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Il «condominio di laureati» fu così il primo shoccante contatto con la nuova realtà da laureato. Il dipartimento aveva vinto e lo snellimento dei processi decisionali ora passava, con cadenza mensile, per un consiglio di dipartimento interfacoltà in cui i vecchi membri dell’Istituto, ridotti a uno sparuto numero, cercavano disperatamente di trovare, tra le maglie dell’attuale assetto organizzativo un pretesto per conseguire quel tanto auspicato coordinamento fra i settori scientifico-disciplinari omogenei. In un dipartimento universitario anche Jenner sarebbe stato messo in minoranza e il vaiolo sarebbe ancora oggi una malattia incontrollabile.
Il dipartimento
Nel contesto normativo delle due fonti appena citate, il dipartimento era inteso come «organizzazione di uno o più settori di ricerca omogenei per fini o per metodo e dei relativi insegnamenti anche afferenti a più facoltà o più corsi di laurea della stessa facoltà» (art. 83, c. 1). Al dipartimento erano attribuite una serie di funzioni quali la promozione e il coordinamento delle attività di ricerca, l’organizzazione dei corsi per il conseguimento del dottorato di ricerca e la collaborazione con i consigli di corso di laurea o gli organi direttivi delle scuole di specializzazione per la didattica. A metà anni ottanta, con la circolare ministeriale 22 novembre 1984 n. 3059, dal titolo «Dalla sperimentazione dipartimentale alle esperienze dipartimentali» l’estensore dichiara con malcelato entusiasmo che :”accertato che questa formula organizzativa si è ormai positivamente consolidata, si tratta di affrontare con decisione i numerosi problemi che si pongono perché il suo funzionamento sia il più possibile armonizzato con il complesso delle finalità, delle funzioni e del sistema di governo delle università». La coesistenza tra vecchio e nuovo, durata diversi lustri, con la diffusione di un complicato sistema di centri di decisione, con duplicazione di funzioni ha da un lato ridotto le facoltà a semplici aggregazioni di docenti e dall’altro impedito il decollo dei dipartimenti. La riforma Gelmini (Legge 30 dicembre 2010, n. 240 “Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario” pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 10 del 14 gennaio 2011 – Suppl. Ordinario n. 11) ha cercato di superare la lunghissima stagione della sperimentazione e di risolvere problemi organizzativi ad essa connessi esprimendo, sin dalla presentazione del disegno di legge (Legislatura 16a – Disegno di legge N. 1905, www.senato.it): “Al fine di eliminare duplicati di organi e di snellire i processi decisionali, nonché integrare maggiormente la gestione della didattica e della ricerca, si prevede una riorganizzazione dell’articolazione interna degli atenei ed in particolare:
– l’attribuzione al dipartimento sia delle funzioni relative alla ricerca scientifica sia quelle didattiche e formative, attualmente svolte dalla facoltà;
– la riorganizzazione dei dipartimenti articolata secondo le dimensioni dell’ateneo, con indicazione di una soglia minima di professori e ricercatori loro afferenti, determinata nel numero di 35 ovvero 45 nelle università con organico di professori e ricercatori superiore a 1.000 unità, afferenti a settori-disciplinari omogenei. Ciò al fine di ampliare le maglie dell’attuale assetto organizzativo con il duplice obiettivo di favorire il coordinamento fra i settori scientifico-disciplinari omogenei e di creare una base più ampia per la formazione delle commissioni giudicatrici;
– la possibilità di istituire strutture di raccordo fra i dipartimenti, denominate facoltà o scuole, con un organo deliberante composto dai direttori di dipartimento, integrato da una rappresentanza dei coordinatori dei corsi di studio o di area didattica che vi afferiscono, dal presidente della scuola di dottorato e da una rappresentanza degli studenti, il cui presidente, che è figura distinta ed incompatibile con il direttore di dipartimento e coordinatore di corsi di studio, di area didattica o di dottorato, ha un mandato di durata triennale rinnovabile per una sola volta. Le predette strutture hanno il compito di coordinare e razionalizzare le attività didattiche, gestire i servizi comuni, nonché di coordinare le proposte in materia di personale docente formulate dai dipartimenti.”
Ma, al di là delle fonti del diritto sull’assetto dipartimentale, torniamo al nostro studente interno che nel frattempo si è laureato, ha svolto il servizio militare e si appresta a intraprendere la cosiddetta carriera universitaria, dopo aver rinunciato alle sirene di Ulisse della certezza di un posto al ministero della sanità (primo classificato al concorso) e persino alla qualifica di tenente in spe (servizio permanente effettivo). Già a quei tempi, nemmeno troppo lontani, rinunciare al certo del posto fisso (oggi si direbbe a tempo indeterminato, perché, nell’incertezza del tutto persino il tempo non è più quello di una volta) per l’incerto del dottorato di ricerca, era una scelta quasi pionieristica. In questa decisione ha determinato in maniera preponderante, se non assoluta, il gradevole ricordo dell’«Istituto di malattie infettive, profilassi e polizia veterinaria» dell’Università di Perugia, l’atmosfera ovattata della biblioteca, l’odore di detergenti e igienizzanti distribuiti con cura dagli ultimi inservienti col camice grigio, azzurro o nero a seconda della funzione. L’ambito dal tono familiare, la gestione interna, una facoltà nella facoltà, l’ordine e il rigore, la tolleranza e la comprensione, l’uniformità di interessi, nel nostro caso i virus, rendevano l’Istituto più un club per appassionati che un ufficio, più un luogo di incontro e scontro culturale tra pari che un condominio di laureati.
