“La riforma Gelmini non si cambia, bisogna solo oliare il sistema”. Questa dichiarazione del ministro Profumo riassume il modo con cui si porrà il governo rispetto alla legge 240/2010: non modificare la legge ma intervenire attraverso i decreti attuativi ed i regolamenti. Poichè in molte parti tale legge (chiamarla “riforma” mi sembra eccessivo) è al momento una scatola vuota, questo programma lascerebbe ampio spazio al nuovo governo se lo volesse, per migliorarla, riducendo la portata di alcuni dei suoi gravi difetti, e potenziando i suoi rari aspetti positivi.
Certo, “oliare il sistema” è una metafora persino meno emozionante della “strategia del cacciavite” (con cui l’ultimo governo Prodi voleva smontare qualche pezzetto della legge Moratti senza dover passare per voti parlamentari di incerto esito), ma da un governo tecnico non ci si può aspettare molto di più.
Al momento in cui il nuovo ministro è stato nominato, l’iter dell’attuazione della legge Gelmini si trovava (e si trova) in una situazione disastrosa:
i) L’abilitazione nazionale, condizione necessaria per assumere docenti universitari, si sarebbe dovuta svolgere (nei piani del precedente governo) verso la metà del 2011, ma i decreti attuativi sono ancora in alto mare e secondo le previsioni più ottimistiche le prime abilitazioni si svolgeranno alla fine del 2012. Secondo le previsioni più pessimistiche, molto più in là : non è chiaro se sia possibile superare le forche caudine del consiglio di stato; ovvero: è davvero applicabile la legge Gelmini, a ordinamento vigente?
ii) Nel frattempo, in tutte le università italiane sono stati banditi solamente due (due!) concorsi di ricercatore a tempo determinato di “tipologia B“, quelli impropriamente definiti con tenure track, che dovrebbero costituire, secondo la legge 240, il canale principale per l’ingresso di nuovi giovani docenti nell’Università italiana. Evidentemente qualcosa non va nell’architettura del sistema.
iii) In altre parole, l’Università italiana è bloccata, proprio nel momento in cui viene colpita in pieno dallo “tsunami” dei pensionamenti previsto anni fa da Sylos Labini e Zapperi: secondo l’ufficio statistico del MIUR, i pensionamenti nel 2010 sono stati l’80% in piu’ che nel 2009, e la situazione non può che peggiorare.
In questa situazione di paralisi, alla fine di dicembre il mondo accademico è stato scosso da un decreto dal titolo altisonante: “Piano Straordinario per la chiamata di professori di seconda fascia“. Si tratta di un finanziamento previsto dall’art.29 della legge Gelmini per il triennio 2011-2013, nel tentativo di mitigare gli effetti della transizione da tre a due fasce docenti. L’idea del precedente governo era che entro il 2011 si sarebbero svolte le prime abilitazioni, il reclutamento e le progressioni di carriera sarebbero ripartite, e con questi finanziamenti sarebbe stato possibile sia far progredire gli attuali ricercatori, sia assumere nuovi docenti.
Quando è stato chiaro che, almeno per il 2011, non si sarebbero svolte abilitazioni nazionali, si è temuto di perdere la prima tranche di questi finanziamenti, e bene ha fatto il ministro ad agire velocemente per recuperare quelle risorse, emanando un decreto che ha permesso agli atenei di impegnare il finanziamento entro la fine del 2011. Peccato che, nel farlo, abbia compiuto (a mio parere) alcuni errori e passi falsi. Infatti, questo decreto contiene degli indizi (non confortanti) su quali potrebbero essere le idee di fondo che guideranno l’applicazione e la realizzazione della legge Gelmini da parte di questo governo. Vediamo perchè.
Non potendo utilizzare le risorse del Piano Straordinario (PS), come previsto inizialmente, per assumere abilitati, si è deciso di utilizzarle per assumere idonei, ovvero vincitori di idoneità a professore associato con i concorsi pre-legge Gelmini. Questi idonei (dell’ordine del migliaio di persone) sono praticamente tutti già in ruolo nelle università come ricercatori. Inoltre, il decreto allarga la platea dei destinatari del PS ad altre categorie che possano (con un pò di fantasia) essere equiparate ai fantomatici “abilitati”: studiosi stabilmente all’estero, professori associati di ruolo in altre università che si volessero trasferire. Si stabilisce inoltre che ogni università decida chi chiamare bandendo un concorso interno secondo l’art.18 della legge Gelmini, ovvero con la stessa procedura locale che (secondo la legge 240) verrà usata in futuro dagli atenei per reclutare docenti, tra chi avrà ottenuto l’abilitazione nazionale. Tuttavia, le università che nel 2010 hanno superato il rapporto del 90% tra spese per assegni fissi (AF) e fondo di finanziamento ordinario (FFO), sono escluse del tutto dal finanziamento.
