Il problema della mancanza di rapporti tra formazione culturale specializzata e innovazione è un problema culturale cronico per l’Italia. Non a caso uno dei nostri primati è quello delle “invenzioni” perdute per “incompetenza promozionale”: il caso del telefono di Meucci e dello scippo da parte di Graham Bell, il caso di Marconi che portò la Wireless in Inghilterra, il caso di Olivetti che aveva il PC che poi diventò il gioiello dell’IBM, il caso dei batteri produttori di insulina di Roberto Crea, scippato di peso dagli americani, il caso del Diesel Common Rail Multiair della Fiat che poi finì in Germania, e così pure la Smart, e chissà quant’altro, è legato a nostri cervelli in fuga, capitali viventi offerti gratuitamente al resto del mondo.
Io penso che questa dissipazione connaturata alla nostra cultura tradizionale abbia una grande varietà di concause, il che mi lascia pensare che sia quasi impossibile venirne fuori. Tuttavia, se si riuscisse a rendere consapevoli molti italiani del danno che ne viene allo sviluppo, forse questo potrebbe diventare un nodo centrale della politica togliendo spazio alle innumerevoli favole in cui i politici sono oggi impegnati. Conviene seguire un certo ordine di successione delle concause, che aiuta a schiarirsi le idee e a farsi convinzioni ragionate autonome a livello personale o, almeno, di piccole comunità congruenti. Ci provo:
1 – La formazione dei periti industriali è stata, per qualche tempo (negli ITIS) una risorsa di competenze anche pratiche di notevole valore applicativo. Forse, il risultato più importante conseguito è stato quello di dare un ruolo a persone dotate di adattabilità alle esigenze di aziende che avevano necessità di gestione di impianti ma senza essere corrotti dalla rigidità di regole burocratiche (naturalmente, però, con criteri razionali di efficienza e sicurezza introitati nell’insegnamento tecnico come autocoscienza responsabile). Questa figura professionale si è un po’ appannata nel tempo; forse, in misura deplorevole, per la solita concorrenza degli studi “classici” elevati al rango di indice di promozione sociale.
2 – I corsi di laurea in ingegneria. Hanno una forte tradizione con l’obiettivo di professionalizzare nel privato i neolaureati sia triennali che di seconda laurea. Hanno però anche indirizzi di “dottorato di ricerca”. La struttura dei corsi è ancorata a una tradizione pluridecennale che non sembra disponibile a trasformazioni. Le Facoltà dispongono di laboratori e relativi insegnamenti: ma non sembra che si distinguano per questo sotto il profilo del trasferimento tecnologico, pure auspicato nelle “grandi occasioni”. Così pure gli argomenti di tesi riguardano spesso progetti routinari di interesse del relatore piuttosto che piccole o grandi ricerche di settore; non fanno eccezione i Politecnici, che, pure, sembrano coltivare interessi di superiore importanza sociale.
3 – Fino a qualche tempo fa, le lauree e i dottorati di biologia, chimica, fisica si svolgevano con la piena collaborazione di Enti come il CNR, l’INFN e l’ENEA: personale ricercatore di questi enti offriva tesi agli studenti nonché accesso ai propri laboratori esterni. Oggi, l’ENEA sembra scomparso; il CNR compare agli esordienti, anche con i suoi servizi di ricerca, ma assai di rado e alimentando spesso una profonda diffidenza verso i colleghi accademici (specie nel campo umanistico); l’INFN è l’unico sempre presente perché, grazie all’intuizione di Edoardo Amaldi (anni ’50), le sue sezioni sono ospitate – inclusi i servizi di ricerca operanti nei Laboratori Nazionali o al CERN di Ginevra – presso le sedi universitarie dei Dipartimenti (“sezioni INFN”). Ma non è stato mai chiarito (il che è particolarmente grave per l’ENEA) che cosa sarebbe possibile e desiderabile fare per il “trasferimento tecnologico all’industria”.
4 – Gli imprenditori italiani hanno un livello culturale molto basso; competenti in problemi di amministrazione e gestione di personale, sono polarizzati sugli aspetti finanziari ordinari e lontanissimi dalla mentalità di chi ricorre a venture capitals (capitali a rischio), indispensabili per avviare l’innovazione. Sono disponibili solo a investimenti collaudati con profitti a breve; e persino poco capaci di difendere un loro prodotto originale ben valutato altrove. L’ufficio studi della Banca d’Italia ha prodotto studi rilevanti sui venture capitals , mostrando che, lì dove si usano, un investimento su dieci va a buon fine e ripaga gli investitori per tutti, in tempi non troppo lunghi e con straordinari vantaggi economici. Ma le nostre ricchissime Fondazioni Bancarie non trattano mai con il privato inventore perché non sanno usare consulenti tecnici affidabili e temono di piombare in un ambiente dove alligna la corruzione, specie essendo gestite da CdA con poteri completamente discrezionali (a partire dal presidente): meglio restare a beneficiati istituzionali: musei, istituzioni culturali, religiose e simili)
Che cosa si può fare?
