A proposito del dibattito accesosi all’indomani della sentenza della Consulta sull’impiego totalizzante delle lingue straniere nei corsi di laurea delle Università statali italiane, Giuseppina La Face svolge un’osservazione tanto semplice quanto decisiva: “Il pericolo sta proprio qui. Se i corsi in inglese puntano ad attirare studenti dall’estero e a favorire l’internazionalizzazione, è decisivo il livello sul quale si attesteranno. Esigono alta preparazione dei docenti e ottima bibliografia. Altrimenti, anziché un vero cosmopolitismo, esibiremmo il volto del provincialismo: la cornacchia con le piume del pavone. Da parte loro gli studenti italiani ne ricaverebbero un danno ulteriore. Hanno difficoltà a parlare e scrivere nella lingua materna: come potrebbero imparare un buon inglese da docenti poco versati e senza libri linguisticamente degni?”.  

In questi mesi giornali e media hanno trattato due argomenti distinti, ma correlati. Il primo: gli studenti universitari hanno difficoltà nell’uso dell’italiano scritto e orale; il secondo: giova aprire corsi universitari in lingua inglese. Sono intervenuti tanti intellettuali, e per quanto concerne i corsi in inglese si è pronunciata perfino la Corte costituzionale. Entrambe le questioni sono importanti. Inizio dalla prima.

È vero che agli esami molti studenti (alludo all’area umanistica) non si esprimono con proprietà di linguaggio e non riescono a concettualizzare i contenuti appresi. Nella scrittura, poi, manifestano grosse lacune di base. Nel dibattito c’è stato chi ha invocato il rimedio della “bocciatura”: se non si boccia, lo studente non è spinto a imparare. Le cose sono meno semplici di così.

La lingua e il pensiero si apprendono con la lettura costante di testi di qualità, riassumendo quel che si è letto, scrivendo ogni giorno qualcosa di più che un sms farcito di faccine, chinandosi sulla forma sintattica. Ciò dovrebbe essere avvenuto già nella Secondaria di primo e secondo grado, e dovrebbe proseguire all’Università. La quale ha un limite: dedica alla scrittura – pratica essenziale per l’apprendimento della lingua – un tempo contenuto.

Gli esami sono per la maggior parte orali; salvo qualche seminario, il primo vero confronto con la scrittura avviene al momento di stilare la tesina triennale. Nei tre anni del corso, scrivere di più gioverebbe: si eserciterebbe il pensiero formale e il corretto uso del linguaggio. Ma questo non è praticabile: manca il tempo e manca il personale. Quale docente di discipline umanistiche potrebbe affrontare da solo un tal lavoro? quanti collaboratori lo coadiuverebbero?

Per le discipline musicali (il mio campo) la situazione è anche più critica. Parlare o scrivere di musica è difficile, giacché l’arte dei suoni non è referenziale: ossia non rimanda a una realtà esterna. Descrivere un brano di musica richiede un possesso scaltrito dei termini e della fraseologia: già arduo per gli specialisti, è impervio per chi non ha padronanza della lingua.

I corsi in inglese. L’inglese è oggi la lingua di comunicazione forse più diffusa e di sicuro più influente. Dipende da ragioni storiche economiche politiche, arcinote. È giusto che le Università promuovano alcuni onsegnamenti delle Lauree magistrali in lingua inglese. In genere fino a pochi anni fa essi sono stati appannaggio delle discipline scientifiche, ora anche le humanities sono orientate in tal senso.

A nessuno sfugge, però, che l’inglese letterario ha un lessico e una fraseologia ricchissima (tutt’altra cosa l’inglese turistico!), e dunque estremamente complessi. A tutti noi è capitato d’imbattersi in articoli o libri di colleghi italiani scritti direttamente in inglese: alcuni sono talvolta imbarazzanti. Per un motivo semplice. La struttura della frase inglese è profondamente diversa dall’italiana: l’autore o gli autori hanno pensato periodi che funzionano nella lingua di Manzoni ma zoppicano in quella di Shakespeare. (Detto tra parentesi: non è neppure detto che a un inglese parlato fluidamente corrisponda un livello alto di scrittura, o viceversa.)

Il pericolo sta proprio qui. Se i corsi in inglese puntano ad attirare studenti dall’estero e a favorire l’internazionalizzazione, è decisivo il livello sul quale si attesteranno. Esigono alta preparazione dei docenti e ottima bibliografia. Altrimenti, anziché un vero cosmopolitismo, esibiremmo il volto del provincialismo: la cornacchia con le piume del pavone. Da parte loro gli studenti italiani ne ricaverebbero un danno ulteriore. Hanno difficoltà a parlare e scrivere nella lingua materna: come potrebbero imparare un buon inglese da docenti poco versati e senza libri linguisticamente degni?

Concludo. Il problema non è ‘italiano vs inglese’. Oggi non si può fare a meno di conoscere un buon inglese. Nel contempo, occorre sostenere a spada tratta il buon italiano. Se no, la nostra lingua si impoverirà sempre di più. E se così fosse, di qui a qualche generazione gli Italiani non saprebbero più esprimere nella propria lingua concetti e processi intellettuali elaborati nel mondo anglofono, senza peraltro poter competere ad armi (linguistiche) pari con i colleghi di lingua inglese. Un disastro garantito.

(testo già apparso su Il Fatto Quotidiano)
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12 Commenti

  1. …..Esigono alta preparazione dei docenti e ottima bibliografia. Altrimenti, anziché un vero cosmopolitismo, esibiremmo il volto del provincialismo: la cornacchia con le piume del pavone…..

