Sgombriamo il campo da un luogo comune. Le Università del Nord non sono migliori di quelle meridionali.

 

L’ultimo rapporto SVIMEZ restituisce la fotografia di un’economia del Mezzogiorno in caduta libera. Pressoché tutti gli indicatori macroeconomici (tasso di crescita, occupazione, saldo demografico e migrazioni) assumono valori negativi, segnalando un sentiero recessivo che dura ormai da oltre un decennio con continua crescita dei divari regionali. Ciò che maggiormente desta preoccupazione è l’inarrestabile emorragia di giovani istruiti che vanno via, senza flussi di rientro, e di giovani che scelgono di studiare in sedi del Nord o all’estero, anche in questo caso senza flussi di rientro.

Nell’anno accademico 2016-2017, a fronte dei 685mila meridionali iscritti all’Università, il 25.6% (pari a 175mila unità) studia in un Ateneo del Centro-Nord. La quota di residenti al Centro-Nord che studia nel Mezzogiorno è solo dell’1.9%, pari a 18mila studenti. Il saldo migratorio netto è di circa 157.000 unità, ed è in continuo aumento. Gli studenti emigrati per motivi di studio costituiscono lo 0.7% circa della popolazione meridionale residente.

Sgombriamo il campo da un luogo comune. Le Università del Nord non sono migliori di quelle meridionali. Probabilmente lo sono nella percezione delle famiglie meridionali e lo sono quasi sempre nelle classifiche pubblicate periodicamente. Sgombriamo il campo allora da un altro equivoco: quelle classifiche – che pure contribuiscono a orientare le scelte di immatricolazione – hanno ben poco di scientifico. Molto spesso sono costruite su indicatori che fanno risultare ciò che i committenti vogliono far risultare. Alcuni esempi. La prima graduatoria delle università mondiali fu prodotta nel 2003 ed è nota come la classifica di Shangai. Lì, tra i vari criteri, si pesano le Università sulla base del numero di Premi Nobel ricevuti dai docenti e dagli ex alunni, nonché le medaglie Fields per i ricercatori di matematica. Curiosamente non si prendono in considerazione i Premi Nobel per la letteratura. La classifica c.d. QS si basa per ben il 50% su variabili reputazionali: per esempio, in modo autoreferenziale, si chiede ai professori di indicare, a loro avviso, quali sono le Università che, nel loro ambito disciplinare, considerano più prestigiose. Da sola questa voce pesa per il 40% nella classifica, a cui va aggiunto un 10% legato al sondaggio presso i datori di lavoro. La classifica QS è nota, fra gli addetti ai lavori, per presentare risultati estremamente volatili: p.e. fra il 2014 e il 2015 – in un solo anno – l’Università di Siena ha perso ben 221 posizioni. Ciò non aveva a che fare con l’effettiva qualità dell’ateneo: erano semplicemente cambiate le formule usate per normalizzare gli indicatori. Inutile dire che perdite o guadagni sensibili sono sempre sospetti perché  il posizionamento di una istituzione dovrebbe rimanere relativamente stabile negli anni.

Le metodologie utilizzate, inoltre, ignorano del tutto i punti di partenza, la storia delle sedi universitarie e il loro patrimonio. E’ sufficiente considerare che le sole Università di Harvard e Yale, negli Stati Uniti, hanno spese operative pari a circa il 75% del Fondo di finanziamento ordinario di tutte le Università pubbliche italiane, per dar conto della scarsissima attendibilità dei “ranking”.

La scelta di immatricolarsi in sedi del Nord può avere molteplici motivazioni, ma è ragionevole pensare che due pesino in modo più rilevante delle altre:

1. La convinzione che ciò che si fa al Nord è più efficiente di ciò che si fa al Sud. Si tratta di un bias culturale che non trova alcun fondamento oggettivo (quantomeno non lo trova nel caso delle Università, sebbene lo trovi nelle classifiche) e che segnala un serio problema di auto rappresentazione dei meridionali.

2. La convinzione che studiare al Nord sia una necessaria precondizione per trovare occupazione migliore (rispetto al Sud) e trovarla più rapidamente.

La seconda motivazione – che appare molto ragionevole – segnala tuttavia un problema. Nello scegliere dove studiare sembra che le famiglie meridionali si orientino verso qualcosa che somiglia più a un centro per l’impiego che a un luogo nel quale si produce e si trasmette cultura e conoscenza scientifica. Il meccanismo è perverso e si autoalimenta. In un contesto di concorrenza fra sedi universitarie e di continuo definanziamento, l’obiettivo di ogni Ateneo è attrarre studenti. Le classifiche  – ancorché prive di senso – orientano in modo rilevante la ripartizione dei fondi e, per conseguenza, contribuiscono in modo rilevante alla perdita di fondi e di reputazione delle sedi meridionali. La fuga di giovani verso il Nord viene così accentuata. L’aumento degli iscritti nelle sedi settentrionali consente a queste ultime di ricevere, in termini relativi, maggiori finanziamenti (che vanno ad aggiungersi ai finanziamenti che riescono a reperire da privati – cosa pressoché impossibile al Sud).

