Non amo affatto Michel Houellebecq, mi irrita da morire. Segno forse che è un vero scrittore, perché lo scopo primario della sua scrittura sembra proprio quello di irritare il lettore (e ancor più la lettrice). Ma c’è un dettaglio che mi ha colpito molto in Sottomissione, a parte gli astuti e tendenziosi richiami alla situazione che sta sgretolando il nostro (?) mondo. Qualunque cosa accada, nota a più riprese Houellebecq, l’Amministrazione non ti lascia in pace: ti bracca, ti raggiunge ovunque. Può esserci il panico, la rivoluzione, la guerra civile o lo stato di emergenza, ma a un certo punto torni a casa e trovi una bolletta delle tasse o una multa non pagata. Mi viene anche in mente, su un registro molto diverso, un capitolo esilarante del Pensatore solitario di Ermanno Cavazzoni, in cui si descrivono le peripezie di un ipotetico eremita dei nostri giorni, che prima di potersi dare a una vita di sacrosanta solitudine e ascetiche meditazioni nel deserto dovrebbe fare i conti con Equitalia, il commercialista, la tassa dei rifiuti, l’avvocato dell’ex-moglie e via dicendo.

Figurarsi uno come me, che non pensa (più) a fare il rivoluzionario o l’eremita ma ha un posto ben integrato nel sistema universitario del nostro Paese, e che vorrebbe solo studiare e insegnare in santa pace, pretese ormai velleitarie e antisociali in un mondo che regolamenta anche il dissenso e che pretende di misurare tutto, dal numero di citazioni di un articolo scientifico al tempo quotidiano degli studenti (qualcuno ha mai seriamente riflettuto sul fatto che i Crediti Formativi Universitari, i Cfu, risultano dalla somma tra le ore di “lezione frontale” e le ore di “studio individuale”, come se fosse possibile conteggiarlo e uniformarlo? Perché nessuno ha chiamato la neuro quando una qualche commissione di “saggi” ha escogitato questa trovata?). Mai come in questi casi, del resto, si avverte uno scarto più grottesco tra le parole e le cose, tra procedimenti di definizione e controllo sempre più formalizzati (che poi finiscono nei grafici e nelle percentuali, e soprattutto negli articoli dei giornali) e un’esperienza concreta che svanisce come un rivolo d’acqua tra le crepe dei nostri corpi, le ore di fatica sui libri, i dialoghi con gli studenti, le lezioni preparate con cura, le tesi corrette virgola per virgola, tutta roba troppo umana e volatile per essere contabilizzata dagli indicatori, e che quindi non esiste.

Ecco: per l’Amministrazione noi giochiamo un po’ la parte del piccione nel tiro al piccione. Se avete un’idea generica dell’università, toglietevi dalla testa l’immagine dello scienziato pazzo chiuso in laboratorio o in biblioteca e perfino del barone che veleggia in corridoio con il codazzo di allievi, come il dottor Tersilli. Ecco quello che ti può capitare in una giornata-tipo.

il prof. dott. guido tersilli primario...

Apri il computer la mattina e commetti l’errore fatale di controllare la posta: trovi l’ennesimo, sempre più minatorio messaggio dell’Area della Ricerca – corredato da un richiamo del direttore del Dipartimento – che ti ricapitola modalità e tempistica della prossima Vqr (Valutazione della Qualità della Ricerca), operazione che dovrai compiere dopo esserti registrato nell’apposita banca dati – che naturalmente sostituisce le precedenti – ed esserti dotato del codice Orcid (questo, giuro, non so cosa significa). La prima cosa che borbotti è: vi supplico, una moratoria sugli acronimi!

Sono_ANVUR_figlio_di_MIUR

Poi, con un mezzo sorriso, ricordi quella volta in cui si doveva ribattezzare il dipartimento nato dalla fusione dei due precedenti, in seguito all’applicazione della Legge Gelmini, e uno dei nomi ipotizzati produceva l’acronimo “Ficam” – nell’Italia berlusconiana sarebbe stato un trionfo. Quindi ti muore il sorriso sulle labbra perché sai che queste procedure di valutazione, mascherate dietro la retorica del “merito” e dell’”eccellenza”, servono solo a legittimare i tagli finanziari, condizionano pesantemente la libertà di ricerca, aumentano le sperequazioni tra le varie università (e poi tra le regioni del paese, e infine tra i singoli cittadini, in barba alla Costituzione) e soprattutto fanno tutte queste schifezze senza avere alcuna effettiva attendibilità.

