Riceviamo e volentieri pubblichiamo queste riflessioni dedicate all’esclusione da parte di Clarivate Analytics di tre riviste di storia del pensiero economico dal Journal Citation Reports (JCR) per comportamenti citazionali scorretti (roars ha già dedicato un post a ricostruire la vicenda).

Anvur bibliometrico come morte della ricerca e della libertà di pensiero? La storia del pensiero economico come caso “apripista”?

1. Premessa importante. Le riflessioni che seguono sono da considerarsi come fortemente problematiche. Più precisamente, si tratta di una serie di domande che vorrebbero sollecitare una riflessione non solo nell’ambito della disciplina che pratico.

Non è secondario specificare l’esperienza particolare della mia disciplina, la storia del pensiero economico, di area 13: per quanto piccola per numero di strutturati e di cultori – meglio: proprio perché piccola – essa infatti è un caso di studio emblematico. Sia per le conseguenze che possono avere sulla ricerca, e sulla sopravvivenza stessa della disciplina, i criteri di valutazione adottati, sia perché, ritengo, quanto avverrebbe per il suo caso preannuncerebbe ciò che potrebbe avvenire per tutte le scienze sociali. Basterebbe dare una rapida scorsa ai cambiamenti intervenuti nella lista delle riviste “eccellenti” (classe a) di altre aree (dalla 10 in su) per capire che la sorte della storia del pensiero economico potrebbe toccare ben presto appunto altre discipline di altre aree.

Ultima importante premessa: il titolo sottolinea come potrebbe essere un certo tipo di valutazione a diventare, con tutta probabilità, uno strumento di morte della libertà di pensiero: non ho nulla in contrario alla valutazione, ma mi sconcertano i suoi criteri attuali e, non di meno, i sui suoi attuali scopi.

2. Ebbene è accaduto un fatto nuovo: Phil Davis informa (si veda qui) che a causa di comportamenti collusivi – collusivi sul piano citazionale, se non sbaglio terminologia: da ora in avanti con “collusivo” intendo sempre “sul piano citazionale” – tre riviste di storia del pensiero economico sono state sospese da WOS. Più in particolare mi sembra di capire che una rivista del settore avrebbe favorito altre due riviste del settore. Le quali, dunque, sembrerebbe siano state “sanzionate”.

Conoscendo le riviste e le problematiche italiane della valutazione, mi pare che vi sarebbero diverse, fondamentali questioni da affrontare. Le elenco schematicamente.

Sembrerebbe, anche da quanto scrive (in calce all’articolo di Davis) il direttore della rivista che avrebbe favorito le altre due riviste, che vi sia un “colpevole” inconsapevole e due “vittime ignare”, che dunque avrebbero subito un “danno” (le virgolette non sono citazioni ma icastiche sintesi del ragionamento proposto). Mi chiedo, tuttavia, se non sia implicito che se di comportamento collusivo si trattasse, sia il “carnefice” che la “vittima” – mi scuso per la terminologia triviale, alla quale mi sentirei spinto da questa logica delle cose – dovrebbero in qualche modo subire una “sanzione”, ammesso e non concesso che questo tipo di comportamenti debba avere una sanzione differente da quella scientifica e ammesso e non concesso che la scienza debba occuparsi di strategie citazionali.

3. Ciò che potrebbe accadere sul piano pratico non è meno significativo di quello che sarebbe già successo: si potrebbero cioè aprire una serie di carteggi e di rapporti volti a stabilire la “buona” o la “mala fede” degli attori in campo o le varie specificità del caso. In ogni caso, mi chiedo: una volta stabilito il criterio adottato per la “verifica” e per la “sanzione” non si sarebbe invitati a considerare inaccettabile qualsivoglia rapporto volto a cambiare la situazione di fatto (la sanzione)? E mi chiedo se “collusivi” nell’ottica del “verificatore” e del “sanzionatore” non dovrebbero essere considerati ogni sorta di rapporti che tra queste riviste sarebbero intercorsi. Difficile stabilire chi sarebbe la vittima, insomma, perché verifica e sanzione non aprirebbero forse una tematica vasta e complessa? Mi chiedo, infatti, se quel criterio presupporrebbe una sorta di “codifica” di una casistica collusiva infinita e ricca di risvolti scientifici, giuridici e morali, volta a stabilire le infinite forme capaci di “ricambiare” il fervore citazionale, oltre che le sue motivazioni. Il dato bibliometrico, infatti, l’unico rilevabile, non presupporrebbe forse tutta una serie di comportamenti a monte? Tra l’altro, mi chiedo se oggi questi comportamenti siano stati in qualche modo almeno elencati da chi applica questo tipo di logica e di sanzioni. Inoltre, non apparirebbe evidente che, se tale casistica volesse tramutarsi in qualsivoglia sanzione, a sua volta base per ulteriori sanzioni da parte di altri attori, si aprirebbe l’infinito ed al momento insondabile spazio concernete le forme adatte e legittime per stabilire “le prove testimoniali” di quelle infinite forme? E dunque non saremmo forse posti di fronte al fatto di fare spazio a qualche cosa di ben diverso dal “tribunale della storia”, ma che avrebbe i contorni proprio di un tribunale?

