Secondo La Stampa del 9 settembre,“i fuoricorso che emergono da una ricerca condotta da Cepu e skuola.net … sono ragazzi che hanno sbagliato la prima scelta, alla fine delle superiori”. Il 22% degli studenti intervistati dichiara di non amare il proprio corso di studi. In realtà, dai dati dell’articolo non si può trarre nessuna conclusione, per il semplice fatto che non si tratta di una “ricerca” e nemmeno di un “sondaggio” con valore statistico ma di una semplice consultazione on line. Inoltre, il passaggio dalle superiori (“scuola secondaria di secondo grado”) all’università è sconvolgente per decine di migliaia di matricole, che non hanno imparato a studiare nei 13 anni precedenti passati sui banchi di scuola. Non siamo di fronte a un problema di indirizzare lo studente verso ciò che gli piace. Siamo di fronte a una questione ben più difficile: come assicurare all’insieme degli studenti le condizioni per progredire negli studi.
Secondo La Stampa del 9 settembre,“i fuoricorso che emergono da una ricerca condotta da Cepu e skuola.net sono molto diversi, sono ragazzi che hanno sbagliato la prima scelta, alla fine delle superiori, hanno pensato ad un corso di laurea che poi si è rivelato un errore”. Un altro articolo sullo stesso giornale chiede addirittura un “sistema di orientamento che dal basso arriva all’università” e un “esercito di orientatori di professione”.
Andiamo a rileggere la fonte originaria, un articolo on line pomposamente intitolato “Fuoricorso: colpa dell’orientamento”. La tesi espressa nel titolo si basa sul fatto che il 22% degli studenti intervistati (poi vedremo come) dichiara di non amare il proprio corso di studi, contro il 20% che attribuisce il ritardo nel percorso universitario al fatto di lavorare, il 12% al fatto che “ci sono troppi esami” e il 10% al fatto che il corso “è troppo difficile”.
I dati presentati da skuola.net sembrano un po’ magri per trarne conclusioni sull’orientamento, che pure è un tema di cui discutere, visto che le stesse percentuali potrebbero essere lette anche così: il 78% (100%-22%) degli studenti universitari italiani ama il proprio corso di studi, purtroppo il 35% dei fuoricorso è formato da fannulloni che si lamentano perché le materie sono troppo difficili, o perché ci sono troppi esami, o pochi appelli, o addirittura perché “non mi piace studiare” (10%+12%+8%+5%=35%).
In realtà, dai dati dell’articolo non si può trarre nessuna conclusione, per il semplice fatto che non si tratta di una “ricerca” e nemmeno di un “sondaggio” con valore statistico ma di una semplice consultazione on line dei frequentatori del sito skuola.net, alcuni dei quali hanno volontariamente risposto alle domande della rivista, come ci è stato gentilmente confermato dalla stessa redazione. Quindi i dati raccolti si basano sull’autoselezione del campione, un peccato mortale per ogni rilevazione statistica, che renderebbe privi di valore i dati anche se le risposte fossero state 1,2 milioni invece di 1.200 (un caso famoso avvenne nel 1936, quando la rivista americana Literary Digest invitò i propri lettori a dichiarare le proprie preferenze nelle elezioni presidenziali imminenti, sbagliando clamorosamente le previsioni nonostante l’elevatissimo numero di partecipanti alla consultazione).
Detto questo, il problema dell’orientamento esiste ma trasforma quelle che sono questioni strutturali della scuola e dell’università italiana in un problema individuale. Si può “non amare” il proprio corso di studi per mille ragioni, alcune buone (l’insegnamento è effettivamente carente rispetto alle necessità formative), altre cattive (“non mi piace studiare”). Ma se vogliamo affrontare seriamente i problemi dobbiamo evitare di psicologizzare le situazioni individuali e guardare al sistema nel suo complesso.