Mezz’ora dopo arriva un messaggio dalla redazione di una rivista, ovviamente di “classe A”, che in quanto tale pratica con zelo fanatico la peer-review: ogni articolo da pubblicare deve passare al vaglio di due esperti che lo giudicano in forma anonima, riportando la valutazione in macchinose schede con criteri tipo “originalità” o “completezza bibliografica” (ma che significa? Che se scrivi – o valuti – un articolo su Proust devi conoscere la bibliografia completa su Proust, per cui non basterebbero due vite?). Qui poi il caso è delicato: devi fare da arbitro tra due giudizi opposti: uno dei revisori pensa che l’articolo sia buono, pubblicabile con pochi emendamenti, mentre l’altro pensa che l’autore sia una capra, lo strapazza con sadica ferocia (ma che t’ha fatto la vita!?) e gli consiglia sprezzantemente di leggersi quattro lustri di riviste specializzate e almeno una trentina di contributi imprescindibili. Fai un gran sospiro, pensi che questi sono pazzi e che anche il ragionevole esercizio della peer-review, ormai sport nazionale degli accademici, ci sta sfuggendo di mano. Ma cosa non si farebbe pur di giocare in serie A?

Un’altra mezz’ora e un altro messaggio dalla redazione di una rivista online, anche questa di classe A: ricordi quel saggio che hai pubblicato due anni fa? Bene, ci serve l’abstract. Ci serve in italiano e in inglese, perché dobbiamo accreditarci presso varie banche dati internazionali. E non dimenticarti le keywords. E poi, scusaci, potresti piantarla di scrivere in italiano? (Questo non lo dicono, ma un po’ me lo immagino). Potresti piantarla di scrivere questi saggi scimmiottando ancora Barthes o Debenedetti? Sei veramente antico. Ormai si scrivono solo papers, con un bell’abstract all’inizio, esposizione chiara della tesi, illustrazione, conclusioni, quod erat demonstrandum. Ti metti al lavoro e intanto pensi a quanto detesti gli abstract, il gergo pseudo-scientifico, i papers di critica letteraria costruiti come pseudo-dimostrazioni di teoremi matematici: “In this paper I will point out…”. E ti dici che in questo mondo uno come Lukács è ormai un marziano, quando descriveva la forma del saggio come un percorso di esplorazione e scoperta, una tensione verso una meta non ricercata, “come Saul, il quale era partito per cercare le asine di suo padre e trovò un regno”.

Il tempo che butti a scrivere l’abstract è fatale. Quando hai finito trovi una colonna di cinque messaggi no-reply di altrettante università in cui lo studente Pinco Pallino ha fatto l’application, segnalandoti come referee per inviare una lettera di presentazione, ovviamente in inglese. Di nuovo chini il capo paziente, vai a spulciare nella cartella del computer in cui hai salvato qualche centinaio di lettere simili, fai un po’ di pastiches e collages e alla fine spedisci, o meglio fai l’upload, dopo avere risposto a varie domande sulla maturità emozionale o sulle capacità di leadership dello studente. Più che altro ti rammarichi di non essere un bravo informatico, perché in tal caso metteresti a punto un software per generare automaticamente lettere di presentazione, ormai lavoro da catena di montaggio, prodotto da industria pesante, immettendo solo nome e cognome dello studente, date, titolo della tesi ecc.

Quando arriva la bozza di un progetto di ricerca del network internazionale in cui non ricordavi di essere stato incluso, 78 pagine fitte fitte (in inglese) con tabelle e citazioni di ranking internazionali per chiedere il finanziamento di un libro e di un paio di convegni, beh, a quel punto scendi al bar sotto casa e ti ubriachi…

