Iniziai a interessarmi dell’attivismo politico di Aaron Swartz, grazie anche al contatto con amici comuni, in due occasioni. La prima fu quando montò la protesta contro il SOPA negli Stati Uniti d’America, e l’iniziativa Demand Progress si mostrò come una delle più efficaci nel panorama della dissidenza politica (non solo) digitale. Demand Progress contava molto su Aaron e, soprattutto, aveva molto di Aaron: l’idea di organizzare bene le forze e di non risparmiare energie per combattere per la libertà di manifestazione del pensiero e per la libertà della cultura, per un’Internet libera e aperta, per un’idea di comunità o, meglio, di “comune” tecnologica votata alla condivisione dei saperi. La seconda occasione fu quando arrivò anche in Italia la notizia del suo breve arresto per aver acceduto, dai locali del MIT, a un archivio pubblico di articoli scientifici. Fu l’inizio di una serie di vertenze civili e contrattuali ma, soprattutto, si accese nei suoi confronti un temibile procedimento penale per gravi reati informatici.
Aaron Swartz, è cosa nota, si è suicidato nel suo appartamento di New York circa un mese fa. In questo mese i ricordi, le celebrazioni, le notizie più o meno accurate, le prese di posizione delle istituzioni (spesso sulla difensiva) e i comunicati stampa ufficiali si sono sprecati. Il lettore, in Internet, potrà trovare qualsiasi informazione, compresi i ricordi dei suoi amici più cari, da Cory Doctorow a Lawrence Lessig.
In questa sede, però, vorrei soffermarmi su un aspetto della vita, e della vicenda, di Swartz che è, suo malgrado, strettamente correlato al mondo della ricerca, degli articoli scientifici e delle grandi banche dati a pagamento.
Come accennavo poco sopra, la vita di Swartz, nell’ultimo anno, si era adombrata a causa di minacce di reclusione per una sua operazione di “scaricamento” dalla rete del MIT, con una procedura automatizzata, di milioni di articoli scientifici (molti già nel pubblico dominio) prelevati dalla nota banca dati scientifica a pagamento JSTOR.
Tale comportamento generò due conseguenze giuridiche: i) una reazione, che poi si è andata smussando nei mesi successivi, da parte delle due istituzioni coinvolte, il titolare della banca dati JSTOR e i vertici del MIT, reazione correlata alle eventuali violazioni contrattuali e dei termini di servizio di un simile comportamento, e ii) una reazione, potremmo dire “d’ufficio”, da parte della Procura in base a una pesantissima normativa penale, il Computer Fraud and Abuse Act , che sanziona i cosiddetti reati informatici. Semplificando ulteriormente: con la sua azione Aaron si era “inimicato” le istituzioni (per un problema di contratto) ma “accedendo abusivamente” alla rete del MIT era andato anche a incappare in una normativa con limiti edittali molto alti pensata per sanzionare negli USA i criminali informatici e soprattutto i reati di accesso abusivo, di frode informatica e di danneggiamento ai sistemi.
Circa il primo punto, ossia la reazione delle istituzioni nei confronti del giovane, lascio al lettore la possibilità di farsi un’idea obiettiva: sono in Internet le dichiarazioni ufficiali sia di JSTOR sia del MIT, ancora oggi in home page. Il MIT ha poi annunciato un’indagine interna affidata a un professore di chiara fama, Hal Abelson, per cercare di capire come l’università si sia comportata nei confronti del giovane. JSTOR, ben prima del MIT, decise di abbandonare le accuse di violazione dei termini contrattuali nei confronti di Aaron.
Circa il secondo punto, invece, il problema è davvero spinoso, e non è questa la sede per affrontarlo compiutamente. Si tratta dell’uso della normativa prevista per i reati informatici anche nei confronti di persone coinvolte in casi nei quali la situazione si presenta, non solo dal punto di vista del profilo criminale ma anche dal punto di vista dei danni arrecati, di lieve entità. Anche in questo caso, in Internet il lettore attento alle fonti potrà reperire informazioni: gli atti d’accusa, le dichiarazioni del Procuratore, il fatto di una presunta pregressa ostilità da parte degli agenti federali nei confronti di Aaron per alcuni suoi comportamenti risalenti, e così via. Di certo, il suicidio del giovane proprio nei giorni in cui si doveva preparare ad affrontare un processo (che presumibilmente ci sarebbe stato in primavera) e nei quali le trattative dei suoi avvocati con la Procura sembrava non si fossero concluse bene, con conseguente minaccia concreta di reclusione, solleva per l’interprete problemi di non poco conto.
Ma veniamo al tema della ricerca. Aaron, fin dalla sua adolescenza, si era impegnato per la libertà dell’informazione, un approccio tipicamente hacker che ha informato tutta la sua vita. In particolare, aveva questa idea di una grande banca dati globale, di una sorta di mega-aggregatore, che avrebbe potuto fornire a chiunque dei contenuti liberamente fruibili. Si noti anche che Aaron era, intellettualmente, abbastanza irrequieto. Lanciava tanti progetti contemporaneamente, si stancava rapidamente di ambienti chiusi o poco stimolanti, girava per gli Stati Uniti cercando mentori e riferimenti ma, soprattutto, aveva un rapporto di amore-odio con il mondo universitario.