A dire il vero, il quadro è assai disarmante perché, senza voler citare Mao Tse Dong, qui non bastano le procedure comuni di una democrazia parlamentare: ci vorrebbe una rivoluzione culturale che, partendo dall’idea che il binomio burocrazia-economia lascia spazio solo alla speculazione fraudolenta, cacci via dai posti di comando un enorme numero di dirigenti che fanno il buono e il cattivo tempo a proprio vantaggio per rimpiazzarli tutti con persone che hanno un solido e dimostrabile “interesse pubblico”. Ma dove sono queste persone? Le forma forse la scuola attuale? Dobbiamo organizzare dei kibbutz in cui formarle? No, evidentemente siamo in una trappola: dovrebbe esserci una minoranza di individui relativamente giovani che, con una azione politica adeguata potrebbe essere scelta e promossa a gestire democraticamente il potere, tenendo a bada chi non è all’altezza. Questa scelta politica si trova davanti la barriera di chi governando si garantisce remunerazioni ineguagliabili grazie alla corruzione dilagante. Questa è la conseguenza degli anni di governo della destra berlusconiana di cui parliamo ormai tutti i giorni e che il “governo tecnico” sta tentando di abbattere. Ma il governo evidentemente non è abbastanza tecnico se, parlando di crescita e sviluppo si riparla solo di banche da rimettere in lizza, finanziamenti statali, tasse, evasori fiscali e tutti gli altri beni virtuali che intasano i nostri mezzi di comunicazione; e mai di beni materiali, produzioni e originalità innovativa nelle tecnologie necessarie. Non conosciamo il nostro futuro alimentare, energetico, abitativo, né la disponibilità di risorse comuni; peggio che mai, non sappiamo chi diavolo se ne occupa, al di là delle discusioni sui soldi disponibili.
Che cosa possiamo fare? Dobbiamo discutere, in massa, sul rimbecillimento della nostra cultura razionale, drogata da favole idealistiche e cambiamenti di costume invece che da creatività di interesse comune. Almeno, passasse l’idea! Ma i giovani non sembrano avviati a quello studio “curiosity driven” che ha retto i nostri anni subito dopo la fine della guerra, all’insegna della semplice parola “ricostruire”: lì, c’erano forse le macerie di pietra a darci coraggio nel ricordo dei morti; qui e oggi, abbiamo solo le macerie del benessere (la disoccupazione, la povertà e le disuguaglianze sociali), di fronte alle quali socchiudiamo gli occhi e chiudiamo il cervello. La rivoluzione è riaprirli…
Analisi interessante di un tema decisivo. Mi limito a due note.
Una prima, critica, sul primo punto. L’appannamento del ruolo dei periti industriali non è certamente dovuto ad un rinnovato ruolo dell’educazione classica sul piano della promozione sociale. Nel bene e nel male questa collocazione dell’istruzione classica come istruzione delle elite è sempre stata parte della cultura italiana (e, per inciso, non solo italiana: guardate cosa studiano a West Point…). Il processo di degrado dunque non ha a che fare con politiche culturali tradizionali, ma più probabilmente con sviluppi relativamente recenti che hanno concepito sempre di più gli studi di natura tecnica come se si trattasse di ‘studi da praticoni’.
Mi pare invece che il punto cruciale sia il quarto, che però non riguarda solo la classe imprenditoriale ma l’intera classe dirigente italiana che è, in parte consistente, una gerontocrazia illetterata, la quale detiene il potere consentendo margini di movimento soltanto a coloro di cui si fida in senso personale-familistico. La questione concerne tanto l’imprenditoria privata che gran parte dell’alta dirigenza statale e parastatale. Ho in mente alcuni casi che conosco di persona dove sono stati assegnati appalti milionari per la fornitura di servizi informatici, laddove tutti gli addetti ai lavori privatamente interpellati erano concordi nel dire che lo stesso lavoro si poteva fare per meno di un quarto della spesa, pur conservando margini di guadagno elevatissimi. Si dirà: la solita corruttela. Invece no, in generale non si trattava affatto di convincere alla concessione dell’appalto per vie traverse, quanto piuttosto di vera e propria sprovvedutezza: sono spesso assenti nell’amministrazione pubblica e nelle dirigenza privata risorse interne capaci di operare valutazioni di merito sul rapporto tra lavoro necessario e costi plausibili. Ed infatti, un detto corrente tra le ditte di servizi informatici è che la chiave tecnologica del successo in Italia è Power Point…
I ricercatori che in Italia guardano verso l’innovazione ed il trasferimento tecnologico esistono, ma vivono in una realtà che non condivide questa idea di ricerca.