Ora, che cos’hanno in comune queste cose, a parte la patetica irrilevanza per il resto del genere umano? Intanto una falsa pretesa di scientificità, come se la crisi dei paradigmi epistemologici in tutti i campi del sapere fosse compensata da un’istanza neopositivista che, in mancanza d’altro, colonizza le pratiche gestionali e organizzative della ricerca. Tutti gli episodi che ho descritto, rigorosamente veri, coniugano un massimo di giudizio soggettivo e inverificabile con un massimo di (finta) oggettività, come se la tragica imperfezione della conoscenza umana potesse essere riscattata dai numeri, dalle percentuali, dai criteri formalizzati o dal gergo anglicizzante (ho appena saputo che d’ora in poi il coordinatore dei progetti di ricerca si chiamerà principal investigator, che è obiettivamente tutta un’altra cosa). Effetto tanto più grottesco, e imbroglio tanto più grande, nell’area dei saperi umanistici, dove la finzione di oggettività è moltiplicata dallo statuto ancora più aleatorio degli strumenti, dei paradigmi e degli stessi oggetti di indagine. Ma possibile che dopo almeno un secolo di slittamenti epistemologici, dubbi sistematici e principi di indeterminazione siamo ancora qui a misurare il sapere con squadra e compasso? E tutto per dimostrare all’Anvur e al ministro di turno che siamo efficienti, produttivi, meritevoli della sacrosanta “quota premiale”?

Il vero problema, infatti, non è tanto epistemologico quanto politico e ideologico. Gli accidenti (in tutti i sensi) della mia vita quotidiana sono minuscoli epifenomeni di un’università che ha seppellito il vecchio modello humboldtiano fondato sul binomio didattica-ricerca e che si è trasformata in una consumer oriented corporation, con un sistema di governo oligarchico e una tecnocrazia capillare che ha avocato a sé i mezzi e i fini, fondata su criteri e parametri come l’immagine, la qualità (nel senso di quality assurance), la competizione, l’attrattività, la soddisfazione del cliente, gli indici di produttività, i premi di produzione e via dicendo. È un sistema di potere miniaturizzato e diffuso, tanto stupido quanto efficace, non riconducibile a singole teste pensanti (?) ma disseminato in una microfisica di pratiche quotidiane di cui siamo al tempo stesso attori, vittime e complici. E come sempre, quanto più piccole e insignificanti sono le pratiche (in fondo che ci vuole a scrivere un abstract o una lettera di raccomandazione?) tanto più lo slittamento è fluido, l’assuefazione inavvertita, l’ottusità interiorizzata come una seconda natura. E intanto la bêtise diventa la forma stessa del nostro pensiero.

betise 1

Flaubert ce l’ha insegnato – ed è la più grande scoperta del XIX secolo, secondo Milan Kundera. La bêtise non ha dentro né fuori: è mimetica e astuta: si traveste e si contamina con l’intelligenza (la stupidità intelligente descritta da Robert Musil), e dopo un po’ non la riconosciamo più. Sta nel gergo, nella parola d’ordine, nella citazione di seconda mano, nel sapere meccanico e riproducibile, nella regola applicata a testa bassa, nel luogo comune da cui siamo parlati. La bêtise è la parodia del sapere, il suo involucro, la sua scorza esteriore. È la grancassa di chi ostenta la verità e ne fa un’arma di consenso politico e sociale. La sua tattica di base è pervertire le parole, mutarne il senso, farne segni vuoti senza referente (eccellenza, merito, valutazione…), ricodificare un dizionario di luoghi comuni con cui astrarre e semplificare l’infinita complessità del reale, rendendolo duttile, operabile, infinitamente convertibile, manipolabile a volontà secondo gli interessi del momento. Per questo il vero eroe di Madame Bovary è Monsieur Homais, il farmacista, l’unico che alla fine trionfa in questo romanzo feroce che non descrive tanto le disavventure di una romantica delusa (mai luogo comune fu tanto astuto e beffardo, povero Flaubert!), quanto le avventure e il successo travolgente della bêtise borghese, di cui Emma è al tempo stesso vittima e incarnazione. Non a caso, l’ultima parola del libro è per Homais: “Depuis la mort de Bovary, trois médecins se sont succédé à Yonville sans pouvoir y réussir, tant M. Homais les a tout de suite battus en brèche. Il fait une clientèle d’enfer; l’autorité le ménage et l’opinion publique le protège. Il vient de recevoir la croix d’honneur”.

Lo dico con la morte nel cuore, ma se guardo l’università che mi sta intorno la constatazione è inevitabile: il Professor Homais ha vinto. Ha stravinto. Scommetto che il ministero gli conferirà la prossima “quota premiale”.

Testo precedentemente apparso su Le parole e le cose.