Questo decreto ha suscitato numerose critiche, dai ricercatori della Rete 29 Aprile fino alla FLC-CGIL. Cercherò di elencare quelli che a mio parere sono i punti di maggiore criticità di questo provvedimento.
1) La legge 240, pur prevedendo in alcuni suoi articoli l’assunzione di studiosi stabilmente all’estero e i trasferimenti di professori associati, non includeva queste figure nella platea dei destinatari al PS. Non è chiaro per quale motivo siano stati inclusi. Per di più, alcuni atenei hanno incluso ulteriori categorie, come ad esempio i vincitori di programmi di ricerca ERC e FIRB “Futuro in ricerca”. Le procedure di selezione mediante l’art.18, quindi, costituiranno una sorta di concorso riservato, a cui potranno partecipare alcune categorie (variabili da un ateneo all’altro) e non altre. Mentre l’inclusione degli idonei appare giustificata (sono persone che hanno già vinto un concorso), lo è molto meno l’inclusione di studiosi stabilmente all’estero, di professori associati che si vogliono trasferire, di vincitori di programmi di ricerca. Ogni volta che si svolge un concorso riservato, il merito delle persone è il grande sconfitto.
Un aspetto positivo del decreto Profumo (e della sua nota di accompagnamento) è la possibilità di prevedere che una parte delle risorse vengano accantonate per un secondo bando, da svolgersi alla fine del 2012, quando (sperabilmente) le prime procedure di abilitazione si saranno svolte. Alcuni atenei hanno utilizzato questa possibilità, ad esempio accantonando in questo modo le risorse liberate dai candidati interni vincitori dei posti messi a concorso con il PS. Tuttavia, va sottolineato come questo decreto permette di impegnare per l’assunzione di idonei e di appartenenti ad altre categorie specifiche non solo il finanziamento 2011, ma gran parte del finanziamento 2012, che così non potrà essere utilizzato per l’assunzione di abilitati, come sarebbe stato possibile e come previsto dalla legge 240.
2) Uno dei pochissimi aspetti a mio parere positivi della legge Gelmini è costituito da un codicillo dell’art.18, in cui si prevede che il 20% delle posizioni debba andare a candidati che vengono dall’esterno dell’ateneo. Questo sbloccherebbe una situazione in cui si viene assunti e si fa carriera quasi esclusivamente dall’interno, e, se per qualche motivo non si è in buoni rapporti con la propria struttura, ci si ritrova tagliati fuori senza appello. Questo 20% di posizioni sarebbe (almeno in parte) difficilmente controllabile dalle usuali triangolazioni accademiche, e per questo motivo lo vedo con favore.
Il PS costituirà una prima applicazione dell’articolo 18 della legge 240, e quindi anche del criterio del 20%. Peccato che nella nota del 28/12, il ministro ne abbia completamente svuotato la portata. Infatti, mentre la legge 240 parla del 20% delle posizioni (per la precisione, vincola “le risorse corrispondenti a un quinto dei posti disponibili”), nella nota ministeriale si parla del 20% delle risorse. Ora, visto che la promozione di un candidato già in ruolo nell’ateneo costa molto, molto meno della chiamata ex-novo di un esterno, il 20% delle risorse corrisponde a ben meno del 10% delle posizioni. Non riesco a capire per quale motivo il ministro abbia assecondato gli appetiti delle corporazioni accademiche con questo piccolo cambio di terminologia, mentre dichiara di voler “mischiare il sangue” degli studiosi. E non mi è chiaro se il criterio del 20% verrà annacquato solamente nel PS, o anche nell’applicazione ordinaria della legge 240.
3) Che il rapporto tra spese per stipendi e fondo di finanziamento ordinario alle università sia troppo alto, è una ovvietà. Meno ovvio, a quanto pare, è capire le ragioni di questo squilibrio.
Prima di tutto bisogna far piazza pulita di un equivoco: quello secondo cui nell’Università italiana ci sarebbero troppi docenti e troppo ricercatori. Semplicemente, non è così. Come indicano chiaramente le statistiche OCSE e UE, in Italia abbiamo molti meno docenti per studente, e molti meno ricercatori per abitante, di quasi tutti i paesi europei.