4. Nel “difendersi” le tre riviste coinvolte potrebbero enumerare una serie notevole di argomentazioni volte a dimostrare come la “collusione” altro non sarebbe che il risultato inevitabile della dimensione ridotta della disciplina in questione e, ancor più, degli argomenti trattati all’interno di questa disciplina. Non è improbabile che altre riviste della disciplina, d’altra parte e proprio per il motivo illustrato, potrebbero incappare nella problematica. Da quantitativo, allora, il discorso diverrebbe qualitativo: il vino va sempre bevuto.

Sarebbe dunque questa l’occasione per mostrare come sia il meccanismo stesso che: o incentiva rapporti collusivi o mostra come collusivi comportamenti che in effetti sono scientifici. Verrebbe poi da chiedersi se nelle scienze sociali la “scienza” non implichi una qualche forma di “azioni a monte” – si chiamino “scuole”, “baronie”, “associazioni scientifiche”, “premi nazionali o internazionali”, “Dipartimenti”, “Università” ecc. –. Mi chiedo, cioè, se queste azioni non siano appunto il presupposto della costatazione bibliometrica: e il sospetto che la domanda sia lecita potrebbe venire anche solo leggendo alcuni commenti al testo di Davis.

Se queste domande fossero legittime riterrei allora inevitabile aprire il campo al dibattito scientifico emancipandolo dalle preoccupazioni citazionali, anzi ponendo esse stesse a oggetto di indagine. Il dibattito potrebbe e dovrebbe dunque anche aprirsi a quello concernete la forma della riproduzione degli scienziati: “scuole”, “baronie”, “associazioni scientifiche”, strumenti della “cooptazione”, “premialità scientifiche”, “Dipartimenti” e via discorrendo, rapporti tra scienza e differenti forme del potere (economico, politico, amministrativo ecc.).

In questo campo ritengo che la storia delle scienze sociali potrebbe dare un contributo davvero notevole, perché affronta il tema, almeno in alcune sue voci, di come le idee diventino o tentino di diventare “egemonia” utilizzando, tra l’altro (non esclusivamente, dunque), tutta una serie di strumenti istituzionali di varia natura. Senza poi contare che le egemonie scientifiche rimandano anche ad altri tipi di egemonie, soprattutto quando si affronta il tema del rapporto tra scienza e società, considerata anche nelle sue differenti forme di potere. Abbiamo la fortuna di vivere nel paese che ha dato i natali ad Antonio Gramsci (i Quaderni? Peccato, non valutabili: sono dei manoscritti… ) e saremmo dunque immuni da qualsiasi forma di semplificazione  (economicistica, politicistica, ecc. ecc.), volta a scovare nel solo ed eventuale rapporto diretto tra gli attori in campo la prova suprema dei rapporti che stanno a monte del dato bibliometrico.

5. In ogni caso, sarebbe evidente come il meccanismo che ha generato questo episodio non potrebbe essere utilizzato per una qualsivoglia valutazione e per qualsivoglia “selezione” che su di essa si volesse stabilire: mi aspetterei, dunque, che almeno le riviste implicate, sebbene incanalate in una autodifesa di merito inevitabile, cogliessero l’occasione, per il loro lato “italiano”, per essere in prima fila nel domandare una radicale revisione dei criteri di valutazione: anzitutto chiedendo l’abolizione della distinzione tra riviste di fascia a ed altre riviste e la rinuncia ai criteri bibliometrici come criterio di classificazione della ricerca. Alcune delle riviste coinvolte nella sanzione vantano autorevoli studiosi italiani, ma in questo momento non saprei dire se in passato essi si siano adoperati e battuti per una valutazione differente da quella attuale: in ogni caso mi aspetterei che si battessero da oggi, e sarei lieto di soprassedere sull’ineleganza del gesto se fino ad ora avessero tenuto un profilo silente o addirittura favorevole alla bibliometria.