Non stupisce, in questo scenario, il fatto che a più riprese alcuni docenti universitari del Nord consulenti dell’agenzia nazionale di valutazione della ricerca chiedano la chiusura di sedi meridionali o un loro significativo ridimensionamento. Lo fanno avvalendosi di indicatori – spesso costruiti ad hoc – che mostrano che le Università del Sud sono meno attrattive di quelle del Nord e che sono quelle nelle quali la qualità della docenza, della ricerca scientifica e dei servizi agli studenti è peggiore. È falso e gli addetti ai lavori lo sanno. Ma in un gioco a somma zero dove la competizione fra Atenei crea vincitori e vinti ogni strumento utile per acquisire risorse (e dunque per sottrarle ad altri) è ammesso. Molto spesso, o quasi sempre, a danno del Mezzogiorno e delle famiglie meridionali costrette a sostenere spese ingenti per iscrivere i loro figli in Università che di fatto non sono migliori di quelle sotto casa, ma che tali risultano per l’arbitraria selezione degli indicatori che dovrebbero certificare la reputazione di una sede universitaria.

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7 Commenti

  1. Il problema é ancora più drammatico, in quanto i dati non includono la quota di studenti che vanno a studiare all’estero, e non compensate da studenti che dall’estero vengono a studiare in Universitá del sud (anche in questo caso vi é un differenziale non trascurabile tra Univ. del nord e del sud), ed il fatto che le percentuali di studenti che vanno a studiare al nord raggiungono in alcune aree valori fino oltre l’80% considerando il passaggio tra triennale e specialistica.

    Il tutto rappresenta un costo economico marcato in cui il sud finanzia il sistema universitario del nord, oltre ai vari aspetti già evidenziati. Riguardo alle cause, vi è una sfiducia nel sistema universitario, e se si analizza il dato specifico dei figli di docenti universitari del sud, si vede come nel passaggio tra triennale a soecialistica in particolare, la quasi totalitá dei figli va a studiare al nord od all’estero. Quindi gli stessi docenti al sud hanno in gran parte sfiducia nel sistema universitario in cui operano, e “sperano” che le universitá del nord offrano migliore qualificazione od opportunità per i propri figli.

    Purtroppo, tuttavia, questa che dovrebbe essere la priorità per le università del sud, identificando come constrastare questa situazione (con la creazione di corsi maggiormente qualificati, magari in collaborazione con università estere qualificate; con la valorizzazione delle esistenti “eccellenze” – brutto termine, ma che identifica il concetto – per creare un ciclo virtuoso di crescita generale che porti a maggior integrazione con il substrato economico che esiste seppur più debole che al nord; ecc.) è spesso non identificata come priorità, e non tramutata in fatti concreti.

    Ė necessario da una parte che le università del sud facciano la loro parte, e che questa venga identificata come una priorità politica attorno a cui creare un percorso in cui l’università diventi l’effettivo motore di sviluppo del sud.

    • Vorrei dire poche cose. Alcuni docenti hanno favorito i flussi indicando agli studenti la prosecuzione in altre sedi: tranne i casi si indicavano specialistiche con discipline specifiche non presenti nei curricula, a me è sembrato incredibile.
      Vorrei anche dire che non sempre gli studenti che ‘partono’ sono i migliori: alcune volte sono dignitosi, buoni, altre niente di tutto ciò. La discriminante è il danaro, di certo. Le università del sud e isole lavorerebbero meglio se non vi fosse questa incalzante pubblicità negativa, un profluvio di numeri, statistiche, ecc.
      Riprendiamo il nostro lavoro, quello serio.

  2. Merlino Wiz scrive: la quasi totalitá dei figli va a studiare al nord od all’estero.
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    Interessante affermazione, immagino basata su una completa analisi quantitativa o, almeno, su un’analisi statistica condotta su un campione significativo della popolazione di riferimento.
    O no?

  3. Ho appena, interrompendo la lettura di questo articolo, parlato con degli studenti che mi chiedevano un consiglio se fare la magistrale in sede o andare fuori. Come si vede, il tema è di attualità e non discrimina solo il nord dal sud, ma le sedi ‘prestigiose’ e quello no. Inseguendo il concetto di sede prestigiosa, si dovrebbe anche inseguire la logica conseguenza di chiudere le sedi che non lo sono. Alcuni la pensano così e, se dipendesse da loro, lo farebbero. Ciò implica che le sedi universitarie dovrebbero essere poche (2-3? 10-15?). Potrebbero, questi, suggerire un numero per loro congruo. ma non dovrebbe sfuggire che, rimaste 15 sedi, supponiamo, tra queste ci sarebbero quelle più prestigiose. Il processo andrebbe quindi iterato, fino a rimanere con una sola sede, la quale, inevitabilmente, sarebbe prima o poi dichiarata da qualcuno ‘non prestigiosa’. Il paradosso non è così campato in aria. Così ragionando, in ogni caso, anche fermandosi alla prima iterazione, si opera la scelta politica di fondo di abolire la scuola diffusa e fruibile su tutto il territorio nazionale. Tutte le scelte si possono fare, ma bisogna essere consapevoli delle loro conseguenze.

