Erano molti anni che aspettavo una buona occasione per vendicarmi della collega X.
Una vendetta in nome della verità, della giustizia: non un fatto personale. La collega X la conoscete tutti anche senza conoscerla. Mentre la maggior parte degli studiosi italiani ha dovuto dannarsi l’anima per farsi strada e conquistare – ma a quaranta, cinquant’anni – un posto fisso all’università, la vita della collega X è stata un lungo fiume tranquillo. Figlia di un ordinario ultra-potente, massone, dell’università di Y, la collega X si è laureata nell’università Y, ha fatto il dottorato nell’università Y e ha avuto un posto da ricercatrice nell’università Y quando non aveva ancora trent’anni. Merito del padre? Ma cosa andate a pensare… Ma merito soprattutto del vecchio ordinario della sua disciplina che – di solito piuttosto distratto circa i destini dei suoi allievi maschi – le ha fatto fare carriera alla velocità della luce. A trentaquattro anni associata, a trentotto ordinaria. Che strano caso.
Ma, obietterete, la cattedra di visiting professor a Princeton? Le dichiarazioni di stima nei suoi confronti da parte di un paio di premi Nobel? Le molte pubblicazioni in riviste internazionali sulle quali – bisogna essere onesti – né il padre né il vecchio maestro possono aver avuto influenza? Sono successi, certamente, ma successi che abbagliano soprattutto i non addetti ai lavori. Princeton, per la nostra disciplina, è da tempo su una china discendente. Il Nobel, retorica a parte, è un premio screditato. E si sa come viene fatto il rating delle riviste scientifiche, e come si arriva a pubblicare sulle più importanti: relazioni, entrature, piccoli favori. Non dico altro, anche se potrei. Aggiungo solo che è sospetta, e urtante, anche la frequenza con cui il nome della collega X si legge sulla copertina delle riviste (ne condirige due: non una, due!), nei comitati editoriali, negli organismi di controllo universitari e interuniversitari (che si prepari al grande salto verso Roma? La collega X sottosegretario? Ministro?); e da un po’ di tempo anche sui giornali: commentini, articoletti, noticine polemiche con cui presume di (così dice lei) dare un contributo al dibattito delle idee, ma che le servono soprattutto per ‘mettere a posto’ gli avversari e i colleghi restii a riconoscerle quel ruolo di spicco nella vita intellettuale italiana (bella roba, del resto…) che la sua arroganza le fa credere di meritare.
Non ho problemi a confessare che io rientro nel gruppetto dei, diciamo così, resistenti, e che questo negli anni mi ha procurato qualche noia. Un’allusione non benevola al mio lavoro, in una sua recensioncina sul giornale: allusione implicita, indiretta, ma limpidissima per chi è del mestiere (non sono paranoico: «Che le hai fatto?» è stata la domanda che ben tre colleghi mi hanno rivolto dopo aver letto il pezzo). Citazioni affrettate dei miei studi nelle note ai suoi studi, a volte precedute da formule derisorie come «si può vedere anche» o «da ultimo»; e a volte nessuna citazione dei miei studi, l’ostracismo, anche quando parla di argomenti su cui io ho scritto cose che non possono non essere almeno menzionate. E poi voci, pettegolezzi: colleghi, amici comuni che mi riferiscono di suoi giudizi liquidatori nei miei confronti lasciati cadere anche a sproposito, mentre si parla di tutt’altro. E infine, qualche mese fa, una vera bassezza. Un’università americana dell’Ivy League cerca un docente della mia materia che faccia il visiting professor per due mesi all’anno. Io conosco i colleghi di quell’università, ci sono stato una volta. Mando il mio CV, entro nella shortlist. Tutto sembra mettersi bene, poi vengo a sapere che, richiesta chissà perché di un parere, lei (che non è neanche veramente del mio settore disciplinare) ha suggerito il nome di un altro candidato.
Erano anni che cercavo di vendicarmi. Poi è successo che mi hanno chiesto se volevo essere inserito nella lista dei revisori dell’ANVUR, e giudicare (anonimamente) il lavoro di un certo numero di colleghi del mio settore disciplinare. Ho risposto di sì: in questi casi è sempre meglio stare dentro che stare fuori. E indovinate chi mi chiedono di valutare, nel primo lotto di pubblicazioni?
Già.
E indovinate chi mi chiedono di valutare, nel secondo lotto di pubblicazioni?