Più in generale, e prescindendo dall’episodio che ha suscitato queste mie riflessioni, mi aspetterei che i cultori della storia del pensiero economico prendessero coscienza delle poste in gioco battendosi coerentemente per i presupposti della libertà di ricerca e di pensiero. E così  prendendo definitivamente commiato dalla bibliometria e dunque superando posizioni come quella che possiamo trovare codificata p.es. nel sito della STOREP: dove il presidente, alle pagine “valutazione”, scrive testualmente: “L’Associazione Italiana per la Storia dell’Economia Politica (STOREP) intende sottoporre all’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca la richiesta di includere le riviste European Journal of the History of Economic Thought e Journal of the History of Economic Thought nell’elenco di riviste di carattere scientifico di fascia A per il settore 13/A1”.

6. Se le domande che mi pongo avessero un fondamento, le ripercussioni andrebbero ben oltre il merito specifico della questione. Si dovrebbe verificare, infatti, se l’Anvur fosse intenzionata a prendere in qualche modo in considerazione quanto avvenuto e, in caso, quali provvedimenti adotterebbe.

Non saprei inoltre come valutare, se non con uno sconcerto deontologico notevole e chiedendo comunque l’aiuto di più specialisti del diritto e infine offrendo il modesto contributo degli storici per verificare come il problema si è posto ed è stato risolto sul piano “egemonico” nel passato (esempio: siamo nel Paese in cui l’affermazione della libertà della scienza e di pensiero si è affermata con la lotta contro il fascismo e i suoi tentativi di indirizzare le scienze sociali), il fatto che un’agenzia governativa decidesse di fondare il proprio operato su avvenimenti “acclarati” su un piano che non è, forse, nemmeno quello esclusivamente privatistico (la sanzione riguarda infatti l’inserimento o meno in una banca dati privata).

D’altra parte, mi sembrerebbe anche impossibile ignorare l’accaduto, proprio anche perché la collusione verificata sul piano bibliometrico potrebbe implicare altre collusioni, se le domande che ponevo avessero un minimo di fondatezza. E ancora: sarebbe possibile elargire soldi pubblici e stabilire abilitazioni e commissioni di abilitazione e non, sulla base di “fatti” simili e “acclarati” secondo quella procedura? Anche se fosse possibile, sarebbe legittimo sul piano scientifico o su quello deontologico o su quello morale?

Una cosa sarebbe certa, almeno ai miei occhi: l’Anvur dovrebbe prendere occasione dall’accaduto per rimettere in discussione i criteri adoperati nella valutazione delle scienze sociali, a cominciare da quelli di area 13 della storia dell’economia e del pensiero economico. Non farlo, significherebbe, probabilmente, procedere in quella che in termini contemporanei viene definita “distorsione”, ma che in realtà sarebbe il meccanismo perfetto per distruggere una disciplina: il cui destino, come accennavo, sembrerebbe prefigurare quello di altre discipline.

7. Per quanto mi riguarda, oltre alla abolizione della distinzione tra “fasce” di riviste e alla rinuncia alla bibliometria, l’Anvur dovrebbe aprirsi per davvero all’interdisciplinarietà della ricerca, prendendo atto che è un fatto “acclarato” che gli storici dell’economia (dei fatti economici e delle idee economiche) pubblicano su una pluralità notevole di riviste appartenenti agli ambiti disciplinari i più diversi. Più in generale, mi sembrerebbe inevitabile separare almeno le storie delle scienze sociali (e tra queste, la storia del pensiero economico) da ambiti in cui la bibliometria parrebbe essere ormai inevitabile (ma c’è qualche cosa di inevitabile in ambito scientifico?), magari raggruppandole in un’area indipendente o raggruppandole in un area non bibliometrica e, al tempo stesso, garantendo loro l’opportuna e salda presenza nelle classi di laurea dove risultano indispensabili: comprese, dunque, quelle economiche. Almeno questo è il mio personale orientamento e dovrebbe risultar chiaro il suo fondamento da quanto ho scritto in tema di “egemonia”.

