L’ideologia del “genio” e la pressione costante delle prestazioni aleggia ovunque come un fantasma: devi continuamente produrre idee brillanti, pubblicare cose “sexy”, produrre ricerca che abbia finalmente ed effettivamente un impatto. Non importava cosa avrei pubblicato, purché potessi attirare l’attenzione e ricevere la benedizione di qualche editore e far apparire la mia ricerca in una rivista “rilevante” – cioè con un alto fattore di impatto. Sì, sono stata costretta a produrre una cattiva scienza. Fu grazie a Jon Tennant che poi scoprii IGDORE: l’Istituto per la Ricerca e l’Educazione Aperta Distribuite Globalmente. Ho iniziato a lavorare per il settore privato mentre facevo volontariato a IGDORE.  La qualità della mia vita è migliorata, il mio equilibrio tra vita e lavoro è molto più sano e non mi manca affatto l’aria soffocante della torre d’avorio. Se la ricerca scientifica viene effettuata solo da poche persone, per poche persone, possiamo ancora chiamarla scienza? È tempo di reinventare la scienza, di abbattere le mura della sua torre d’avorio e di sognare un sogno più grande.

E’ possibile fare ricerca al di fuori dell’Accademia? Esiste una dimensione umana e sostenibile della ricerca scientifica? E’ possibile esistere come ricercatore al di fuori della Torre d’avorio? Riprendiamo qui (tradotta) una lunga riflessione di Paola Masuzzo che dà una possibile risposta a queste domande.

 

Se la ricerca scientifica viene effettuata solo da poche persone, per poche persone, possiamo ancora chiamarla scienza? Se la scienza è privata del suo intrinseco valore democratico, è ancora scienza?

Mi sono innamorata di un’idea.

Quando ho deciso di fare il dottorato di ricerca, è stato principalmente perché non ero ancora pronta a smettere di studiare. Amavo l’odore dei libri (lo amo tutt’ora), amavo fare esperimenti sul mio computer e mi piaceva leggere la letteratura scientifica. Adoravo la scienza – allo stesso modo in cui si può adorare una divinità, qualcosa di divino che sembra essere al di sopra di tutto, ma che allo stesso tempo influisce su tutto. In breve, pensavo alla scienza come a un prezioso dono concesso all’umanità da un gruppo di persone super intelligenti e super affascinanti. E semplicemente volevo essere una di loro.

Quanto mi sbagliavo. Dodici anni dopo, posso dire – non senza una punta di vergogna – che non avevo capito molto di tutto ciò. In mia difesa, nessuno all’università mi aveva mai detto che la scienza è un’attività produttiva (figurati) e che, come qualsiasi altra attività produttiva, è completamente influenzata dalla struttura di tutto ciò che la circonda. Qualcuno decide cosa vale la pena di essere studiato e cosa no, qualcuno siede al tavolo della valutazione della ricerca e decide chi è degno di perseguire una carriera accademica e chi no. Ci sono voluti alcuni anni per capirlo: Richard Lewontin scrive in “Uno scetticismo ragionevole“: “La scienza è un’istituzione sociale di cui c’è molta incomprensione, persino tra coloro che ne fanno parte.” Io direi addirittura: “soprattutto tra coloro che ne fanno parte.”

Guardando indietro adesso, non posso dire sicuramente di essermi pentita di aver intrapreso il dottorato di ricerca: quel periodo della mia vita mi ha insegnato come pensare criticamente, come gestire il mio tempo e le mie energie mentali e fisiche; anche se, a dire la verità, questa cosa me l’ha insegnata la terapia, non l’accademia. Ma non è stato sicuramente tutto rose e fiori: il dottorato ha instillato in me la convinzione di non essere abbastanza brava e che non lo sarei mai stata. L’ideologia del “genio” è consumata all’interno delle mura accademiche e la pressione costante delle prestazioni aleggia ovunque come un fantasma: devi continuamente produrre idee brillanti, pubblicare cose “sexy”, produrre ricerca che abbia finalmente ed effettivamente un impatto. Impatto: nessuno si cura abbastanza di spiegare cosa significhi per davvero. Tutto ciò di cui ho sentito parlare, quasi ogni giorno, per quattro anni di fila, era: fattore di impatto (impact factor), quel numero temuto che le riviste usano per dire al mondo quanto siano importanti. Non importava cosa avrei pubblicato, purché potessi attirare l’attenzione e ricevere la benedizione di qualche editore e far apparire la mia ricerca in una rivista “rilevante” – cioè con un alto fattore di impatto.

