Ferdinand de Saussure nel 1891: “[Una lingua] Il solo modo che abbia di cessare, è […] per imposizione di un nuovo idioma […]; generalmente ci vuole non soltanto una dominazione politica, ma anche una superiorità di civilizzazione, e spesso ci vuole la presenza di una lingua scritta che viene imposta dalla Scuola, dalla Chiesa, dall’amministrazione… e attraverso tutti i canali della vita pubblica e privata. È un caso che si è ripetuto cento volte nella storia“. La morte di una lingua è infatti determinata dalla sua rinuncia ad essere usata nelle diverse situazioni comunicative, soprattutto poi se si tratta di contesti culturalmente alti, per essere sostituita con un’altra. Il ricorso obbligatorio all’inglese può forse essere giustificato nel caso di temi di ricerca non strettamente legati alla cultura italiana (certamente molto meno, per es., per una ricerca nell’ambito della storia dell’arte italiana, o di più per una ricerca scientifica sulla “Origine del mondo”) e in considerazione del fatto che i valutatori delle domande possano essere stranieri. Ma non è accettabile, come nell’attuale bando PRIN, che l’inglese sia l’idioma Alto, di serie A, (obbligatorio) rispetto all’italiano, idioma Basso, di serie B (facoltativo). Oppure il Ministro sia più coerente e in nome delle pure ragioni tecniche dell’inglese veicolare, elimini del tutto l’italiano, e rimetta in gioco il bando in inglese, e d’ora in poi solo in inglese. Proprio come i bandi europei scritti in inglese (e quindi con domande in inglese).

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

L’antefatto
Il 27 dicembre 2017 il MIUR, con a capo il ministro (o la ministra?) Valeria Fedeli, ha pubblicato il bando per il nuovo Prin, il cui art. 4 comma 2 così recita: “La domanda è [leggi: ‘va’] redatta in lingua inglese; a scelta del proponente, può essere fornita anche una ulteriore versione in lingua italiana.”

La frase eufemisticamente all’indicativo in realtà con valore imperativo è sinceramente preoccupante. Che il ministro imponga l’uso di una lingua straniera (estranea cioè agl’italiani, non-nativa) in casa propria, scavalcando la lingua nazionale e ufficiale, in quanto anch’essa parte del patrimonio artistico e culturale della nazione (art. 9 della Costituzione), lascia decisamente senza parole. Al punto da aver suscitato diverse reazioni negative, tra le quali quella del presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini (“Il MIUR dà un calcio all’italiano”).

Un Ministro sordo e cieco alle ragioni della Politica
In una sua lunga lettera dello scorso sabato 6 a <Quotidiano.net> (ripresa in più siti) il(la) Ministr-o(a)) risponde a Marazzini, venendo allo scoperto e così mostrando – paradossalmente – la sua sordità e cecità alle ragioni della Politica del tutto subordinate a quelle tecnico-scientifiche (l’obbligatorietà dell’inglese nella redazione della domanda, giacché “È la lingua usata dai ricercatori”, e la facoltatività dell’italiano).

Banalizzazione del problema della scelta (politica) della lingua
Fin dall’inizio della risposta il problema della scelta della lingua è svalutato dal Ministro  e banalizzato ovvero giudicato “una questione, obiettivamente non rilevantissima, che è relativa alla sola redazione delle domande”.

Si arriva, quasi giocando con le parole, a negare l’obbligatorietà dell’uso dell’inglese con la sola facoltatività dell’uso dell’italiano nella redazione della domanda, là dove si afferma che “parlare di imposizione di un testo unicamente in lingua inglese non risponde a verità”.

Le ragioni tecniche appaiono prioritarie rispetto a quelle della politica.
La priorità delle ragioni tecniche prevalgono nettamente, per il Ministro, su quelle della politica là dove si dichiara, che “la redazione obbligatoria delle domande in lingua inglese appare funzionalmente indispensabile” e che “l’inglese è, semplicemente, la lingua veicolare della comunicazione internazionale”.