Nell’ultimo decennio, il numero dei docenti universitari e ricercatori è aumentato in misura molto limitata (circa il 10%, secondo i dati MIUR, a fronte di un incremento molto maggiore degli studenti universitari), rispetto ai valori caratteristici degli altri paesi europei, per quel che riguarda il rapporto docenti/studenti o il rapporto ricercatori/abitanti. Tuttavia, le spese per stipendi sono aumentate in misura molto maggiore. Il motivo di questo apparente paradosso sta nel fatto che le risorse sono state utilizzate prevalentemente per progressioni di carriera, piuttosto che per promozioni, e in questo modo le spese per stipendi sono aumentate, senza che aumentasse adeguatamente il numero di docenti e ricercatori italiani (si vedano ad esempio i dati MIUR su personale e stipendi). Ci ritroviamo così con la classe docente più vecchia d’europa. Per di più, a fronte delle riduzioni del finanziamento statale (circa il 10% negli ultimi anni), la spesa per stipendi non poteva ridursi, e molte università si sono trovate a spendere in stipendi più del 90% del FFO.
Tuttavia, le università che hanno fatto cattive scelte nell’utilizzo dei finanziamenti (o quelle che hanno i bilanci dissestati) non coincidono necessariamente con quelle che superano il limite del 90% AF/FFO. Ad esempio, un ateneo che avesse mirato con decisione a valori comparabili al resto d’europa per quel che riguarda il numero dei docenti e dei ricercatori, assumendo un gran numero di giovani studiosi, si troverebbe con una classe docente giovane e dinamica, una grande capacità di far ricerca e didattica di qualità, ma con un rapporto AF/FFO superiore al 90%, a causa della riduzione del denominatore della frazione.
Si aggiunga il fatto che utilizzando come criterio premiale il rapporto AF/FFO, si valuta necessariamente l’intero ateneo, ma la dimensione di ateneo è spesso troppo vasta per una efficace correlazione tra comportamenti, premialità, e comportamenti successivi. Con la legge 240 la gestione dell’ateneo è interamente in mano al rettore, e può accadere che singoli dipartimenti non abbiano nessuna possibilità di influenzare tale gestione. Meglio sarebbe valutare direttamente i dipartimenti, come si sta finalmente cominciando a fare, ad esempio, con la valutazione VQR.
Il criterio del 90%, che viene utilizzato, de facto, come criterio premiale, è quindi per diverse ragioni inadeguato a questo scopo. La legge Gelmini prevede che agli atenei che non lo soddisfano sia preclusa ogni possibilità di reclutamento di personale docente. Questo significa decretare la morte, o la drastica riduzione, di alcune strutture universitarie (già oggi un terzo degli atenei, dal prossimo anno la maggioranza), spesso incolpevoli, senza una reale valutazione di merito. La consapevolezza di questi limiti si è diffusa sempre più negli ultimi anni, e c’era speranza che il nuovo governo riconsiderasse il ruolo di tale criterio. E’ stato quindi sorprendente che il ministro abbia deciso, al contrario, di utilizzare questo stesso criterio per il PS. Questa scelta fa temere che il ruolo centrale che la legge Gelmini assegna al rapporto AF/FFO verrà mantenuto da questo governo.
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Il Piano straordinario di reclutamento è stato fin nella sua concezione un tentativo inadeguato e mal posto per curare gli effetti drammatici della subitanea cancellazione di una fascia docente. Uno dei suoi limiti principali, a mio parere, è stato quello di concentrarsi soprattutto sugli avanzamenti di carriera, mentre, come risulta sempre più chiaro, le vere vittime della legge 240 sono i giovani precari della ricerca, una generazione perduta che si trova costretta ad andare all’estero, con grande danno per il nostro paese, o a cambiare attività. Questo limite è stato accentuato dal decreto Profumo, che ne limita ancor più l’applicazione, trasformandolo in una sorta di lotteria a cui potranno partecipare coloro che si trovano nel luogo giusto, al momento giusto, e fanno parte della categoria giusta. Sarebbe stato auspicabile, al contrario, un allargamento dell’applicazione di questo piano:
– posticipandone almeno una parte a quando le abilitazioni saranno partite, senza introdurre arbitrariamente categorie di para-abilitati;
– mantenendo il criterio del 20% delle posizioni da altri atenei, come previsto dalla legge 240;
– utilizzando un criterio premiale diverso dal rapporto AF/FFO;
– accompagnandolo ad un piano, altrettanto urgente, per l’assunzione di ricercatori a tempo determinato di tipo B;
– aumentando sostanzialmente i finanziamenti per l’assunzione di personale docente e ricercatore, prima che lo tsunami dei pensionamenti spezzi irrimediabilmente la catena di trasmissione della Conoscenza: una volta che una scuola di pensiero è scomparsa, è molto difficile farla rinascere; è come disboscare la foresta Amazzonica, pensando di piantare nuovamente gli alberi in futuro, quando ci saranno più risorse. Per evitare che questo accada bisogna investire di più, immediatamente. Anche a costo di rinunciare a qualcuno dei 131 cacciabombardieri F-35…