Sì, sono stata costretta a produrre una cattiva scienza. Ma ancora una volta, non me ne sono resa conto fino a molto più tardi.

Durante il mio dottorato, ho anche potuto vedere come funziona effettivamente la pubblicazione scientifica. La ricerca richiede mesi se non anni di lavoro, a seconda di ciò che si sta studiando e delle metodologie adottate: nella ricerca incentrata sui dati, è necessario raccogliere campioni, analizzarli e collaborare con ricercatori di laboratorio e statistici. E questo è solo il lavoro che precede la stesura di un vero e proprio articolo scientifico. Una volta che si inizia a scriverlo, passa attraverso tonnellate di iterazioni di levigatura, requisiti di formattazione che sono diversi per ogni rivista, e così via. Versi lacrime e sudore nel processo, solo per renderti conto alla fine di tutto ciò che – boom! – quanto hai prodotto non ti appartiene più.

“Come?” potreste chiedere voi. Beh, la maggior parte delle persone che fanno ricerca firma accordi di trasferimento del copyright quando desiderano pubblicare i loro risultati su riviste. Ricordo di essere rimasta confusa e sorpresa quando il mio supervisore mi spiegò perché ciò fosse necessario (devo ammettere che all’epoca capii le ragioni tecniche, ma ben poco altro). Mi spiegò anche perché pagare alle case editrici una enorme somma di denaro per pubblicare i nostri risultati, mentre cedevamo il copyright sul nostro stesso lavoro, fosse un elemento chiave delle pubblicazioni accademiche subscription-based. In sostanza, queste case editrici traggono profitto da un lavoro che non hanno prodotto loro stesse, costringendo noi autori e autrici a rinunciare a tutti i diritti sul nostro  lavoro. Non sorprende che abbiano margini di profitto di circa il 40%, superando persino le grandi banche. All’epoca non aveva molto senso per me, e ancora oggi non ne ha.

Quello di cui avevo davvero bisogno era trovare uno spazio alternativo in cui potessi sentirmi me stessa, dove potessi sentirmi al sicuro, vista e ascoltata, pur essendo una ricercatrice. Poco dopo ho scoperto il movimento Open Access, e il più ampio movimento di riforma dell’Open Science, e ho capito che era un mondo che valeva la pena esplorare. Nel 2001, un gruppo di ricercatori stufi delle case editrici ha avviato una petizione online chiedendo a tutti gli scienziati di impegnarsi a non inviare più articoli a riviste che non rendevano disponibile il testo integrale dei loro lavori a tutti. Questo è stato l’inizio del movimento Open Access, che è stato poi formalmente fondato nel 2002 attraverso la Budapest open access initiative.

Una delle voci più forti nell’attivismo Open Access era quella di Jon Tennant. Al terzo anno del mio dottorato, l’ho incontrato per caso, in una conferenza in Belgio. Abbiamo parlato di accademia, di articoli, di pubblicazione, di ogni sorta di cosa. Abbiamo passato ore a parlare di Aaron Swartz, il programmatore informatico del MIT e attivista di Internet che è stato condannato per aver scaricato centinaia di articoli di ricerca da una biblioteca digitale. Swartz ha scritto il Guerrilla Open Access Manifesto, un testo breve ma potente che esprime chiaramente perché l’Open Access è una causa degna di essere combattuta.