Il suo allievo prediletto, il suo primo brillantissimo allievo.
Naah, non così brillante…
Mi dispiace soltanto che non saprà mai da che parte le è arrivato il ceffone.
O magari sì.
Peccato. TUTTO VERO, direi verissimo…
Però, PECCATO… anche se deve essere una goduria terribile, questa è vendetta, non giustizia…
e su, non lo trombate…
Si, invece, per rimanere nella finzione. Ci sono vendette molto più crudeli in letteratura. Grazie, Claudio Giunta, per questo bel racconto. Ciascuno di noi può ritrovarvi i propri fantasmi.
Amici, grazie. Non è che devo esplicitare che è tutta un’invenzione e che è solo un modo per dire quali atrocità si possono commettere (per invidia rancore piccineria meschinità ignoranza) nel placido anonimato della ‘valutazione scientifica’? Cioè, io temo che di vendette del genere, contro tante/i colleghe/i X più meritevoli, ce ne saranno parecchie. Mi sorprende che non se ne parli di più.
Caro Giunta, il racconto è godibile. Attenzione alle unintended consequences: la bibliometria è meglio della peer-review. Come uscirne?
Mah… e allora?
Piu’ che sull’ANVUR, e le sue modalita’ operative, getta discredito sulle procedure che ti hanno portato dove ti trovi, incapace di gestire l’invidia e il rancore e di comportarti professionalmente. Sempre nell’invenzione e nella finzione, naturalmente.
Godibile. Nell’invenzione è però poco verosimile che un cardiologo partecipi della retorica delle aree umanistiche:
Citazioni affrettate dei miei studi nelle note ai suoi studi, a volte precedute da formule derisorie come «si può vedere anche» o «da ultimo».
Bel raccontino, molto vero. Per non rischiare di essere invischiato in questo schifo ho ritirato la mia disponibilità a fare peer review, e non intendo darla di nuovo.
La morale che si trae da questo apologo è che la peer review all’italiana fa schifo quanto la bibliometria all’italiana. Il problema non sono la peer review o la bibliometria: il problema, purtroppo, è l’Italia.
Per come leggo io questo bel racconto, il problema non è se sia meglio peer review o bibliometria, ma come si fanno le cose. Pretendere di sottoporre a peer review centinaia di migliaia di prodotti della ricerca in un mese, selezionando un po’ a casaccio, senza nessun tipo di sperimentarione o criterio (a cominciare da quello quantitativo: quanti prodotti è serio referare in una determinata unità di tempo?) mi pare semplicemente poco serio. Giunta ha solo raccontato un caso possibile (tutt’altro che improbabile) e ce ne sono molti altri che rendono il processo tanto inattendibile quanto oneroso.
Scusate ma mi sfugge la morale della favola.
Se la comunità è bacata ci si trova a fare guerre fra bande, con ripicche e vendette.
Ma è possibile restare delle persone decenti nell’accademia italiana. Ho fatto da referee di progetti e di lavori per persone che conoscevo, amici personali e “nemici” di vario tipo. Ho sempre giudicato il progetto o l’articolo per quello che secondo me valeva, cercando di non farmi influenzare dai miei rapporti con proponenti o autori. E non credo di essere una mosca bianca, sono al contrario sicuro che la stragrande maggioranza dei colleghi del mio settore (fisica teorica) si comporta in maniera corretta. E credo che altre comunità siano simili. Certo so di gruppi di potere che fanno delle vere e proprie sconcezze, ma come si costruisce una comunità migliore? Non credo con le vendette.
La morale della favola è che la valutazione anonima (o una valutazione anonima concepita nel modo in cui è stata concepita) può essere un pericolo, e può fare danno, perché è il luogo ideale per una vendetta.
(o una valutazione anonima concepita nel modo in cui è stata concepita)
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Infatti. La valutazione anonima per la pubblicazione per esempio consente, nella norma, il diritto di replica e, spesso, è anche migliorativa. Nella VQR (e anche nella valutazione dei PRIN/FIR) questo non accade e il rischio citato dall’autore del post è concreto. Nella VQR non vedo il rischio di vendette accademiche. Se ho ben capito solo i lavori di tipo C vanno a revisione. Semmai un’inutile perdita di tempo e denaro. In generale, introdurre un diritto di replica potrebbe giovare a sminare il territorio.