Concludo: nelle righe precedenti ho tentato di mettere in luce una serie di problematiche che sembrerebbero aprirsi di fronte ad un fatto nuovo e che, se fossero confermate, ai miei occhi apparirebbero decisive.

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9 Commenti

  1. Credo sia doveroso ricordare che l’Associazione Italiana per la Storia dell’Economia Politica (STOREP) citata nel testo, durante la mia presidenza, ha aderito a DORA, la Declaration of San Francisco on Research Assessment.

  2. ….che vi sia un “colpevole” inconsapevole e due “vittime ignare”, che dunque avrebbero subito un “danno”….
    Bellissima espressione! Anche un tal Ministro giurò che se avesse saputo chi gli aveva comprato la casa gli avrebbe fatto il mazzo.
    Mi pare che non ci sia bisogno di abbondare con supposizioni, presunte prove, condizionali ad iosa, per dimostrare che la bibliometria fa schifo e che la gente se ne approfitta ed assume comportamenti scorretti. Credo che basti guardarci allo specchio la mattina ed osservare i colleghi sempre in volo da qualche parte ad elemosinare citazioni.
    Del resto la cosa appariva evidente ai più, ma ci siamo tutti inchinati alla corrente dominante ed ora siamo qui a scrivere articoli e a risponderci addosso su ROARS.

    • Io non mi sono inchinato e nemmeno la redazione di Roars. Non a caso, uno dei nostri primissimi articoli (ottobre 2011) era intitolato “I numeri tossici che minacciano la scienza” (https://www.roars.it/i-numeri-tossici-che-minacciano-la-scienza/). In quell’articolo c’era davvero già tutto: doping citazionale e dell’Impact Factor, classifiche internazionali degli atenei, la marcia indietro degli australiani, i dubbi di UK e i problemi etici in Cina. Se qualcuno non l’avesse letto, può farlo ora (è anche breve). Lo troverà del tutto attuale.
      Nessuno può dire di non essere stato avvisato.

    • A scanso di equivoci: i redattori di Roars non sono dei fenomeni paranormali con capacità divinatorie. Si erano limitati a leggere e studiare quello che era disponibile in letteratura.

    • @DE NICOLAO & BACCINI: Non ce l’ho con ROARS. Partecipo, e rompo le scatole spesso su ROARS, perché so che qui ci sono orecchie attente ed un clima che condivido. A volte ho anche polemizzato, perché ritengo che la bibliometria vada rifiutata in blocco, senza entrare nel merito di una critica puntuale che fa solo il gioco dei bibliometrici, ma questo è un dettaglio e capisco la vostra posizione di critica puntuale e metodologica.
      Ce l’ho con NOI, in modo viscerale e radicale, perché ritengo che la situazione attuale sia colpa nostra, perché come complesso ‘accademico’ non siamo riusciti a fare squadra, abbiamo assecondato la corrente… ed abbiamo alla fine fatto vincere LORO. Mi ostino a pensare che abbiano vinto solo una battaglia. La guerra è ancora in corso. Speriamo bene.

  3. Pensierino della domenica. Sto rileggendo “Il piccolo principe”, come ognuno dovrebbe farlo ogni tanto, nonostante non figuri tra le raccomandazioni digital-aggiornative della Crui. Quando l’ho letto da piccola, non avevo capito che quanto citerò si riferiva all’Anvur; del resto la magnifica Agenzia non esisteva nemmeno. Ovviamente si tratta di un testo cifrato, che soltanto gli iniziati comprenderanno.
    — I grandi amano le cifre. Quando parlate loro di un nuovo amico, non vi fanno mai domande davvero importanti. Non vi chiedono, mai, ad esempio: “Qual è il suono della sua voce? Quali sono i suoi giochi preferiti? Colleziona farfalle?”. Vi domandano invece: “Quanti anni ha? Quanti fratelli ha? Quanto pesa? Quanto guadagna suo padre?” Ed è solo in quel momento che credono allora di conoscerlo. Se voi dite ai grandi: “Ho visto una bella casa costruita con mattoni rosa, con dei gerani alle finestre e delle colombe sul tetto …”, non riescono a immaginare come sia fatta effettivamente questa casa. E’ necessario, invece, che voi diciate loro: “Ho una casa da centomila franchi.” Allora esclamano: “Oh, ma com’è graziosa!”. — (ed. 2018, trad. di Mario Selvaggio, Univ. di Cagliari; con (anche) bellissime illustrazioni moderne di Nicole Durand)

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