  4. L’aurora dell’eccellenza è sempre boreale e i moderni miti di rigenerazione accademica sono rigorosamente settentrionali. Poco si può fare per cambiare la percezione o le percezioni degli Italiani, notori campioni di autorazzismo. Il mito diventa un programma d’azione, lo studente meridionale trasloca nel nord che gli è accessibile (Milano, Harvard, Cambridge; può bastare anche Lugano) e a quel punto non abbiamo più miti ma una cruda realtà – fatta di atenei del sud svuotati e aule nordiche stracolme. Ma non c’è solo la didattica. Vale la pena di rievocare qui l’ultimo bando Prin. C’erano, come in molti ricorderemo, una linea d’intervento “principale”, una “giovani” e una “sud”: contro i 300 milioni e rotti della prima, i progetti che comprendessero soltanto università meridionali avevano a disposizione una sessantina di milioni – e cioè il 17 per cento delle risorse destinate all’insieme degli atenei (64/[305+64]), laddove il sud rappresenta un terzo del Paese. L’impostazione del bando incoraggiava di fatto la ghettizzazione scientifica (meridionali con meridionali) e sottofinanziava il sud, anche se le finalità esibite erano piuttosto quelle contrarie. Non solo, ma nel bando si parlava con tranquilla e inedita crudezza di sedi operative nei “territori delle regioni in ritardo di sviluppo (Basilicata, Puglia, Campania, Calabria, Sicilia)”, con l’immediato effetto di irradiare il concetto di sottosviluppo agli atenei che in quelle regioni hanno sede. Addirittura comica, se non fosse drammatica, era l’ideazione di una categoria intermedia: quella dei territori “in transizione”, quali il Molise, l’Abruzzo o la Sardegna – le prime due forse godendo della salvifica posizione di confine con Marche e Lazio, la terza del baluginio marittimo della Corsica e quindi di un mirabile Paese della “core Europe”.
    La verità è che queste singolari distorsioni avrebbero meritato più commenti di quelle che a mia notizia hanno ricevuto.

  5. Vorrei prendere spunto dal primo commento, di Merlino Wiz, aggiungendo un esempio aneddotico, un quasi-esperimento naturale. Un’amica ha due figlie con un anno d’età di differenza, entrate per sorte la prima in Università “del nord”, dove non voleva andare, e l’altra in università “del sud”, preferita. Medicina in entrambi i casi. Supponendo doti genetiche simili, e simile educazione, le ho seguite per sei anni, chiedendo ogni tanto informazioni sulle differenze. Posso riferire (aneddoticamente) che: “al nord”, più studio, esami difficili e voti più bassi. “Al sud” invece, esami più facili, voti più alti, molta meno pratica e soprattutto, raramente visti i titolari dell’insegnamento a lezione. Ora, queste sono differenze che potrebbero essere facilmente ridotte, se fossero riconosciute. Ma forse questo è il problema.

  6. Mi pare che anche volendo completamente addossare la colpa della propria arretratezza fittizia alle -viziose- università del Sud e riconoscere tutto il merito del proprio avanzamento fittizio alle -virtuose- università del Nord (la spiegazione in versione bimbominkia, tanto cara a quelli affetti da poraccitudine anvuriana), resti un nucleo di base, un fondamento strutturale per nulla trascurabile, che ha realizzato la messa a regime, comprensiva di una rigorosa calibrazione ingegneristica (grazie al certosino lavoro di molti colleghi, distinti professionisti di svariate aree accademiche), di politiche universitarie, sia di gestione sia di visione, di tipo neoliberista; lo ha fatto attraverso un intero sistema di calcolo scientificamente farlocco (evidentemente l’economia ha ancora poco di scientifico da esprimere come ad esempio in altri ambiti gli studi di Reinhart e Rogoff testimoniano) che assegna la ripartizione fondi, le risorse umane, i posti di docente, alloca i soldi per le chiamate e determina il fantomatico ISPD, avendo un bias consistente e determinante a favore delle “mitiche” università del Nord (altri su Roars lo spiegano in dettaglio).
    Questo facilmente non toglierebbe nulla al merito delle meritevoli e meritocratiche università del nord, in un periodo di espansione economica con efficienti allocazioni di abbondanti investimenti (l’inferno per i neolib non è molto differente); purtroppo toglie molto alle viziose ed immeritevoli (ma meritocratiche) università del sud in un periodo di contrazione economica con scarse risorse per cui competere darwinianamente e allocazioni pressoché teleguidate (il nirvana per i neolib!!!).
    E non mi pare che ci troviamo in un periodo espansivo, almeno dal 2008.
    Cordialmente

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