In questa prospettiva, scopriamo immediatamente che i percorsi formativi in Italia soffrono di vari mali, diversi però da quelli di cui si parla tutti i giorni, come l’esame di maturità, la valutazione degli insegnanti o la produttività scientifica dei professori. Il primo problema è la mai avvenuta riforma dei cicli, che rende traumatico ognuno dei tre passaggi che lo studente deve affrontare: dalle elementari alle medie, dalle medie alle superiori, dalle superiori all’università. Passaggi traumatici perché i singoli “pezzi” non sono mai stati concepiti in modo unitario ma sono il risultato di logiche diverse, di riforme parziali, di continui ritocchi senza capo né coda. Tutti sanno che lo snodo delle medie (ora chiamate “scuola secondaria di primo grado”) è un problema irrisolto dal 1963, nonostante i ritocchi ai programmi del 1977 e la riforma Gelmini del 2009: non a caso il momento della dispersione scolastica è il passaggio alla prima superiore, quando gli studenti si trovano ad affrontare un ambiente completamente diverso da quello cui sono abituati.
E neppure è un mistero il fatto che il passaggio dalle superiori (“scuola secondaria di secondo grado”) all’università è sconvolgente per decine di migliaia di matricole, che semplicemente non sono in grado di maneggiare con un minimo di destrezza la lingua italiana e alcuni concetti base di matematica e, soprattutto, non hanno imparato a studiare nei 13 anni precedenti passati sui banchi di scuola.
Quindi non siamo di fronte a un problema di indirizzare lo studente X verso ciò che gli piace, ciò per cui è portato, o ciò che è considerato di moda in questo decennio: siamo di fronte a una questione ben più difficile da risolvere: come assicurare all’insieme degli studenti le condizioni per progredire negli studi. L’orientamento è problema individuale, la coerenza e l’efficacia didattica di scuola e università sono problemi collettivi. (1-continua)
il fuoricorso è un fenomeno prettamente italiano:
all’estero (veramente dappertutto, tranne che in Italia), l’università è più vicina al liceo, nel senso che ci sono
1)lezioni obbligatorie
2)compiti per il giorno dopo (o la volta dopo)
3)in alcuni posti, se non hai terminato gli esami di quell’anno, ripeti l’anno.
è come il liceo (dal punto di vista dell’organizzazione, poi il livello è più alto del liceo, altrimenti non si chiamerebbe università).
in Italia invece, con il fatto che non c’è alcun controllo, alcun vincolo, si lascia la libertà di sbagliare, anche troppo e quindi ti laurei ugualmente con 110 e lode anche se ci metti 15 anni (cioè al decimo fuori corso).
siete d’accordo?
anto
No. Ed è uno dei pochi casi in cui sono d’accordo con Giavazzi:
https://www.roars.it/profumo-italia-unico-paese-con-i-fuoricorso-ma-e-vero/
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“The time taken to earn a degree also varies widely. Of the approximately 55% of those students who complete their bachelor’s degree from their initial institution, only about 33% (or 60% of all degree earners) do so within the standard four-year time frame (see Nagda 2003, tables 7.1–7.6). The remaining 22% (or 40% of all degree earners) do so in the following two years. Beyond the fact that some degrees, such as in engineering, require more than four years of full-time study, it is evident that many students take considerably more than four years to earn a four-year degree.”
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Vincent Tinto, Completing College: Rethinking Institutional Action, The University of Chicago Press, 2012.
http://press.uchicago.edu/books/excerpt/2012/tinto_completing_college.html
@Giuseppe De Nicolao.
prendiamo, ad esempio, il corso di laurea in giurisprudenza:
diritto privato, materia del primo anno, viene studiata da tanti studenti al 3 o 4 anno, perché nessuno controlla, perché non ci sono vincoli, perché è possibile iscriversi agli anni successivi senza nessun problema.
e così al 4 anno superano diritto privato e gli insegnamenti che vengono dopo (diritto civile, diritto commerciale, procedura civile e che sono molto tosti e lunghi) vengono studiati e superato intorno al 5, 6, 7, 8 anno (che corrisponderebbero al 3, 4, 5 fuoricorso).