Nei testi di alcune sue conferenze consultabili in rete si legge dell’amore che aveva per alcune biblioteche (ad esempio: quella di Stanford) e del rispetto per alcuni professori ma anche della necessità urgente di avere in ogni luogo, e in ogni momento, il patrimonio informativo necessario per formare la sua cultura. Per Aaron, l’idea che le lezioni universitarie o gli articoli scientifici fossero chiusi in una banca dati o in una struttura a pagamento era contro il suo stesso modo di crescere, studiare e vivere: lui voleva che tutto il sapere fosse veicolabile, consultabile, ricercabile e utilizzabile per la formazione personale tramite un’Internet libera, un vero e proprio “hub culturale” e formativo che doveva raggiungere tutti, in tutto il mondo, anche coloro che non avevano la possibilità di frequentare un’università perché non se lo potevano permettere, o che non lo volevano fare perché propensi a gestire personalmente la loro formazione.
Cosa avrà pensato, allora, Aaron quando dall’interno del MIT, dal suo laptop Acer, fu in grado di “vedere” e comunicare con un archivio di articoli composto di milioni di contributi, un patrimonio della conoscenza enorme, con “prodotti” che avevano compiuto “uno strano giro”, erano stati generati all’interno dell’università, con fondi pubblici, poi ne erano usciti per rientrare sotto forma di una banca dati a pagamento. L’università pagava di nuovo, una seconda volta, ciò che aveva già pagato in fase di creazione di quel patrimonio di articoli.
Aaron combatteva per la trasparenza. Ed era convinto che la reale trasparenza fosse garantita dalla disponibilità aperta e senza vincoli delle fonti, degli articoli, della scienza. Ciò avrebbe consentito anche una verifica, una valutazione, una circolazione più rapida, un miglior confronto delle idee.
Come dicevo, la vicenda di Aaron ha la capacità di porre, all’interprete, tantissimi spunti di riflessione, spesso tristi, che spaziano da una delle malattie più terribili, la depressione, all’inquietudine derivante da un mondo di contenuti sempre più chiuso (e a pagamento), dalla forza impietosa del sistema penale (Lessig ha parlato di bullismo istituzionale) alla inadeguatezza di normative che non distinguono tra hacker e criminali.
Non si dimentichi, però, che Aaron era un ragazzo che sin da quando aveva dodici anni iniziò a pensare in modo aperto e libero, si ingegnò per creare degli aggregatori di sapere che consentissero a tutti di disporre dello scibile umano fruendone nelle modalità desiderate, adeguate alla propria mente, alla propria voglia di imparare, alla propria situazione economica, ai propri tempi di apprendimento.
E non è un caso che il conflitto si sia creato, e si sia concluso tragicamente, non solo con lo scontro con il diritto penale (diritto che, sui temi informatici, è per tradizione, non solo negli USA ma anche in Italia, liberticida e con sanzioni sproporzionate) ma anche con un’accademia che ora sta facendo marcia indietro, si sta scusando, ma che con sempre maggiore difficoltà riesce a garantire una reale gratuità e apertura dei prodotti della ricerca scientifica pubblica.
Cosa direbbe Aaron delle pubblicazioni dei dipartimenti o delle (ex) facoltà finanziate integralmente dall’università e non rese pubbliche? O delle sempre troppo poche riviste ad accesso aperto? O dell’idea, ancora radicata, che sia la rivista prestigiosa (e spesso chiusa, e a pagamento) a rendere di qualità la pubblicazione?
Ho trovato significativo che il carattere geniale di uno studioso che non verrà mai dimenticato si sia scontrato (purtroppo tragicamente) non solo con un sistema penale sui computer crimes inadeguato (e pericoloso), ma anche con il mondo dell’accademia e delle pubblicazioni. E non so se sarà più difficile modificare il sistema penale informatico, che si sta evolvendo con tendenze ben poco attente ai diritti di libertà, o le prassi di pubblicazione e di diffusione della conoscenza nell’accademia.
In un mondo (e in un sistema) perfetto, probabilmente, la rivoluzione avverrebbe in tutti e due gli ambiti. In un mondo perfetto, probabilmente, un evento come quello occorso ad Aaron porterebbe le università a rivedere gli accordi con gli editori e i proprietari di banche dati nel caso in cui tutta l’opera, o una buona parte, fosse “pagata” dall’università stessa, o a prediligere la diffusione in rete dell’opera per garantire quel confronto costante, quella review, quella disseminazione dei risultati della ricerca che dovrebbe essere il vero motore dell’innovazione, e che era alla base della vita di un ragazzo geniale (e non di un criminale informatico) morto troppo presto.
nota di metodo: l’articolo è molto interesante, tuttavia mancano i link alle fonti citate e il corpo del carattere è straordinariamente piccolo e faticoso da leggere.
grazie della segnalazione i caratteri sono stati sistemati
Ma quali sono i veri motivi che hanno indotto tutta una serie di agenzie governative (Department of Justice, Secret Service, FBI, per quanto ne sappiamo) a montare un peso insostenibile sulla testa di questo giovane?
