Dopo gli approfonditi contributi dei colleghi Giovanni Colombo e Andrea Stella al dibattito sui test d’ammissione avviato con l’articolo di Ferdinando Camon, vorrei proporre una riflessione da un punto di vista diverso, partendo dall’art. 34 della Costituzione, che dice: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Una formulazione semplice e apparentemente impeccabile, ma che oggi richiede di riflettere più a fondo su questa parolina, “meritevoli”. Possiamo farlo a partire da un recente libro dell’economista americano Robert Frank, Success And Luck, che ha per sottotitolo Good Fortune and the Myth of Meritocracy, dove troviamo una lunga serie di analisi del ruolo della fortuna nel successo personale, in tutti i campi.
Per esempio, il 40% dei giocatori professionisti di hockey nel mondo è nato in gennaio, febbraio o marzo, mentre solo il 10% è nato tra ottobre e dicembre. Perché? Il predominio dei giocatori nati nel primo trimestre dell’anno dipende dal fatto che i test nelle leghe giovanili vengono fatti il 1° gennaio. Questo significa che quest’anno, per esempio, sono stati selezionati per entrare in squadra i ragazzini nati fra il 1 gennaio e il 31 dicembre 2000: ma tra i sedicenni c’è una differenza significativa nel peso, nell’altezza, nella velocità di chi ha 12 mesi di più (i nati il 1° gennaio 2000) e chi ha 12 mesi di meno (i nati il 31 dicembre 2000). Chi ha 12 mesi in più non è “più bravo”, è semplicemente “più adulto” a confronto con compagni di squadra che il caso ha fatto nascere qualche mese dopo di lui.
Per un fenomeno ben noto agli economisti che si chiama positive feedback loop (ovvero fattori positivi che si rafforzano l’un l’altro), i nati il 1° gennaio appaiono agli allenatori più forti e più promettenti, quindi ricevono più attenzioni, fanno più esperienza, il che si traduce in effettivi miglioramenti: diventano più bravi non grazie al talento naturale (che ci vuole) o alla dedizione allo sport (obbligatoria) ma grazie alla data di nascita. O, meglio, grazie al circolo virtuoso che talvolta essa innesca: ci sono molti altri studi sul rapporto tra risultati scolastici e data di nascita.
Secondo l’economista Branko Milanovic, che in libri come Worlds Apart e Income and Influence ha analizzato il luogo di nascita e la disuguaglianza come fattori determinanti nelle opportunità di carriera di una persona, metà delle differenze di reddito individuali dipendono da questi elementi casuali . Il tema è stato affrontato anche da Robert Putnam nel suo ultimo libro, Our Kids, dove descrive i percorsi di vita di alcuni suoi ex compagni di scuola, nati come lui a Port Clinton, in Ohio, ma assai meno fortunati di lui nelle loro carriere.
Prendiamo il caso di Bill Gates, l’uomo più ricco del mondo con i suoi circa 89 miliardi di dollari di patrimonio personale. Robert Frank si occupa di lui perché è nato nel 1955 ed è andato alle superiori esattamente nel momento – la fine degli anni Sessanta – in cui i computer abbandonavano le schede perforate e iniziavano a diventare delle macchine più “amichevoli”. Il talento e la determinazione di Gates non avrebbero dato gli stessi risultati se la famiglia non lo avesse iscritto a una scuola privata dove gli studenti avevano un accesso illimitato ai computer e potevano esercitarsi nella programmazione, cosa allora rarissima. Senza queste condizioni di partenza, forse Gates si sarebbe dedicato ad altro, o la sua passione per l’informatica non avrebbe dato come risultato la Microsoft: ha avuto una dose di fortuna che molti altri piccoli geni dell’informatica, altrettanto intelligenti e meritevoli, non hanno avuto.
Perché è importante guardare alla fortuna e alla provenienza familiare quando si discute dei test? Perché la gran parte degli atenei opera sulla base di considerazioni come questa del prof. Giovanni Colombo: “I nostri test [dell’area scientifica NdR] sono stati ampiamente validati dall’analisi della carriera degli studenti: la correlazione tra l’esito della prova di ammissione e quello degli esami del primo anno è fortissima, ad esempio molto più alta del voto di maturità”.
Purtroppo, questa correlazione non significa nulla sul piano dell’equità: chi viene da un ambiente familiare e scolastico privilegiato farà meglio nel test così come negli esami del primo anno, che si svolgono nove mesi dopo. Se ho passato i primi 19 anni di vita in una casa con una tata svizzera, dove si leggevano molti libri e giornali, con dei genitori che mi portavano al cinema, al museo, in vacanza a Parigi o in gita a New York e mi facevano prendere lezioni di piano è assolutamente certo che farò bene nel test di logica e di cultura generale. Per esempio saprò rispondere esattamente alle domande su quale città abbia ospitato l’Esposizione universale del 1900 (Parigi), su cosa fosse il piano Marshall (un programma di aiuti americani all’Europa) e sull’oscuro quotidiano italiano Il Riformista (nato nel 2002 e chiuso nel 2012). Questi esempi sono tratti dai test di medicina 2015 e 2016. Probabilmente farò bene anche nei test di matematica e biologia, a meno di non essere totalmente inetto o il più pigro degli 80.843 candidati dell’anno scorso.