E questo esempio è una cosa sicuramente italiana (se non ci crede può chiedere a qualsiasi persona in qualsiasi corso di laurea domani mattina).
Sicuramente avrà conoscenze internazionali o europee: provi allora a chiedere qualche collega a che età nei loro Paesi ci si laurea mediamente in giurisprudenza (dato che è l’esempio che ho riportato).
Forse ora mi può capire meglio.
Grazie,
Anto
NB: il fuori corso italiano, per essere un vero fuori corso si aggira sui 3-4 anni di fuori corso, qualche mese è trascurabile
È stato scritto che “il fuoricorso è un fenomeno prettamente italiano”. Un’affermazione tutta da dimostrare, dal momento che i dati riportati in letteratura sembrano smentirla. Non mi sembra il caso di imbastire ragionamenti sulla base di immaginari confronti internazionali, frutto di pregiudizi smentiti dai fatti.
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“Throughout the world, a large fraction of students remain in educational programs beyond their normal completion times and this tendency appears to have increased in recent years. At the undergraduate level, according to Bound et al. (2006), time to completion of a degree has increased markedly over the last two decades. Various papers and policy reports confirm these findings.(1)”
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(1) See, for example, OSEP (1990), Ehrenberg and Mavros (1995), Groen et al. (2006) and Siegfried and Stock (2001), U.S. Department of Education (2003), the State of Illinois Board of Higher Education (1999), UCDavis (2004) and Gao (2002). The situation is similar in Canada where a 2003 report of the Association of Graduate Studies indicates that “ … in many universities times to completion were longer than desired.”
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Garibaldi, P., F. Giavazzi, A. Ichino, and E. Rettore (2012), “College Cost and Time to Complete a Degree: Evidence from Tuition Discontinuities”, The Review of Economics and Statistics.
No, lo snodo non è alle medie. Ho visto cosa hanno fatto delle elementari: dettati azzerati, poesie a memoria azzerate, ore curricolari mangiate da iniziative ridicole (andare a fare il formaggio), errori di ortografia tollerati in quinta elementare (voto in pagella: dieci!), proiezione di filmati in classe, una marea di dislessici e discalculici esonerati dallo studiare italiano e matematica. Ma vi sembra che una scuola siffatta prepari gli studenti? Lo credo che si sconvolgono …
Lo scaricabarile sugli ordini di scuola precedenti è molto in voga. I docenti delle superiori, a loro, volta, lo potrebbero fare nei confronti della scuola media. Solo per la scuola materna non esiste questa scappatoia, o forse sì: colpa degli asili nido che non addestrano più al duro lavoro. Esattamente come cerchiamo di fare per l’istruzione universitaria, i problemi e le carenze dei diversi ordini di istruzione andrebbero studiati scientificamente per diagnosticarli e per capirne le cause. Dislessia e discalculia esistono e richiedono, prima di tutto, di essere riconosciute (gli insegnanti, raramente, sono formati per farlo). Predisporre interventi adeguati è un passo ulteriore che richiede competenza e risorse. È del tutto plausibile che gli interventi attuali siano meno che soddisfacenti, ma più che di un capro espiatorio abbiamo bisogno di capire come migliorare.
“una marea di dislessici e discalculici esonerati dallo studiare italiano e matematica”. Mi sfugge la nozione di marea. E se sono riconosciuti, non è che sono esonerati. Ma vengono adottati per loro piani di studio personalizzati in quanto alunni con bisogni educativi specifici. Infine: perché “fare il formaggio” dovrebbe essere una iniziativa ridicola? Per favore evitiamo i giudizi sommari. Visto che li contestiamo per l’università, non è che possiamo farlo con gli altri ordini di scuola