Print Friendly, PDF & Email

19 Commenti

  1. Ahhh!!!

    Universitari siate seri… ma non troppo…

    Garibaldi ormai famoso visitò Perugia (credo non riesco a controllare) fece il solito bel discorso, salutò la folla e andò a dormire, ma le acclamazioni dei perugini di sotto non si placavano, lo acclamavano e Garibaldi uscì di nuovo sul balcone e disse con la sua voce calma e tranquilla, famosa sui campi di battaglia, Perugini siate seri, è tardi, andate a dormire… ed i Perugini andarono a dormire.
    Che dire del secondo dei Mille: Nino Bixio? Famoso combattente che a Roma nel 1849 in assalto furioso a Villa Corsini dove muore Masina con i suoi cavalieri che galoppano sullo scalone di ingresso, dove è ferito a morte Mameli (suo fraterno amico) e tanti altri, Lui Bixio “ha forato da dieci palle il suo cavallo, si slancia a piedi, né posa, né ritorna sino a che lacerato anch’egli da profonda ferita all’inguinaia e impotente a reggersi è trasportato all’ambulanza e gridava: -scrivete a mio fratello…che una palla francese mi ha ferito qua…-”. Bixio, è un caso eccezionale, durante la spedizione dei Mille pare facesse prenotare per sé e per le sue truppe tutti i bordelli lungo la strada: non sempre amato dai suoi uomini, in questo caso adorato…
    Ma come guarì Bixio all’inguinaia (Orcid), forse con Ficam? Ma era un prodotto conosciuto ai suoi tempi? Occorre fare una ricerca approfondita, poi relaziono..
    Complimenti per l’articolo: ma quando mille universitari Orcid manderanno a casa i nuovi borbonici: MIUR ed ANVUR? Quando un nuovo Garibaldi e Bixio? O gran bontà dei cavalieri antichi…!

    • Credo che i Rettori abbiano da tempo rinunciato al ruolo di custodi della liberta’ didattica e di ricerca, affidato loro dalla tradizione, per ridursi a banali superiori gerarchici. Complimenti per l’analisi

  2. L’ottimo articolo di Bertoni che ancora una volta mostra l’importanza del contributo delle scienze umane (morali, come le chiamano ai Lincei) nell’affrontare i problemi della vita, pone, tra le tante, alcune questioni.
    1. L’università italiana, quasi millenaria, dopo aver superato infinite peripezie, sopravviverà agli attacchi del sistema neo liberale che, tutto sommato, ha solo un paio di secoli di vita (a Roma si direbbe “so’ regazzi, li stracciamo”)?
    2. Visto che la leadership politica italiana degli ultimi decenni non ha la minima idea di cosa sia la cultura, la ricerca, l’insegnamento universitario, e che la struttura burocratica del MIUR sia ancora peggiore, chi sono i “traditori” accademici che hanno affiancato ed affiancano i politici nello sgovernare la ricerca e l’università? Per esempio, i rettori sono amici o nemici dell’università? Sono forse loro rappresentanti della “travolgente bêtise borghese, come Emma che è al tempo stesso vittima e incarnazione”?
    3. Nel campo della valutazione il nostro paese appare come l’Austria vista da Napoleone, “E’ sempre in ritardo: di un anno, di un esercito, di un’idea”. Il modello attualmente dominante in tanti campi è quello americano: ma perché gli americani non hanno niente che somigli all’ANVUR, non sono ossessionati dalla valutazione, e non tagliano i fondi alle università e noi, provinciali ritardatari, facciamo tutto questo?
    4. Paolo Sylos Labini diceva degli italiani: “10% ottimi, 10% pessimi, il resto … mancia” (Alessandro Roncaglia,” In ricordo di Paolo Sylos Labini. L’etica dell’economista”, Critica Liberale, 4 gennaio 2016). L’articolo di Bertoni a chi è diretto? Sarebbe utile se raggiungesse il restante 80%, visto che con gli ottimi sfonda una porta aperta e che i pessimi non lo prenderanno neanche in considerazione. Ma l’80% degli italiani, o almeno una sua quota significativa, sarà disposto a mobilitarsi per ridare fiato e dignità alla ricerca e all’università dopo dieci secoli? Distrutta l’università, o ancor peggio mantenuta in vita ma asservita a parvenu senza quarti di nobiltà, non credo proprio che vivranno (vivremo) felici.
    5. Bertoni dice: “I Cfu risultano dalla somma tra le ore di ‘lezione frontale’ e le ore di ‘studio individuale’, come se fosse possibile conteggiarlo e uniformarlo? Perché nessuno ha chiamato la neuro quando una qualche commissione di ‘saggi’ ha escogitato questa trovata?”. E’ plausibile ritenere che questi ‘saggi’ siano – come sempre – professori universitari che trovano bello farsi qualche viaggetto a Roma, vantarsi con i colleghi del proprio ruolo e trarre vantaggio dalla “posizione di potere” acquisita. Dunque uno dei virus del sistema è proprio dentro l’università dove alla fine ci si copre a vicenda ed al contempo ci si detesta (è l’università, bellezza!). Conseguenza: nessuno chiamerà mai la neuro.