Morte di una lingua
Non attribuiamo naturalmente al Ministro alcuna colpa per non aver conseguito, come del resto altri ministri, una laurea (di qualunque tipo), e per non aver potuto frequentare un corso di linguistica generale, ma i suoi consulenti e ghostwriter l’avranno certamente ben informata che la vita di una lingua dipende unicamente dal suo uso, dai suoi usi. Lo ricordava, per citare qualcuno, Ferdinand de Saussure nel 1891: “[Una lingua] Il solo modo che abbia di cessare, è […] per imposizione di un nuovo idioma […]; generalmente ci vuole non soltanto una dominazione politica, ma anche una superiorità di civilizzazione, e spesso ci vuole la presenza di una lingua scritta che viene imposta dalla Scuola, dalla Chiesa, dall’amministrazione… e attraverso tutti i canali della vita pubblica e privata. È un caso che si è ripetuto cento volte nella storia”.

Ghettizzazione della lingua
Meno una lingua si usa, e meno essa è vitale. La morte di una lingua è infatti determinata dalla sua rinuncia ad essere usata nelle diverse situazioni comunicative, soprattutto poi se si tratta di contesti culturalmente alti, per essere sostituita con un’altra. Più sono rilevanti i contesti (come sono quelli scientifici) in cui si usa, più essa è ricca. Ora lo Stato, e quindi il Governo, ha il dovere — in prima istanza — di difendere la lingua nazionale e ufficiale adoperando l’italiano nei contesti più alti (scientifici).

“Il valore intrinseco della nostra lingua”, pur riconosciuto dal Ministro, “un valore che va difeso, […] consolidato, […] promosso” va affermato iniziando proprio col rendere obbligatorio l’uso dell’italiano nei contesti scientifici e non nel subordinarlo all’inglese. Il processo che si innesca con atti del genere – sostituendo alla lingua nazionale l’anglo-americano – è quello della riduzione degli ambiti d’uso scientifici dell’italiano. Si tratta di una forma di “diglossia”, di bilinguismo di serie B, per l’italiano confinato agli usi Bassi, rispetto all’inglese riservato agli usi Alti, in attesa magari di un totale spiazzamento dell’italiano in tutti i contesti.

E poi certamente sono benemerite tutte le iniziative, puntigliosamente sciorinate dal Ministro, volte alla diffusione e al potenziamento dell’italiano (in italiano) in Italia e all’estero.

Scelta politica in prima istanza della lingua nazionale e in seconda battuta dell’inglese per ragioni tecnico-scientifiche.
Ora un bando per la ricerca scientifica in Italia (con fondi italiani), accanto all’uso obbligatorio dell’italiano in quanto scelta “politica” dell’italiano in prima istanza, può prevedere in seconda istanza l’uso – facoltativo oppure obbligatorio – della lingua inglese, per ragioni tecniche, in quanto cioè idioma veicolare internazionale.

Il ricorso obbligatorio all’inglese può forse essere giustificato nel caso di temi di ricerca non strettamente legati alla cultura italiana (certamente molto meno, per es., per una ricerca nell’ambito della storia dell’arte italiana, o di più per una ricerca scientifica sulla “Origine del mondo”) e in considerazione del fatto che i valutatori delle domande possano essere stranieri. Ma non è accettabile, come nell’attuale bando, che l’inglese sia l’idioma Alto, di serie A, (obbligatorio) rispetto all’italiano, idioma Basso, di serie B (facoltativo).

Oppure il Ministro sia più coerente e in nome delle pure ragioni tecniche dell’inglese veicolare, elimini del tutto l’italiano, e rimetta in gioco il bando in inglese, e d’ora in poi solo in inglese. Proprio come i bandi europei scritti in inglese (e quindi con domande in inglese).

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12 Commenti

  1. In tv una attrice famosa dice una frase in inglese, che viene così tradotta: «Mi capita di fantasticare di altri uomini, e questo mi fa sentire scomoda»

    L’originale diceva “unconfortable“, che significa, in questo contesto, a disagio, ma è stato tradotto “scomodo&lrquo;, come se lei fosse stata una poltrona.

    Chi ha tradotto il testo, non dovrebbe essere un minimo competente nelle due lingue?