Jon ed io siamo diventati amici. Si definiva uno “scienziato ribelle”: la prima volta che ho sentito questo termine, ho finalmente capito che non appartenevo più all’accademia. Mi ha colpito come un pugno nello stomaco. Jon capiva i miei sentimenti: abbiamo trascorso il nostro tempo insieme lavorando su progetti rivoluzionari, immaginando un tipo diverso di università, un luogo dove poter essere noi stessi, rispettare le nostre ambizioni, seguire la nostra libertà di pensiero e pubblicare ovunque volessimo, senza dover continuare a obbedire agli dèi conosciuti come editori scientifici. Nel 1942, nel suo saggio fondamentale “Scienza e tecnologia in un ordine democratico”, il pioniere della sociologia Robert K. Merton lo ha detto proprio bene:

“Un’istituzione sotto attacco deve riesaminare le sue fondamenta, riaffermare i suoi obiettivi, cercare la sua giustificazione. […] Una torre d’avorio diventa insostenibile quando le sue mura sono sotto attacco prolungato.”

La torre d’avorio mi ha tenuto imprigionata per troppo tempo, era ora di abbattere i suoi muri. Fu grazie a Jon che poi scoprii IGDORE: l’Istituto per la Ricerca e l’Educazione Aperta Distribuite Globalmente. Ricordo ancora le sue parole: “unisciti a IGDORE, potresti riacquistare quella sensazione di appartenenza che hai perso lungo la strada”.

Aveva proprio ragione.

La missione di IGDORE mi sembrava un sogno – un sogno coltivato da un gruppo di persone “dedicate al miglioramento della qualità della scienza, dell’istruzione scientifica e della qualità della vita per i ricercatori, gli studenti e le loro famiglie”. Ho completato il mio dottorato e mi sono unita a IGDORE mantenendo una doppia affiliazione per un paio di anni, poi durante il mio post-doc ho deciso che ne avevo abbastanza dell’accademia, così me ne sono andata e non ho mai guardato indietro.

IGDORE è diventato poi lo spazio che ho deciso di occupare, dove potevo ancora definirmi una ricercatrice, pubblicare con un’affiliazione – continuando a sognare un nuovo tipo di accademia. Avevo ancora bisogno di fare la spesa e pagare le bollette, ovviamente, quindi ho iniziato a lavorare per il settore privato mentre facevo volontariato a IGDORE. Tutti mi dicevano che mi sarei pentita di questa decisione, che non mi sarei adattata alla logica del profitto del settore privato e che mi sarebbe mancato lo spirito puro della ricerca accademica. Si sbagliavano di grosso. La qualità della mia vita è migliorata, il mio equilibrio tra vita e lavoro è molto più sano e non mi manca affatto l’aria soffocante della torre d’avorio.

Da allora, ho pubblicato molti articoli sull’ Open Science e sulla comunicazione scientifica con la mia affiliazione a IGDORE, ho lavorato allo sviluppo di Risorse Didattiche Aperte, e ho incontrato ricercatori e ricercatrici indipendenti da tutto il mondo. Con il passare degli anni, IGDORE è diventato per me molto più di un’entità per cui semplicemente faccio volontariato – oggi siedo nel suo Consiglio Direttivo, e vorrei che l’istituto diventasse un esempio concreto di come sia possibile fare ricerca in modo diverso. Quello di cui sono molto orgogliosa è il Codice di Condotta per la Ricerca di IGDORE in cui incoraggiamo tutti i ricercatori membri a rendere le loro pubblicazioni disponibili a tutti pubblicandole sotto una licenza “Open Access”. Poiché crediamo che la scienza debba essere trasparente, chiediamo loro anche di fornire tutti i dati che hanno portato alle loro pubblicazioni, in modo che altri ricercatori possano verificare e riprodurre i loro risultati in modo indipendente.

In questo modo, apriamo la ricerca – il che significa fondamentalmente che riportiamo la scienza là dove dovrebbe essere: al servizio della società e dei suoi membri – ognuno di loro. Ciò significa che gli articoli di ricerca non sono più intrappolati dietro i paywall ma possono essere accessibili e letti da chiunque e diventano in questo modo possibili forme attive di cittadinanza scientifica, in cui tutti fanno parte del processo scientifico – dopo tutto, gran parte del dominio pubblico della ricerca è finanziato con le tasse. Ciò significa anche che gli autori possono conservare i loro diritti d’autore e che c’è libera circolazione della conoscenza. In breve, esiste un contesto in cui la scienza può di nuovo essere un processo democratico che coinvolge tutti, e non solo pochi eletti.