  3. Esiste una cosa chiamata “descrittori di Dublino” che permetterebbe di calcolare la quantità media di studio da erogare al discente. Il nostro sadico coordinatore ci ingiunse minacciosamente di attenerci all’analisi dei descrittori di Dublino al momento di stabilire i programmi d’esame.
    A quanto pare le menti di alcuni soloni si sono affaticate per stabilire questo incredibile parametro, senza il quale le università europee osavano esistere da circa ottocento anni.

  4. @Giorgio Sirilli: Anche Oxford e Cambridge sono quasi millenarie, sono decenni che li’ gli accademici lavorano così’, e sono sopravvissuti agli attacchi del sistema neo-liberale. Magari potrebbe farlo anche l’università’ italiana…

    • Didacus74: “Oxford e Cambridge sono quasi millenarie, sono decenni che li’ gli accademici lavorano così’, e sono sopravvissuti agli attacchi del sistema neo-liberale”
      _______________________
      Non così bene, se nel 2012 gli accademici locali hanno sentito il bisogno di istituire il “Council for the Defence of British Universities” che, guarda caso, ha tra i suoi fondatori due accademici provenienti proprio da Oxford e Cambridge: lo storico Historian Keith Thomas (fellow of All Souls College, Oxford, and a former president of the British Academy) e l’astrofisico Martin Rees (emeritus professor of cosmology and astrophysics, fellow of Trinity College, Cambridge, and astronomer royal), i cui interventi erano stati pubblicati su Times Higher Education:
      https://www.timeshighereducation.com/features/fidei-defensores/421722.article?storycode=421722


      Noi di Roars siamo italiani e invece che evocare “fidei defensores” in armatura abbiamo messo un gattino nel logo. Si fa quel che si può.
      ________________
      A parte gli scherzi, in virtù delle politiche della Thatcher, il Regno Unito è stato l’epicentro del terremoto neoliberista che ha scosso le università. Non è difficile trovare articoli che denunciano lo strapotere dei manager e la crescente subordinazione del corpo docente a logiche aziendali (“Time to cry Out for academic freedom”, http://www.nature.com/news/time-to-cry-out-for-academic-freedom-1.18813), fino ad arrivare a controversi provvedimenti disciplinari verso docenti “non allineati” che hanno avuto risonanza internazionale: https://www.timeshighereducation.com/cn/news/global-outrage-over-suspension/421530.article.
      Chiudo con una citazione da un articolo – sempre riferito al Regno Unito – che già nel titolo si pone una domanda del tutto attuale:
      ________________
      Today’s intellectuals: too obedient? (Times Higher Education, 28.08.2014)
      ________________
      “Academics at large do not entirely lack courage nor a training in critical opposition. But ours is a docile polity and those same academics prove mostly incapable of concerted self-organisation. Large numbers are only too ready to turn away when faced by the serpent and its dreadful, tedious offspring on the management teams, and bend their heads back to their research, sticking their fingers in their ears when the distant bugles sound the danger signal.”

  5. E’ possibile alzare una voce fuori dal coro dei commenti?
    Al di là dell’elegante prosa e della piacevole ironia, condivido poco il post di Federico Bertoni. Concordo con la critica al verticismo prodotto dalla 240/2010 e sull’ insopportabile ipertrofia burocratica cui siamo sottoposti da ANVUR, ma sinceramente, perché dovrebbe essere un motivo di insofferenza e frustrazione scrivere un abstract in inglese od una lettera di referenza a favore di uno studioso? E perché dovrebbe essere ingiusto individuare parametri che consentano di valutare il lavoro dei docenti universitari, anche di coloro che “…..vorrebbe solo studiare e insegnare in santa pace….”.
    Personalmente non credo che valutare la qualità del lavoro e l’impegno di un professionista, un operaio, un impiegato, un autista, un avvocato, un professore universitario sia inaccettabile; è eventualmente inaccettabile il metodo che a questo scopo per l’Università viene utilizzato.Credo si debba distinguere l’obiettivo dal metodo utilizzato per raggiungerlo e penso che la valutazione sia, in termini ideali , uno strumento di crescita e di miglioramento e non di vessazione anche per le Università .

