Le riviste predatorie sono spesso definite come il lato oscuro dell’open access. Una sorta di effetto collaterale indesiderato di un movimento che in sé sarebbe virtuoso. L’analisi spesso si ferma qui e pochi collegano direttamente il fenomeno dell’editoria predatoria ai sistemi di valutazione performance based, che premiano e promuovono sulla base di indicatori quantitativi il cui soddisfacimento finisce per diventare lo scopo dei giovani ricercatori (When a measure becomes a target…). Recentemente si è affermato che la soluzione al fenomeno potrebbe essere rappresentata dall’acquisizione di black lists da editori commerciali, delegando ancora una volta a soggetti commerciali la soluzione di un tema che le comunità scientifiche sarebbero e sono perfettamente in grado di risolvere in autonomia, attraverso la creazione di liste bianche o attraverso la formazione dei ricercatori più e meno giovani.

Qualche tempo fa si è tenuto presso l’Università di Pisa un Seminario dal titolo Riviste predatorie, come riconoscerle e come contrastarle.

Il seminario vedeva fra i partecipanti il Rettore dell’università di Pisa,  alcuni membri dell’Anvur, presidente compreso, il prorettore vicario dell’Università di Bologna, la prorettrice della Scuola Superiore Sant’Anna, e ricercatori che per un motivo o per l’altro si sono occupati della tematica delle riviste predatorie. Quasi tutti i partecipanti sono stati membri di commissioni ASN.

Il seminario era pensato come confronto fra esperti,  ma anche come momento formativo per i dottorandi dell’università di Pisa,  per dare ai membri della comunità gli strumenti per difendersi dalle riviste predatorie, un fenomeno apparentemente in crescita  che nella conferenza è stato rappresentato anche come il lato oscuro dell’open access.

Secondo questa prospettiva sarebbe l’open access la causa del proliferare delle riviste predatorie; i nostri esperti si sono appunto interrogati su che cosa si può fare per contrastare questo fenomeno,  e in particolare come devono agire i ricercatori per evitare di esserne catturati.

Una simile impostazione affronta il problema a valle e non a monte, perché identifica il sintomo ma senza interrogarsi sulla causa con sufficiente radicalità. Se infatti si tratta di pubblicare a pagamento per interessi diversi da quello della partecipazione al dibattito scientifico, che la pubblicazione sia ad accesso aperto o chiuso dovrebbe essere teoricamente irrilevante.

Perché mai un ricercatore dovrebbe scegliere di pubblicare in una rivista predatoria, eventualmente ad accesso aperto? Certamente perché queste riviste garantiscono una pubblicazione rapida, cioè una riga in più nel proprio CV. Ma perché la riga in più nel CV è così importante? Perché al ricercatore è richiesto di soddisfare alcuni criteri numerici per poter aspirare ad una posizione da strutturato.

Visto da questa prospettiva allora la radice del fenomeno delle riviste predatorie è un sistema di valutazione che pone l’enfasi sulla quantità (di pubblicazioni e di citazioni). L’open access è un aspetto soltanto accidentale. Anche a riviste ad accesso chiuso capita di ospitare articoli privi di sostanza, talvolta neppure scritti da esseri umani. Si veda per esempio Cabanac, Guillaume, Cyril Labbé, e Alexander Magazinov. «Tortured phrases: A dubious writing style emerging in science. Evidence of critical issues affecting established journals». 12 luglio 2021. http://arxiv.org/abs/2107.06751.

Ma questa distorsione non è l’unico elemento sorprendente del seminario pisano, infatti l’ateneo ha dato rilievo alla acquisizione di uno strumento commerciale dell’editore Cabell, una sorta di black list a pagamento che contiene quelli che secondo una sessantina di criteri definiti dall’editore (ma non trasparenti per gli utenti) sarebbero da considerarsi predatory publishers. Insomma la soluzione al fenomeno sarebbe affidarsi (ancora una volta) agli editori commerciali.

Durante l’incontro è stata anche nominata, occasionalmente, la Directory of Open Access Journals.

Chi scrive ricopre diversi ruoli all’interno della DOAJ, managing editor, editor e associate editor. Tutti esperti di comunicazione scientifica che lavorano secondo criteri condivisi (dalle comunità scientifiche e dagli operatori della DOAJ) e trasparenti.

Ci sembra utile descrivere qui il workflow e le modalità con cui ogni singola rivista viene validata.

Le riviste vengono proposte per l’indicizzazione dagli editori o dai direttori delle stesse. Dopo una fase iniziale di verifica del rispetto di alcuni requisiti formali (es. il funzionamento del sito web, la registrazione dell’ISSN e via dicendo), che sono pubblici sul sito di DOAJ, le riviste vengono assegnate a una serie di gruppi di specialisti, chiamati associate editor, organizzati su base linguistica o nazionale, coordinati da un editor e supervisionati da un managing editor, a cui gli associate editor fanno riferimento nel caso di dubbi procedurali.