    Ma tante grazie per il suggerimento, invece no ci mandiamo Totò o prendiamo lezioni di inglese da Alfano o Grillo ? In Italia moltissimi ricercatori di discipline scientifiche passano o hanno passato lunghi periodi all’ estero, molti hanno insegnato in inglese in università straniere, per cui fatela finita di rompere l’anima, non mancano le persone qualificate basta dargli un pochino più di spazio. Nessuno vuole mandare i vari Totò a esibirsi in sceneggiate linguistiche, se uno non vuole insegni tranquillamente in italiano, sperando conosca almeno quello.
    L’importante è che si smetta di frenare tanta gente che vuole vivere in una dimensione universitaria transnazionale. La cultura scientifica non ha barriere linguistiche, si esprime oramai da 60 anni in inglese e l’arrivo in massa di persone di grandi paesi come Cina e India rende impossibile usare altre lingue, totalmente minoritarie. La lingua nazionale ha un senso quando, come ad esempio nel diritto, è parte integrante e inscindibile della disciplina medesima ma in altri casi è un veicolo di comunicazione tranquillamente sostituibile da un altro.

    • Inglese vs italiano rischia di diventare l’n-esima querelle des anciennes et des modernes con polarizzazioni eccessive dai due lati.
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      Il problema, concordo, non è nella capacità di far lezione in inglese per molti docenti che hanno speso e spendono periodi all’ estero e interagiscono abitualmente in inglese con loro colleghi.
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      Ma dissento sul fatto che la dimensione universitaria transnazionale si costruisca unicamente stabilendo che gli insegnamenti di un corso di laurea si tengono in inglese. Manca tutto il contorno.
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      E poi, anche nelle materie scientifiche occorre avere la capacità di esprimersi *anche* in italiano.
      O insegneremo tutte le materie scientifiche in lingua veicolare fin dalle elementari ? Io vedo una preoccupante incapacità di pur brillanti ricercatori a raccontare in italiano quello che fanno. Mi sembra preoccupante perché non ho mai visto un fenomeno del genere in altri paesi europei.

    • Gentile Marcati, ma infatti nessuno deve frenare nessuno. E’ importante fare le cose bene. In quanto a molti studenti cinesi, devo dirLe che, almeno nel mio campo, non conoscono quasi mai l’inglese. Siamo costretti a tradurre in italiano la bibliografia inglese. Le auguro una buona giornata!

  2. Direi proprio di no: tutta la linguistica nel Novecento (Boas, Sapir, Whorf, Lévi-Strauss, Cardona) insegna che la lingua non è un veicolo intercambiabile, bensì una visione del mondo, un modo di strutturare il pensiero per nulla commutabile alla stregua di un vestito o un arredo.
    Fanno eccezione, direi, i numeri in quanto segni liberamente traducibili in qualsiasi codice linguistico.
    Ciò detto, cominciamo a rompere l’anima con il ministero: come mai i livelli d’apprendimento dell’italiano sono così bassi? Perché la gente non sa più scrivere? Cosa si fa alle elementari? Che ne sarà delle tesi triennali e specialistiche con le attuali tendenze a ridurle e abolirle? Che ne sarà della preparazione del laureato quando bisognerà far posto a 24 crediti di psicologume? Perché continuiamo a parlare ossessivamente dei cinesi e degli indiani (che poi non arrivano in massa) e ci dimentichiamo di quello che sta accadendo ai nostri studenti?

    • Purtroppo il ministero è parte del problema. Basta leggere le Indicazioni Nazionali (IN) per le varie materie (quello che ha sostituito i programmi) per capire almeno una delle cause dei livelli bassi: troppo, troppo presto, senza solidificare le basi.

  3. Un’ osservazione sulla frase “Gli esami sono per la maggior parte orali; salvo qualche seminario, il primo vero confronto con la scrittura avviene al momento di stilare la tesina triennale. ”
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    Nel mio campo (fisica) ma anche in altre materie scientifiche e’ usuale avere esami che comprendono uno scritto. Non è che correggere lo svolgimento di problemi di fisica o di matematica sia tanto più semplice o rapido di correggere brevi composizioni in italiano. Eppure si riesce a fare anche in corsi con centinaia di studenti.
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    Perché in un corso di laurea umanistico non è possibile aumentare il numero di esami con scritto ?

  4. Concordo con Pastore. Da quest’anno introduco esami scritti, ma non test a crocette, bensì risposte articolate, a mano e su protocollo. Rimane il fatto verissimo che il ministero è pars magna nella costruzione in-culturale di questi ultimi decenni, con adeguamenti scandalosi da parte di molti. Una mia collega ha detto in consiglio che (per un laureato umanistico) scrivere è una ‘perdita di tempo’. A questo punto potremmo chiudere e dedicarci al giardinaggio, forse con maggior profitto.

    • Mah, questa collega che ritiene lo scrivere “una perdita di tempo” non mi trova certo d’accordo. Invece mi sembra utile l’esame scritto con risposte articolate. Per Storia della musica lo stiamo usando anche noi. Insomma, è sempre un gran fatica! Buona Pasqua.

  5. Problema un po’ complesso. Semplificherò: che sia inglese, italiano, o swahili la lingua veicolare, l’importante è la capacità di argomentare, di creare discorso e contenuti, oltre che di elaborare quelli altrui.
    Ho studiato inglese per una vita ( a scanso di equivoci) ed è lingua che amo molto, come d’altronde quella italiana. Che usi l’una o l’altra, il mio sforzo è esprimere i risultati del mio studio e comunicarli il più efficacemente possibile. Lo stesso fanno i miei studenti, sapendo che l’errore è possibile in una o l’altra lingua, ma ci si può correggere.
    Buonsenso, spero, non provincialismo.

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