Finche’ non si capirà che innovare non e’ l’ultimo passo di una attività scientifica, ma deve essere il primo pensiero che guida il lavoro del ricercatore non potrà esserci una vera cultura dell’innovazione tecnologica.
Il nostro paese non potrà avere inventori perché inventori non si nasce si diventa. Occorre che qualcuno faccia capire ai giovani ricercatori che il loro lavoro teorico può trasformarsi in innovazione, occorre che essi pensino in termini di prodotto e non di ricerca astratta.
In quale ufficio brevetti di Facoltà c’è personale con formazione adeguata a fornire questi rudimenti. L’unica cosa a cui si pensa sono gli spin off.
Vi dico una cosa: gli spin off sono la morte di un inventore. Significa costringerlo a fare ciò che in molti casi il ricercatore non e’, un imprenditore. Questo nel migliore dei casi, nel peggiore lo spin off e’ un modo per garantirsi fondi statali o europei.
Ovviamente le eccezioni esistono, ma ciò che l’universita dovrebbe perseguire e’ avere menti che trasferiscono le loro idee sul mercato, che attraggono aziende pronte a finanziare le loro ricerche.
Ma che fatica ! I brevetti non sono nemmeno valutati nelle abilitazioni (eppure chi brevetta e sviluppa prototipi non può immediatamente pubblicare), il credito di imposta per le aziende che investono in ricerca e’ stata una misura estemporanea, i brevetto hanno contato nel calcolo delle premialita’ dell’FFO solo in un anno.
Insomma tempi duri per la research innovation.
La leadership nelle invenzioni e nell´innovazione è inevitabilmente legata a due fondamentali fattori: la preparazione del management e il know-how nel settore a cui ci si riferisce. Posto come base, che dal mio punto di vista il problema del Know-how e della preparazione dei ricercatori in Italia non esiste (la piantina sopra), l´unico problema casomai è che sono troppo pochi, soprattutto in alcuni settori e sono SOTTO PAGATI (il deserto intorno alla piantina)!
Rimane l´altra parte della medaglia: il management. Per fare ricerca e innovazione si abbisogna di grandi investimenti (ad alto rischio) e un elevato livello di preparazione sia dal punto di vista del Project Management che tecnico. Ovviamente questo comporta dei costi molto elevati quindi molti hanno preferito 1) portare i capitali all´estero e investire in “altro” 2) portare le aziende all´estero in paesi a basso potenziale innovativo e trasferendo il know-how “di casa” 3) chiudere le aziende. Ma in questa direzione c´è solo una cosa, LA RETROCESSIONE INDUSTRIALE DEL PAESE. I grandi costi dell´innovazione rendono quasi impossibile per molte aziende rimanere al passo con lo sviluppo “innovativo” e per questo motivo sempre più spesso le aziende (all´estero) creano co-operazioni oltre i confini locali o dei paesi. Rimane quindi in Italia il punto focale della totale incapacità di gestire il CAPITALE UMANO e CONOSCITIVO, che invece all´estero viene ben apprezzano(anche se poi è a vantaggio di tutti, ma in primis delle aziende che lo hanno saputo far crescere, lo hanno curato e adeguatamente pagato e che hanno corso il rischio di investire nel nuovo)!.
In conclusione mia nonna mi diceva sempre: “non serve lavorare tanto e a “vanvera”, prima bisogna usare la testa!”
Come al solito si incolpano gli studi classici, che peraltro versano in cattivissime acque, di responsabilità che non hanno. A questa classe politica non interessa alcun tipo di studi, interessa risparmiare, creare classi pollaio, dislocare i presidi fuori dalle scuole (ogni preside governa tre o quattro istituti e gestisce -cioè non gestisce- mille e più studenti). I percorsi tecnico-professionali sono refugia peccatorum e la qualità dei futuri tecnici diventa l’ultima delle preoccupazioni.