    Cosa dice questo episodio, che non è isolato, sulla perdita di competenza lessicale nella nostra lingua, che si sta verificando sotto i nostri occhi, mentre noi ci diamo le arie e parliamo inglese?

  2. Una nota a margine: se si ha una discreta conoscenza dell’inglese, oggi è sufficiente mettere un testo in google translate e sistemare un po’. Il sistema migliora sempre di più, tra qualche anno il vantaggio competitivo dato dalla barriera dell’inglese sarà superato e lo sforzo di usare la “lingua franca” sarà minimale.

    Es: il testo sopra su translate SENZA INTERVENTI:
    A side note: if you have a good knowledge of English, today it is enough to put a text in google translate and fix it a bit. The system improves more and more, in a few years the competitive advantage given by the English barrier will be overcome and the effort to use the “lingua franca” will be minimal.

    Potete immaginare tra cinque anni…

    • Fantastico: con questi potenti mezzi il revisore, per mera curiosità o per senso di colpa, potrà ritradursi la domanda in italiano e leggerla, finalmente. Magari anche in bergamasco, chissà.
      (English version by google translator…forse ancora non ci siamo)
      Fantastic: with these powerful means, the reviewer, for mere curiosity or guilt, can retranslate the question in Italian and read it, finally. Maybe even in Bergamo, who knows.

  3. Il problema dell’imposizione dell’inglese come lingua veicolare è un fatto politico, che mette in evidenza la nostra forte subordinazione economica (non credo in nessun modo culturale) nei confronti degli Stati Uniti.
    L’Italia ha perso il controllo del proprio futuro … la diversa lingua adottata lo sanziona …
    E’ molto triste

  4. @Claudio Braccesi,
    giusto,
    aggiungerei anche che ci sono settori dove illustri maestri (es. settore giuridico, insigni giuristi)
    o semplici ordinari o associati di diritto
    non conoscono neppure una sola parola di inglese,
    al massimo sanno dire “panettone is on the table”.
    E’ normale (ma non giustificabile, intendiamoci), il diritto è una cosa nazionale, al 99%, se escludiamo materie come dir. internazionale o poco altro.
    Ovviamente professori di diritto che non sanno l’inglese sono tantissimi,
    e fra questi anche chi dovrà fare il revisore ed il valutatore dei PRIN.
    Non ci capirà nulla chi dovrà presentare un PRIN in inglese nel settore giuridico.
    non ci capirà nulla chi farà il referee nello stesso settore giuridico.
    ERGO,
    non ha senso l’inglese nell’ambito del PRIN.

  5. Un piccolo appunto metodologico: riportare l’indirizzo esatto dell’articolo citato , che è questo: http://www.quotidiano.net/cronaca/fedeli-bando-inglese-1.3647159. Così si perde meno tempo.
    Che la ministra sia solitamente verbosa, credo sia poco contestabile. Un fiume di parole trascina con se tutto e il contrario di tutto, per la molta veemenza e la poca dominanza del discorso. Che per lei l’inglese sia la lingua usata dai ricercatori significa avere una concezione limitativa e limitata di cosa fanno i ricercatori in generale e di quali strategie linguistiche mettano in atto per comunicare con varie parti del mondo della ricerca, dai colleghi più vicini a quelli più lontani. Che l’inglese sia semplicemente la lingua veicolare della comunicazione internazionale, non è per niente un fatto semplice e senza storia. Io al posto suo avrei scritto l’articolo in inglese, tanto tra traduttore e
    consiglieri vari, avrebbe ottenuto un testo decente. E poi lo dica anche ai suoi colleghi ministri e politici che l’inglese è diventato una o la lingua internazionale.
    Lei in particolare come si comporta in consessi internazionali?
    Un altro aspetto è negare l’evidenza. “La domanda è scritta” non implica opzione mentre l’averlo scritto così è il risultato di una scelta. Altrimenti vi è implicata di certo la non conoscenza della grammatica di base.
    Ma tanto per scusarla, sta parlando di cose fatte e scritte non da lei: ne chieda conto ai suoi collaboratori e non spieghi ai ricercatori, umanisti e non, di come usare le lingue straniere che conoscono (se le conoscono: chieda ai ricercatori americani, anche linguisti, perché le loro biografie ospitano raramente o per niente titoli non inglesi.) ecc. ecc. O perché certi studiosi italiani non usano che bibliografia in italiano o tradotta in italiano. Ce ne sarebbero di problemi da discutere, vero?