Prendere in conto il fattore fortuna e provenienza familiare nelle politiche di accesso all’università significherebbe, per esempio, cercare delle strategie per attenuare le inevitabili differenze ponendosi il problema di aiutare chi è nato sulla Sila (Calabria) anziché in via del Santo (Padova), chi va a scuola a Scampia (Napoli) invece che in via della Spiga (Milano). A dire la verità, qualcuno a suo tempo ci aveva pensato: nella Costituzione sta scritto (art. 3): “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
Non ho ricette dettagliate da proporre: l’intera questione andrebbe ripensata. L’anno scorso l’ex rettore di Bologna Ivano Dionigi aveva dichiarato: “Il test non basta. Credo che un colloquio sarebbe importante, ma per 10.000 ragazzi vorrebbe dire strutture, personale, laboratori, risorse, investimenti che non ci sono. Quello del test è un ripiego frettoloso da scuola-guida che serve a lavarsi la coscienza e a risparmiare. Laddove la scuola fosse la priorità allora ci sarebbero un colloquio, una prova scritta, il test, e si terrebbe conto del curriculum dello studente”.
Avendo ben presente lo stato in cui i successivi governi hanno ridotto i nostri atenei, e la difficoltà per concepire e mettere in atto soluzioni alternative, dico comunque che il “ripiego frettoloso da scuola guida” offerto dai soli test non è accettabile: qualsiasi politica pubblica, quindi anche quelle dell’università, deve obbedire al precetto costituzionale di rimuovere gli ostacoli che limitano o negano il pieno sviluppo della personalità di molti giovani. Se non lo facciamo, limitandoci ad ammettere chi fa bene in un test che, per sua natura, privilegia chi è già privilegiato rafforziamo le disuguaglianze, sprechiamo talenti nascosti, tradiamo lo spirito della Costituzione.
Forse dovremmo discutere molto di più di questo sostanziale aspetto dell’università italiana: gli studenti e chi potrebbe esserlo!
Ormai la logica è questa: si premiano sempre quelli che sono già gravi.
Così il paese resterà maglia nera OCSE con il suo 26% di laureati tra i 15 e i 34 anni, contro la media EU del 40%, mentre ci si accorgerà che molti studenti (i migliori e soprattutto dal sud e isole) stanno già andando a studiare all’estero perché costa meno andare a Londra che a Milano.
Così anche per i Dottorati, drasticamente ridotti in Italia.
Siamo tornati ad essere un paese esportatore di manodopera, l’unica materia prima di qualità di cui dispone il paese.
Test, colloqui? Ma se continua l’attuale scadimento della scuola superiore la quantità di lacune che ogni studente si porta dietro non sarà più colmabile. Mi fa ridere un sistema di istruzione che si autodistrugge e poi spranga l’accesso all’università in modo che solo pochi siano comunque in grado di proseguire.
Ma di cosa stiamo parlando? Sempre la solita storia, ovviamente nordamericaneggiante, di togliere qualcosa a tutti per lasciarne indietro il più possibile.
Il circolo è vizioso: si investe sempre meno in reclutamento e si scoraggiano i ragazzi dall’iscriversi di modo che il peso della formazione universitaria sia ridotto e i pochi studenti dirottati su ingegneria, economia e medicina (questi a loro volta rarefatti e controllati).
E’ un progetto suicida, antidemocratico, imposto da una classe politica serva e inadeguata. Con tutti i nostri difetti, 30 anni fa stavamo messi molto meglio e occorre riflettere su come una propaganda ben organizzata riesca in pochi decenni a creare guasti così radicali.
Ed anche una riflessione sulle materie umanistiche: la volontà di raderle al suolo è palese, dato che per esse non servono affatto giganteschi investimenti, laboratori e chissacché ma buone biblioteche, qualche strumento e semplice ricambio nel reclutamento. Il modo in cui molti si sono riciclati da umanisti a erogatori di corsi di spettacolo e immagine fa capire che una parte della classe docente è stata pronta ad autosqualificarsi nel nome di ‘non serviamo più’. Questo è un progetto di genocidio culturale che investe non solo l’Italia ma l’Europa intera: congedare lo studio del proprio passato, del bello, di arti e letteratura facendo credere che non serve o al massimo serve se può far soldi con il parco culturale multimediale.
Un continente così, se non cambia in fretta, ha poco futuro.
Da Ingegnere, esprimo il mio totale accordo.
come non essere d’accordo con indrani maitravaruni?
In realtà molti sono concentrati sulle proprie carriere: della formazione degli studenti non importa proprio a nessuno, persino agli studenti trasformati in clientes, cooptati nel sistema per il tempo in cui il sistema ha bisogno di loro…
Semplicemente non bisognerebbe farli proprio i test..