Nel frattempo il Governo, con la legge Ruberti (Legge 341/1990), tentò di riformare l’Università con l’obiettivo di rendere autonomi nella loro amministrazione gli atenei. Gli effetti a lungo termine sono ancora sotto gli occhi di tutti, mentre qui mi preme ricordare con una certa nostalgia il movimento studentesco di protesta, denominato Pantera da un pubblicitario dopo che a Roma, proprio in quei giorni era stata avvistata una pantera sulla Nomentana. Il primo ministro era Giulio Andreotti, al suo ultimo mandato e il ministro dell’istruzione era il socialista Antonio Ruberti, mentre tangentopoli era alla porte. Il motivo aggregante della protesta fu la proposta di legge Ruberti che prevedeva l’autonomia degli atenei e l’ingresso dei privati nelle Università. Il primo aspetto segnava la fine dell’idea stessa di Università di massa, con la creazione di una gerarchia tra gli atenei, divisi tra atenei di eccellenza e atenei di seconda fila. La legge prevedeva anche la possibilità per le aziende di contribuire al finanziamento dei corsi di studio, in base alle necessità dei loro piani industriali, alleviando, secondo le intenzioni del Governo, l’onere contributivo dello Stato nella ricerca. Se un’azienda investiva capitali per un programma di ricerca, era ovvio pensare, secondo il movimento, che non avrebbe fatto beneficienza. Gli studenti rivendicavano un sapere slegato dal processo produttivo e una formazione culturale non necessariamente collegata alla sua spendibilità nel mondo del lavoro. Il Professore Ruberti ci ha lasciato nel 2000, ma oltre ai chiaroscuri della legge che porta il suo nome, a lui, profondo assertore della formazione a distanza, dobbiamo l’istituzione del programma Socrates e del programma Leonardo da Vinci.
Il condominio dei laureati
Il glorioso «Istituto di malattie infettive, profilassi e polizia veterinaria» dell’Università degli Studi di Perugia, prima del Professore Giovanni Castrucci era stato guidato dal Professore Vittorio Cilli, un altro pilastro della moderna medicina veterinaria. Vittorio Cilli da giovane aveva diretto all’Asmara l’Istituto sierovaccinogeno Eritreo ininterottamente, dal 1932 al 1949. Si racconta che Vittorio Cilli tenne una intensa corrispondenza epistolare con Sir Arnold Theiler, padre della medicina veterinaria in Sudafrica, fondatore dell’Onderstepoort Veterinary Institute e autore di studi sulle zoonosi e, tra l’altro, sulla febbre della costa orientale del bovino (east coast fever), sostenuta da un protozoo che porta il suo nome: Theileria parva. Corrispondenza epistolare fatta negli ultimi anni di vita di Theiler e densa di commenti sul migliore approccio diagnostico e laboratoristico, o sull’opportunità di condurre determinate campagne vaccinali, non certo incentrata su noiose procedure amministrative, sui posti da mettere a concorso o sui criteri di valutazione dei dipendenti.
Tanto rigore scientifico e tanta storia sono stati spazzati via, senza rumore, in maniera ineluttabile, dall’ondata di cambiamento e con un impersonale e apparentemente omnicomprensivo «Dipartimento di tecnologie e biotecnologie delle produzioni animali» si tentò di coagulare, aimè invano, attorno a un nome, interessi, culture e competenze scientifiche molto diverse.
Il «condominio di laureati» fu così il primo shoccante contatto con la nuova realtà da laureato. Il dipartimento aveva vinto e lo snellimento dei processi decisionali ora passava, con cadenza mensile, per un consiglio di dipartimento interfacoltà in cui i vecchi membri dell’Istituto, ridotti a uno sparuto numero, cercavano disperatamente di trovare, tra le maglie dell’attuale assetto organizzativo un pretesto per conseguire quel tanto auspicato coordinamento fra i settori scientifico-disciplinari omogenei. Niente da fare, la logica della maggioranza si era oramai impossessata anche della scienza accademica e nei consessi la democrazia non era più intesa come tutela delle minoranze, ma soprattutto come principio in base al quale le decisioni erano prese dalla maggioranza, con la minoranza che si conformava a esse.
In un dipartimento universitario anche Jenner sarebbe stato messo in minoranza e il vaiolo sarebbe ancora oggi una malattia incontrollabile.
Questo racconto è stato scritto interamente con MacWrite Pro su un Apple PowerBook 180c del 1994 e poi esportato verso Word 2011 per Mac OS X per l’invio a Roars in un formato aggiornato. Le foto a corredo dell’articolo erano state scattate negli anni ’80 su pellicola diapositiva con una Pentax ME Super e sono state trasformate ora in file digitali con uno scanner Nikon Coolscan III di fine anni ’90 collegato a un Apple PowerBook G3 del 1998 e quindi elaborate per la correzione cromatica con Adobe Photoshop CS6 su un nuovo Apple MacPro 8-core a 3,2 GHz. Tutto ciò a dimostrazione che nostalgia e modernità possono andare d’accordo.