Egli avrebbe potuto evitare la prospettiva di passare decine di anni in galera (35 !), solo riconoscendo di essere un “fellone”, ma questo avrebbe significato per lui mettersi fuori gioco dal campo dell’attivismo politico, perché un “fellone” non ha credibilità. E questo era evidentemente il vero scopo degli sforzi che le agenzie governative hanno perseguito.
Osserviamo che Aaron Swartz (a) ha dato assistenza a Wikileaks; (b) era in contatto con Julian Assange, anche durante il 2010 e il 2011; (c) è stato con ogni probabilità una fonte di Wikileaks; (d) aveva fatto numerosi tentativi di ottenere
notizie sul trattamento carcerario di Bradley Manning, attraverso il Freedon of Information Act (e) era stato in grado di organizzare in poche ore e sostenere e condurre a compimento con successo la battaglia contro SOPA-PIPA (cioè contro il tentativo di far passare surrettiziamente una legge che avrebbe consentito di esercitare una fortissima censura di internet, e che aveva evidentemente tra i suoi obiettivi proprio quello di impedire che potessero nascere nuovi casi come wikileaks; dico “surrettiziamente” perché mentre di solito le leggi sono il risultato di un lungo processo che porta a fare compromessi tra i diversi gruppi di interesse che premono sul Congresso, quella volta la legge venne fuori come dal nulla pochi giorni prima della votazione; e quel tentativo è stato poi ripetuto, cambiando il nome della legge: segno che le “forze” che la volevano erano ancora in piena attività ed erano fortemente motivate).
A questa lista si potrebbero aggiungere altri elementi, ma credo che questi siano sufficienti per capire perché c’è stato uno sforzo organico, da parte di diversi organi dello stato federale, per metterlo fuori gioco. Il caso JSTOR è stato chiaramente un pretesto, visto che lo stesso JSTOR si era subito ritirato dalla causa.
Tra l’altro, uno dei suoi interessi era anche il problema della corruzione degli individui che occupano posizioni istituzionali nel governo statale o federale.
Penso che non sia sbagliato avere riviste che richiedono un pagamento per leggere gli articoli: infatti la rivista offre un servizio, la valutazione dell’articolo e il lavoro redazionale che va retribuito.
Per la fisica e la matematica (e altre discipline) esiste già un archivio open-access (http://arxiv.org/) e tutti i ricercatori possono condividere gratuitamente con tutta la comunità il loro lavoro, ma una rivista da un valore aggiunto perchè ha effettuato una selezione dei lavori.
Infine “l’idea che sia la rivista prestigiosa (e spesso chiusa, e a pagamento) a rendere di qualità la pubblicazione” spesso è corretta: la rivista, per tenere alto il proprio nome, raramente pubblica articoli non validi o poco significativi. Su arxiv (o su qualunque tipo di rivista senza filtro di qualità) invece si trovano sia articoli eccellenti, che di bassa qualità.
L’idea di un archivio come arXiv è bellissima e fondamentale, ma penso allo stesso tempo che non si possa rinunciare a riviste che facciano una selezione dei lavori.
giusto, o sbagliato, rispetto a che cosa?
la selezione dei lavori viene fatta sulla base del lavoro gratuito degli esperti che sono all’uopo interpellati
io penso invece che questo sistema abbia raggiunto estremi non più tollerabili
la collettività paga due volte: la prima per rendere possibili le ricerche che sono alla base delle pubblicazioni
la seconda per avere accesso alle pubblicazioni
il costo degli abbonamenti è in alcuni casi sproporzionato
e tutto questo sistema arricchisce in modo appunto sproporzionato ditte private che non hanno contribuito con il finanziamento delle ricerche
credo che le università dovrebbero pensare a soluzioni alternative
in fondo sono le università che rendono possibili le ricerche che sono alla base delle pubblicazioni, e sono le università che rendono possibile la selezione stessa delle pubblicazioni, attraverso il lavoro gratuito degli esperti che vengono di volta in volta interpellati dai redattori della rivista per valutare appunto le memorie sottoposte per la pubblicazione
a mio avviso tutto questo sistema di pubblicazione e distribuzione dei risultati dello scibile dovrebbe essere sostituito con uno in cui sia assente la ricerca di profitti spropositati ma torni ad essere prioritario lo scopo primario: la diffusione della conoscenza
nell’era di internet non dovrebbe essere difficile farlo
potresti presentare la fonte di:”erano stati generati all’interno dell’università, con fondi pubblici, poi ne erano usciti per rientrare sotto forma di una banca dati a pagamento. L’università pagava di nuovo, una seconda volta, ciò che aveva già pagato in fase di creazione di quel patrimonio di articoli.”?
http://www.repubblica.it/tecnologia/2015/01/11/news/aaron_swartz_obama-104723010/?ref=HRLV-7
https://www.youtube.com/watch?v=K3m_QEx6FBs&feature=related
Muro di gomma.