L’introduzione dei test (per i motivi illustrati nell’articolo, e per molti altri motivi) serve esattamente a violare l’articolo 3 della Costituzione.
Un individuo non dovrebbe mai essere penalizzato per il fatto di essere nato in una famiglia dove nessuno aveva dimestichezza con i libri.
Il sottoscritto, tanto per intenderci, è nato in una famiglia dove il capo-famiglia portava in casa quattro quotidiani al giorno, e la casa era strapiena di libri di ogni tipo (comprati dallo stesso…). Ho avuto però amici molto stretti provenienti da famiglie sia proletarie che alto-borghesi, ho preparato, da studente universitario, esami assieme a figli di braccianti agricoli poveri (che non sarebbero mai potuti andare all’università senza le facilitazioni in vigore a quei tempi) sia assieme a figli di ricchi commercianti. Credo quindi di sapere di cosa parlo.
Per quella che è la mia opinione, la presenza o meno di libri in casa (e quindi la supposta ‘dimestichezza coi libri’) o l’importanza relativa data in famiglia alla cultura, ha un effetto contrastante e complessivamente molto blando sulla persona. Una cosa che invece ha molta importanza, in termini di avvantaggiare le persone ALL’INIZIO, cioè nel senso di una maggiore ‘precocità’, è la padronanza dell’Italiano, nel senso che le persone nate in famiglie in cui si parla solo il dialetto locale sono nettamente svantaggiate rispetto ad altre, anche meno intelligenti, ma nate in famiglie dove si parla l’italiano in casa.
Tuttavia, queste differenze, dopo una maggiore difficoltà INIZIALE dei soggetti più svantaggiati sono SEMPRE superate, in seguito AMMESSO CHE GLI SE NE DIA L’OPPORTUNITA’….
Ed è proprio questo che un meccanismo tipo ‘test’, che sbarra l’accesso all’inizio, come ogni meccanismo draconiano, che esclude una volta per tutte, senza appello, è ESATTAMENTE ciò che CREA il problema. E’ un meccanismo secondo me, perverso, razzista e criminale..
Facciamo il punto. Ai docenti di università non viene più richiesto un compito formativo a una coscienza critica per gli studenti, quanto invece di “erogare un servizio agli utenti”, neanche si fosse dei rubinetti. E questo, ormai, anche per quanto attiene al sapere umanistico, a cui l’Università di Milano ha imposto il numero chiuso (definito “programmato” per addolcire la pillola), con buona pace per il diritto allo studio garantito dalla Costituzione nonché per la posizione dell’Italia, ultima tra i paesi OCSE per numero dei laureati rispetto alla popolazione. Motivazioni “tecniche” alla base di questo numero chiuso, non politiche: infatti se le domande di immatricolazione agli studi umanistici sono troppe rispetto all’offerta, non sia mai potenziare i corsi, meglio ridurre il numero degli iscritti.
Per la valutazione della ricerca le pubblicazioni (ma è diventato più corretto chiamarle “prodotti”, il burocratichese suona meglio) non contano quasi più per la loro qualità intrinseca. Piuttosto, si considerano il rango della rivista in cui esse appaiono (classe A o no) e il presunto prestigio (o notorietà) delle case editrici. Esattamente come valutare un prodotto in base alla scatola che lo contiene e non lo stesso in sé e per sé. Tale pratica e la bibliometria da strumento di valutazione per ASN, si sono estese alla VQR degli atenei e dei singoli dipartimenti; ma non solo: anche per l’individuazione dei migliori ricercatori e PA a cui elargire fondi per la ricerca individuale così da scatenare, tra l’altro, lotte intestine tra colleghi alla faccia della decantata cooperazione scientifica. E nemmeno basta, perché le pubblicazioni in classe A sono diventate, con imposizione retroattiva, necessarie per continuare ad afferire ai dottorati. Chi ne fosse privo o ne avesse in numero insufficiente in relazione alla propria fascia di docenza, non viene più considerato degno di insegnare ai livelli massimi dell’istruzione italiana.
Constato che quanto riportato sopra viene condiviso dal 90% di chi scrive o commenta su ROARS. Sito che è, purtroppo, solo un’isola felice in mezzo a una palude di acqua putrida. Nel mio corso di laurea, dipartimento e persino ateneo tutto questo viene digerito senza alcuna voce critica a dissenso. Né mi sembra che nel resto del paese la situazione sia poi tanto diversa.
La Statale milanese è, fra gli atenei appecoronati che naturalmente sono ormai la netta maggioranza (per non dire la quasi totalità), uno di quelli maggiormente di regime/più ligi e devoti al pensiero unico/più piddinamente=pidiellianamente militarizzati; impressionante, giusto per fare un esempio, è in questo senso la deriva del dipartimento di filosofia.
Altra sede fra le più zelanti verso il regime è Ca’ Foscari, fin dalla gestione del penultimo rettore, (guarda caso) economista
qualche amara riflessione: http://genova.repubblica.it/cronaca/2017/06/25/news/universita_perche_mi_sono_arreso-169065430/