Ciascuna di queste figure svolge un lavoro accurato di controllo delle riviste, da un punto di vista formale e, nel caso di competenza specifica rispetto all’argomento trattato, anche da un punto di vista del contenuto. Tale controllo spesso richiede un’interazione con l’editore per chiarire eventuali aspetti non descritti in maniera sufficientemente precisa, cosa che spesso succede con la procedura di revisione paritaria, con i costi di pubblicazione o le informazioni sul diritto d’autore.

Se le risposte dell’editore sono ritenute soddisfacenti, o nel caso in cui la rivista soddisfi da subito i requisiti necessari per l’inclusione, ci sono due ulteriori passaggi di controllo, effettuati dall’editor e dal managing editor, che ha la responsabilità finale rispetto all’inclusione o alla bocciatura di un titolo. Riviste particolarmente eccellenti – al momento in cui scriviamo meno di 1500 su quasi 17000 – ricevono un ulteriore riconoscimento della qualità del lavoro editoriale svolto, rappresentato dal DOAJ Seal. DOAJ svolge un controllo periodico sulla correttezza delle informazioni incluse nella directory. Tali controlli si rendono necessari perché i siti web delle riviste indicizzate potrebbero essere cambiati nel corso del tempo, o le riviste non più attive. La rimozione di eventuali titoli precedentemente inclusi nella directory avviene previa comunicazione all’editore, e l’elenco dei titoli non più disponibili è anch’esso pubblico, così come la ragione per la rimozione.

Le riviste non accettate o rimosse da DOAJ possono appellarsi alla decisione del managing editor; le richieste vengono vagliate da un apposito comitato per la gestione degli appelli che decide, in accordo con il managing editor, se modificare la decisione iniziale o mantenerla. Per esaminare qualsiasi caso di dubbie pratiche editoriali, all’interno di DOAJ esiste anche un gruppo di persone specializzate nell’analisi dei cosiddetti questionable publishers, l’equivalente degli editori predatori di cui sopra, a cui però viene concesso il beneficio del dubbio fino a prova contraria. Tale gruppo esamina titoli segnalati dai managing editor, dagli utenti o dal triage, il passaggio iniziale in cui si verifica la corrispondenza dei criteri di base, decidendo come sia più opportuno agire. E’ previsto che gli editori ritenuti dubbi debbano aspettare fino a 3 anni, a seconda del tipo di problema individuato, prima di poter richiedere nuovamente l’inclusione in DOAJ.

La DOAJ non è un’autorità amministrativa nominata dal governo, che irrompe nell’uso pubblico della ragione armato del potere di cancellare o di promuovere carriere con un tratto di penna. Si ispira a un ideale di scienza aperta certamente condiviso, ma non imposto: siamo davvero sicuri che, in un’epoca di rivoluzione mediatica, l’unico modello di rivista accettabile sia quello che si limita a digitalizzare procedure di pubblicazione fiorite nella tarda età della stampa? E, più in generale, siamo davvero sicuri che un sistema di liste stilate, gerarchicamente, da autorità amministrative e da editori commerciali interessati a ben altro che l’uso pubblico della ragione sia un modo scientifico di valutare la ricerca?

Fuori dalla valutazione amministrativa centralizzata, la comunicazione scientifica sta profondamente cambiando, sia per i contraccolpi  – ancorché limitati e parziali – della pandemia, sia per alcune scelte dell’Unione Europea a favore di forme di pubblicazione ad accesso e revisione paritaria aperta che trascendono i vecchi modelli di rivista. Ma se, come italiani, dobbiamo continuare a dimorare entro i suoi confini, forse vale la pena riflettere su quanto scriveva Cameron Neylon in un intervento del 2015 su un blog della London School of Economics:

At times it is tempting to suggest that it is not publishers that are predatory, but researchers. But of course the truth is that we are all complicit, from publishers and authors producing content that no-one reads, through to administrators counting things that they know don’t matter, and funders and governments pointing to productivity, not to mention secondary publishers increasing the scope of they indices knowing that this leads to ever increasing inflation of the metrics that makes the whole system go round. […]

Emerging researchers don’t have the power to buck the system. It is senior researchers, and in particular those who mediate the interface between the sources of funding and the community, the institutional leaders, Vice-Chancellors, Presidents, Deans and Heads of Department. If institutional leaders chose to change the game, the world would shift tomorrow.

È noto che in certi sport professionistici l’antidoping è solo un’ipocrisia, e non solo perché è sempre un passo indietro rispetto al doping, ma perché è l’intero sistema, con gli interessi mediatici e commerciali che lo animano, a promuovere il doping. Varrebbe la pena chiedersi, in un mondo come quello della scienza, dove non dovrebbe contare vincere, bensì essersi battuti bene, producendo ricerche metodologicamente sane, perché mai chi potrebbe liberarlo dal feticismo  del publish or perish preferisca invece rimanere sempre un passo indietro.

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