    • @tonymig: la questione e’ semplice al di la’ della falsa contrapposizione valutazione si’/valutazione no. La valutazione non puo’ essere un fine. Deve restare un mezzo per migliorare quello che esiste. Se diventa uno strumento per ridurre la capacita’ di formazione universitaria o anche solo una sottrazione importante di tempo e risorse alle attivita’ istituzionali che vorrebbe valutare e’ giusto metterla in discussione e anche arrivare a rifiutarla!

      In questa situazione, in cui non ci sono dubbi circa l’ identificazione con uno strumento di vessazione, appellarsi ad una teorica superiorita’ dei fini a che serve ? Ha una qualche utilita’ pratica separare il modo dal fine ?

      Personalmente non posso dare un giudizio sulla valutazione in astratto ma solo su *una determinata procedura di valutazione*. Se e’ fatta in modo tale da fallire nello scopo il giudizio sara’ pessimo indipendentemente dalla bonta’ dei fini.

      E’ dai tempi dell’ approvazione della legge 240 che i “benpensanti” tra i colleghi continuano a ripetere come un mantra che “il meglio e’ nemico del bene”. Ma il “bene” dove si e’ nascosto ?

  6. Può un Ingegnere sottoscrivere in toto l’analisi di un Umanista? Si. Può e deve sottoscrivere. Se una comunanza di vedute è così trasversale, perché il SISTEMA è totalmente succube di queste insane pratiche?

    • No. Non lo farà mai. Perché il modello del 3+2 (o 2+3, o 2+2 che sia), come pure l’idiozia (nei corsi umanistici) che un esame a scelta, sostenuto una sola volte nel quinquennio, non può essere scelto al di fuori del 3 o del 2 di appartenenza (per questioni di livelli di apprendimento concepiti come rigorosamente étanches e ingegneristicamente graduati, come una scala) proviene dai corsi di ingegneria. Per quel che so.
      “Il sistema succube” … meglio: la comunità accademica (fatta concretamente di donne ed uomini), benché mugugnante (in privato, fuori verbale ecc.), succube al 90%. La banalità della mancanza di orcid. In tutti i sensi, anche in quello non traslato, ché non costa niente (10′ al massimo) informarsi, se non altro per pura curiosità, su che cos’è l’Orcid e qual è la sua utilità (ma di nuovo, per i non umanisti). A me, a dire il vero, mi fa venire in mente sempre Orco.
      Oggi, tanto per non cambiare, hanno riparlato, forse sulla 7, del caso Bari (clientelismo, nepotismo e compagnia bella). Hanno intervistato il rettore, che ha dichiarato che hanno introdotto (per concorsi , commissioni), l’impossibilità che parenti (fino a non so quale grado, forse quarto) giudichino parenti. Ma guarda che grande novità! Conflitto di interesse? – mai sentito. Sembrava una presa in giro.

    • Io non farei di tutta l’ erba un fascio. Critiche totalizzanti in cui si mette nello stesso conto e sullo stesso piano 3+2, CFU, lettere di presentazione, dipartimenti (peraltro fuorilegge) eterogenei al massimo, accanimento burocratico …, non credo facciano bene e potrebbero/dovrebbero lasciar posto ad analisi un po’ più oggettive delle ragioni che hanno portato a certe scelte, rivedendole, se necessario, ma sempre e solo a seguito di un’ analisi critica che non ignori anche il confronto con altri paesi, Alcuni dei quali con tradizioni molto simili alla nostra.
      .
      Anche in quest’ottica, la VQR (non la valutazione!) spicca per la sua “singolarità”:
      .
      1. non ha analoghi nel mondo;
      2. non è un tassello della gestione di Corsi di Studio, ne’ costituisce un incentivo al miglioramento della Ricerca, incentivando al più comportamenti opportunistici;
      3. sottrae risorse (in termini di tempo e soldi) ad attività di ricerca e di didattica;
      4. nasconde (poco e male) un vero programma di riduzione della capacità di formazione terziaria nel nostro Paese.
      .
      In questo senso, non è un problema di origine in un’ area o in un altra. Il problema è costituito da quelli tra noi che si illudono di poter stare “dalla parte del vincitore” (indipendentemente se sino fisici, matematici, igegneri, storici, filosofi,…) in un gioco al massacro che potrà avere solo un unico vinto: il sistema universitario italiano.