  6. Mi farebbe piacere sapere se la ministra è in grado di esprimersi con la stessa finezza e capire tutte le sfumature delle risposte dei suoi interlocutori in inglese, al pari d quanto avviene in italiano. Ministra, può rispondere? Un’idea del genere, per lo meno nelle materie umanistiche, equivale a una catastrofe. Per poter insegnare, e tanto più scrivere, in una lingua straniera – e parlo per esperienza, avendo insegnato sia in francese che in russo a Mosca la storia russa nella più prestigiosa università umanistica dopo il naufragio dell’Urss – bisogna padroneggiarla a un livello molto elevato, altrimenti si semplifica e si banalizza il pensiero fino all’osso, il che non permette certo di valorizzare la ricerca. Non mi sembra che i colleghi, nemmeno i più giovani, padroneggino in maggioranza in modo tale l’inglese (e poi perché l’inglese? Se studio la storia russa, mi serve padroneggiare ad alto livello il russo, non l’inglese, visto che questa è la lingua “franca” del settore…

  7. Dopo esserci sfogati un po’, torniamo alla realtà che ci circonda. Primo, quel che fanno, sanno, vogliono gli umanisti, importa poco al livello del discorso di V.Fedeli. La sua “ricerca” non li comprende. In secondo luogo, se si tratta di compilare semplicemente una domanda, tanto inglese si dovrebbe sapere. Nome, titolo e simili. Diversa è la questione del progetto articolato, dove un linguaggio standardizzato, cioè predeterminato, non sostiene adeguatamente ciò che si vuole esprimere. Lasciando anche da parte le differenze tra scritto e parlato. Ma non trascurando le necessità degli umanisti che per ora continuano ad esistere. Tuttavia, tutto è fattibile ricorrendo a esperti, che controllino o addirittura traducano il testo, e che poi incassino il dovuto compenso. Gli umanisti di solito non dispongono di questi soldini, a meno che non li caccino di tasca propria. E siamo soltanto alle premesse di un discorso decente , e nemmeno lì, sul plurilinguismo degli intellettuali universitari a livello mondiale. Tolti gli anglofoni nativi e monolingui. Ai quali tutti gli altri dovrebbero omologarsi per ragioni storiche coloniali e belliche? Ma la ministra ha mai interpellato un esperto/un’esperta (non sia mai che discrimini volutamente, io o lei) in plurilinguismo, magari svizzero , per ragioni di terzietà? Oppure canadese francofono? Sempre che qualcuno le avesse spiegato che esistono anche queste cose (nel senso di problemi) e persone al mondo.

  8. Non è fatto vero che l’inglese sia la lingua dei ricercatori! Dipende, ovviamente, dal tipo di ricerca. E’ invece buona regola dei luoghi di lavoro e studio in cui ci sono persone provenienti da vari paesi che ognuno si esprima nella propria lingua nazionale e che gli altri si sforzino di capirla. Quindi conoscere e capire l’inglese obbligatoriamente, sì; parlarlo e scriverlo obbligatoriamente, no.

  9. Sono pienamente d’accordo con la lettera di Sgroi. Aggiungerei, pur non essendo glottologa, che una lingua si deteriora quando per pigrizia si introducono termini di un’altra lingua, anziché fare lo sforzo di tradurli (ad esempio Career service, Job placement, Presentazione Open Day Lauree Magistrali, come si legge nel sito dell’Università di Padova), o li si usa anche se già esistono quelli corrispondenti, ad esempio step invece di passo e set al posto di insieme o di sinonimi appropriati ai diversi contesti. In un testo della materia in cui insegno ricorrono espressioni come queste: “[…] porre attenzione alla cultura implica indagare le specifiche produzioni culturali di un gruppo umano e comprendere le funzioni che uno specifico set di regole e valori morali ricoprono in un dato contesto”.
    “[…] la costruzione, durante gli anni dello sviluppo, di un determinato set di credenze normative […].

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