prendere visione dei risultati prodotti, a me sembra un delitto, soprattutto nei confronti di migliaia di giovani che ogni anno devono cambiare regione o paese, o addirittura rinunciare alla loro vocazione alla ricerca perché non c’è possibilità di continuare a studiare, né nell’Università né altrove. E non si tratta di un numero esiguo di persone, ma di decine di migliaia. Un’ultima nota sulla metafora dei nani e dei giganti: è forse inadeguata per le istituzioni…, ma dietro le istituzioni vi sono sempre uomini che le governano e le rappresentano.
Forse duecento scuole estive in tutto il sud erano un po’ troppe per una struttura che si trovava già in difficoltà economiche. Credo che l’osservazione di Alberto sia condivisibile. A parte contarle, c’è una valutazione di qualche tipo dei risultati che sono stati ottenuti finanziando tante borse e pubblicazioni? Poi non bisogna nemmeno esagerare nel decantare le iniziative passate. Quando seguivo le attività dell’Istituto, nei primi anni novanta, ricordo che la filosofia di lingua inglese era quasi completamente assente, e questo in un momento in cui buona parte del dibattito internazionale si stava orientando verso autori e problemi provenienti dagli Stati Uniti o dal Regno Unito. Poi c’è la questione dei privati. Possibile che a Napoli non ci sia un imprenditore che abbia voglia di mettere due lire in un’iniziativa che – pur con i limiti che abbiamo detto – era certamente meritoria? Forse parlando di nani è anche da quelle parti che bisogna guardare.
In realtà, a quel tempo l’Istituto non si trovava in difficoltà economiche, perché Ciampi, allora Presidente del Consiglio, considerò il progetto delle scuole estive così meritorio che volle sostenerlo con un contributo del ministero del Tesoro, all’epoca diretto dall’attuale ministro per la coesione territoriale, Fabrizio Barca. Quest’ultimo, anzi, sottolineò in seguito l’importanza di questa iniziativa all’interno della politica di diffusione delle conoscenze e di rinnovamento del tessuto sociale che quel governo aveva messo al centro dell’intervento nel Mezzogiorno, avendo individuato il focolaio dell’arretratezza economica nel degrado del contesto culturale. La valutazione c’è stata, ecco cosa dice il ministro nel 2005 a proposito delle scuole dell’Istituto: «Ho conosciuto da vicino un’esperienza straordinaria fatta dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici che ha riguardato dal ’94 centinaia e centinaia di scuole dove ha svolto attività di corsi di formazione, di seminari, di corsi di studio. Abbiamo voluto nel nostro modo, antipatico, tecnocratico, capire se quella esperienza aveva lasciato tracce. Ne ha lasciate di profonde. Abbiamo interpellato cento di queste scuole: il segno lasciato da quell’intervento si sente oggi nell’attiva azione degli insegnanti, nelle biblioteche che essi hanno a disposizione grazie all’Istituto. Nel ricordo di quegli eventi, io chiedo e mi domando se questa attività non possa essere rilanciata, non le possa essere data continuità, non possa essere innervata ancora di più all’interno dei territori del Mezzogiorno per dare quella voce che sola può spingere questa area del Paese ad essere convinta dei propri mezzi». Capisco che la rievocazione di eventi passati può sembrare nostalgica, ma non lo è se serve a far capire che il Mezzogiorno non è un deserto senza speranza in cui bisogna rifare tutto da capo, ma è un deserto in cui vi sono oasi vitali che vanno tutelate e allargate, realtà di valore, con un potenziale espansivo che potrebbe avere ricadute significative su tutto il territorio.
Se negli anni Novanta non si è dato il giusto rilievo alla filosofia inglese (immagino che Lei si riferisca alla filosofia analitica?), ciò è avvenuto perché l’Istituto ha sempre cercato di proporre al suo pubblico una panoramica ampia su tutta la filosofia mondiale e, in generale, sugli aspetti filosofici e storici di ogni campo del sapere, e per questo è stato definito dall’Unesco, proprio nel 1993, «una istituzione che non ha termini di paragone nel mondo». Purtroppo, però, sembra che tutto questo non interessi più a nessuno, né ai nani del Nord né a quelli del Sud, tra i quali non mi sembra ci siano particolari differenze.
Cara Milena,
proprio quello volevo dire, se per fare le scuole estive c’era bisogno del contributo del Governo (cioè dei soldi pubblici), vuol dire che l’iniziativa non era autosufficiente sul piano economico.
Sulla questione della filosofia di lingua inglese, analitica o meno, ti faccio notare che l’Unesco avrà tanti meriti ma non prenderei per oro colato tutte le affermazioni che fanno i suoi funzionari.