    • Giorgio Pastore ha totalmente ragione e risponde alla mia iniziale domanda retorica. Ognuno vuol essere più furbo del vicino ed alla fine usciranno entrambi sconfitti. Anche qualcuno di ROARS che si ostina a criticare nel merito l’ANVUR non accorgendosi che così si fa solo il suo gioco.

    • Se devo decidere se dare retta ad un valutatore, può aiutare sapere che costui contempla la divisione per zero (https://www.roars.it/matematica-senza-tabu-funzioni-e-utilita-della-sua-rd-iii-e-ultimo-capitolo/), crede nell’esistenza delle frazioni superiori (https://www.roars.it/ancora-sulle-competenze-matematiche-dellanvur/) e ritiene che la mediana abbia una definizione che “pur univoca, lascia però un importante punto di ambiguità” (https://www.roars.it/anvur-non-potuto-fare-altro/). E aiuta sapere che è stato nominato nel consiglio direttivo un collega di cui, nei verbali della Commissione cultura, è scritto:
      _______________
      Rileva, in particolare, relativamente alla nomina del professor Miccoli, che il voto contrario è dovuto al fatto che, come documentato su www. roars.it, le linee programmatiche di Miccoli contengono estratti letterali – non virgolettati – provenienti da quattro testi di altri autori da lui non citati
      http://documenti.camera.it/leg17/resoconti/commissioni/bollettini/pdf/2015/09/24/leg.17.bol0510.data20150924.com07.pdf
      ________________

      A me sembrano informazioni che aiutano a capire chi e cosa abbiamo di fronte e a prendere una decisione consapevole. Io vedo ancora molti colleghi convinti che *questa* valutazione non sia così male, dopotutto. E allora mi viene da pensare che sia veramente necessaria una critica nel merito. Se in un marchingegno che dovrebbe realizzare il moto perpetuo, scopro dove stanno nascoste le pile, non ho bisogno di lunghe spiegazioni di termodinamica (che non tutti capiscono). Mostro le pile e l’inganno diventa evidente a tutti.

  7. Si hai ragione occorre distinguere tra valutazione e metodo di valutazione: ma come un’opera d’arte nell’estetica crociana è sintesi di forma e contenuto, così per la valutazione non si può prescindere tra fine e metodo. I metodi ANVUR (MIUR) sono dei metodi illogici, irrazionali, controproducenti: quartili con cui si valuta un contenitore per il contenuto (pure il TAR lo ha capito…), periodi temporali esaminati cervellotici e più casuali che causali, abilitazione scientifica ma non didattica, nessun esame della paternità degli articoli scientifici a più nomi e via di seguito…
    Mi viene in mente il taylorismo, il fordismo, il sistema bedaux, sull’organizzazione scientifica del lavoro: perché non applicarlo all’università (didattica e ricerca): la valutazione è ex-post, l’organizzazione scientifica del lavoro è ex-ante, qualcuno direbbe molto meglio… Mi diverte molto immaginare il sistema bedaux, superato dalla storia, applicato all’Università… non dubito che ci capiterà pure questo…
    Io non ho alcun timore ad essere giudicato e valutato, gli studenti mi giudicano in ogni momento che faccio lezione, e tra i miei lavori uno che considero tra i migliori è un testo UTET (didattico?) sulla Meccanica Agraria. Vale zero per l’ANVUR & Comp., ma secondo me l’ANVUR & Comp non sa fare il suo lavoro… quello che è peggio che sta rovinando quello di buono che c’è ancora nelle Università statali italiane.
    Mi fa ridere che il fordismo della catena di montaggio, messo in ridicolo da quel grandissimo genio di Chaplin in Tempi moderni, era ispirato alla catena di montaggio della macellazione degli animali ai macelli di Chicago… Per fortuna tutto passa, meno la stupidità degli esseri umani.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.