Sì, credo profondamente che la scienza sia (o dovrebbe essere) democratica. Tuttavia, sono consapevole di ciò che ha detto il famoso giornalista scientifico italiano Piero Angela: “La velocità della luce non può essere decisa con una votazione a maggioranza” – e che questa frase è stata ampiamente utilizzata per affermare che la scienza non è e non può essere democratica. Sebbene la velocità della luce sia una costante fisica universale e che esista un modo preciso per misurarla, credo effettivamente che scienza e democrazia abbiano molto più in comune di quanto ci vogliono far credere. Innanzitutto, hanno bisogno l’una dell’altra: la scienza ha bisogno della democrazia – e della libertà di pensiero – per prosperare, e la democrazia ha bisogno della scienza per garantire un’innovazione costante nella cultura, nella società e nell’economia. Dopotutto, per essere condotta, la ricerca ha bisogno di denaro e i governi scelgono quanto del loro budget interno destinare ad essa. E chi decide cosa deve essere indagato? I decisori politici, che i cittadini eleggono tramite processi democratici.

Ma c’è ancora di più.

Il filosofo del diritto italiano Norberto Bobbio ha definito la democrazia come un modo per prendere decisioni collettive. Un gruppo democratico è un gruppo, ha detto, in cui almeno due regole per prendere decisioni collettive sono valide: “tutti partecipano alla decisione; la decisione viene presa a maggioranza dopo una discussione aperta e inclusiva”.

Questo può essere applicato alla scienza? Secondo John Ziman, fisico, umanista e portavoce della scienza, sì: “l’obiettivo della scienza non è solo acquisire informazioni, né esprimere tutte le nozioni non contraddittorie; il suo obiettivo è un consenso di opinione razionale sul campo più vasto possibile”.

E se ci pensate, è così che funziona la ricerca, giusto? In una prima fase, più privata, gruppi di ricercatori mettono in discussione il mondo e cercano di comprenderlo, mentre in una seconda fase, più pubblica, i risultati vengono sottoposti a una critica e comunicati a tutti. Certo, ci sono molti metodi per farlo, ma nessuno potrà mai (o dovrebbe mai) trascurare il “consenso di opinione razionale”: questa pratica garantisce che l’autorità ex cathedra del processo scientifico venga smantellata.

Questa pratica è intrinsecamente democratica, e così lo è la scienza.

Il teorico della scienza Merton, come già citato, ha parlato veramente di democrazia quando ha proposto un quadro di valori e norme per la scienza e gli scienziati nel lontano 1942:

  • Comunismo epistemico: la conoscenza appartiene a tutti e a tutte
  • Universalismo: tutti e tutte possono fare scienza
  • Disinteresse: ricercatori e ricercatrici non dovrebbero seguire i propri interessi personali ma lavorare per il “bene comune”
  • Scetticismo organizzato: il giudizio viene sospeso fino a quando i risultati non sono stati esaminati

Negli ultimi decenni, gli scienziati hanno dimenticato questi principi. La scienza è diventata elitaria, destinata solo a pochi membri iniziati, ad alto status e a coloro che hanno mezzi finanziari. E ha sfruttato i ricercatori/individui che effettivamente producono conoscenza e fanno il lavoro sul campo. Allo stesso tempo, ha escluso il pubblico ignorando che anch’esso fa parte del processo.

Per me, la Scienza Aperta è la missione per tornare ai valori fondamentali evidenziati da Merton. Se la ricerca scientifica viene effettuata solo da poche persone, per poche persone, possiamo ancora chiamarla scienza? Se la scienza è privata del suo intrinseco valore democratico, è ancora scienza?

“La scienza è un’istituzione sociale di cui c’è molta incomprensione, persino (specialmente) tra coloro che ne fanno parte.”

È tempo di reinventare la scienza, di abbattere le mura della sua torre d’avorio e di sognare un sogno più grande. E mentre sono seduta qui, riflettendo sul mio viaggio, mi rendo conto che non mi sono mai disinnamorata della scienza. Dovevo solo trovare un modo per farla coincidere con i miei valori più profondi.

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